Il cinema italiano gode buona salute: sì, no, forse. Sia esso la settima arte, rappresentativa della cultura di una nazione, sia esso elemento culturale oltre tutto facilmente esportabile, sia esso capitolo economico che apporta linfa vitale all’asfittico pil nazionale.
Senza dubbio sembrano lasciati alle spalle i tempi bui iniziati un paio di decenni fa quando la produzione nazionale, fatti salvi i pochi sporadici casi che emergevano forse più per mancanza di concorrenza che non per meriti specifici, affossavano ogni velleità di risorgimento ai fasti degli anni ‘60. Di questo timido rinnovamento è complice anche la televisione che con la produzione e l’importazione massiccia di serie ha contribuito a far sì che il cinema abbandonasse la commedia da panettone, genere questo del quale – peraltro – non sentiamo assolutamente la mancanza. Anzi. In virtù di ciò il settore del cinema come tutti gli altri settori artistici d’altronde, nonostante perpetui le proprie lamentationes ripetendo un mantra che oramai più nessuno ascolta, ha potuto così destinare le seppur obiettivamente scarse energie rimaste, a produzioni di un livello decisamente più accettabile. Ed i risultati si vedono. Si vedono soprattutto sulla scena internazionale dove ai grandi appuntamenti è ultimamente sempre presente un gruppetto di eroi nazionali e soprattutto di produzioni interamente, o quasi, italiane. Si vedono comunque perché, a detta della Fondazione Ente dello Spettacolo, già il 2013 è stato da considerarsi un “anno storico” e, sicuramente, tale appellativo deve valutarsi in euro e non in applausi.
C’è poi il rovescio della medaglia ovvero la costante e progressiva chiusura dei cinema monosala ma, oramai è cosa nota, le offerte paganti di vari network televisivi, il dilagare anche dei noleggi via internet, sicuramente inducono alla preferenza per la casalinga poltrona con tanto di stuzzichini e di bevande preferite all’incomodo di doversi spostare con problemi che si dividono equamente tra la mancanza di parcheggi, la lontananza della sala e, non in ultimo, l’obbligo dell’orario (tra l’altro, al riparo tra le domestiche mura, si può nel contempo giocherellare con lo smartphone, senza essere compiere l’immane fatica di socializzare). L’epoca del “nuovo cinema paradiso” è alla fine del proprio viale del tramonto. Qualsiasi di noi che abbia svolto un’attività da più di venti anni sa perfettamente quanto abbia dovuto cambiare il proprio modo di lavorare e questo cambiamento non poteva non investire la sala parrocchiale o il grande cinema centrale della città: effetti collaterali del progresso.
Le quasi enfatiche parole della Fondazione Ente dello Spettacolo derivano tuttavia da dati meramente contabili e quindi in realtà tengono solo conto dei “più bravi” e dei “più fortunati” (spesso solo dei “più ricchi”) e non del foltissimo tessuto di addetti ai lavori che per mancanza di mezzi non hanno potuto valorizzare e far conoscere il frutto del proprio lavoro ed ai quali non resta che domandare al Ministro Franceschini se insieme alla biblioteca dei libri non pubblicati fosse possibile aprire anche una cineteca per le pellicole non distribuite …. almeno avranno il conforto di un cimitero di Stato.
Ma adesso è tempo di premiazioni e di riconoscimenti e quindi non è il caso di sollevare questioni alle quali, d’altronde, ben lontana, sideralmente lontana, potrebbe apparire ogni qualsivoglia soluzione. Globi d’oro assegnati dall’Agenzia della Stampa Estera ad esempio ma, e soprattutto – aspettando il Festival di Venezia ed altri appuntamenti internazionali che tuttavia sono aperti alla produzione mondiale – il David di Donatello, che potremmo riconoscere come il più prestigioso premio italiano nel settore, è, oggi, l’occasione per cercare di ricomporre alcune considerazioni. I nomi che più sovente stanno apparendo anche nelle cosiddette “nomination” internazionali o sono apparsi negli italici concorsi già conclusi, si riducono ad una rosa abbastanza ristretta: “Anime nere” di Francesco Munzi, “Fango e gloria” di Leonardo Tiberi, “Il Giovane Favoloso” di Mario Martone, “Il Racconto dei racconti” di Matteo Garrone, “Mia madre” di Nanni Moretti, “Torneranno i prati” di Ermanno Olmi, “Youth” di Paolo Sorrentino e “Hungry Hearts” di Saverio Costanzo (detto anche “Cuori affamati” ma occorre chiedere al regista o forse al produttore – Sorrentino con il suo “Youth” perlomeno vanta una produzione internazionale – il perché di questo gratuito regalo all’anglofonia, anche se per facile intuizione possiamo presumere che “paghi”). Non v’è traccia alcuna, anche da una superficiale intuizione che scaturisce dalla lettura dei titoli (a parte forse quello del film di Martone), di commedia simil-natalizia, oramai devastata e declassata nel suo genere e nella sua declinazione da decenni di pellicole di intrattenimento più o meno grossolano. Non che non ne esistano, tutt’altro, ma oramai è quello un genere che per partenogenesi si rinnova annualmente solo ed esclusivamente con l’obiettivo di essere rapidamente e massicciamente consumato (ovvero far cassa per un’ora e mezzo spesso di mediocre oblio), senza l’ambizione (o la necessità) di partecipare a blasonati eventi. Anche se talvolta, tuttavia, sono proprie quelle, come ci ricorda il rapporto della Fondazione Ente dello Spettacolo, che più producono in termini di denaro, di ricchezza per il baraccone cinematografico e per il Paese. E ben vengano dunque e comunque, specie se in questi anni di timido rinnovamento, portano risorse destinabili a pellicole che hanno, quanto meno nelle intenzioni, l’idea di dare significato al termine di “altro spessore”.
Un barlume di memoria per quello che era il Cinema Italiano (che meriterebbe tutte le lettere maiuscole), la certezza che ormai abbiamo cineasti ed attori veramente bravi, una timida necessità di cultura, si spera, ci hanno portato in regalo pellicole che, come quelle elencate, almeno nel loro intento, l’intenzione di volersi presentare come il lato accademico della settima arte, quello più profondo, quello che supera i confini dell’intrattenimento per cercare di raccontare eventi, situazioni e condizioni, sociali e personali. In poche parole di lasciare una traccia sia estetica che psicologica, tale da indurre ad una qualche riflessione, in altre parole, di fare cultura. E come sappiamo questo tipo di film raramente produce profitto perché il suo destino è quello di produrre un arricchimento che non necessariamente potrà misurarsi direttamente in unità monetaria bensì, eventualmente, sempre per restare nell’universo produttivo, in capacità promozionale per il Paese. La macchina pubblicitaria si mette dunque in moto ma in questo contesto non saranno tanto i riconosciuti premi in sede nazionale quanto l’accoglienza ed i riconoscimenti in ambito internazionale che potranno stabilire se tali pellicole possono o meno aver assolto al loro augusto compito. E qui sappiamo che i veri esami si affrontano soprattutto a Cannes e ad Hollywood (senza dimenticare Berlino) anche se oramai la tendenza a celebrare una “semplice” nomination spesso produce lo stesso impatto – immeritato – di un premio ricevuto.
Tra le pellicole sopra menzionate unicamente in virtù della loro ricorrente presenza nei festival nostrani si possono individuare alcuni filoni tematici che sono stati scelti. Innanzi tutto quello commemorativo grazie al centenario appena trascorso dell’inizio della Prima Guerra Mondiale e lì, francamente, resta difficile trovare nelle pellicole dedicate, qualcosa che abbia valicato i confini della retorica e degli stereotipi. E l’occasione commemorativa diventa una coperta molto corta che assolutamente non riesce né a nascondere né a sublimare l’ovvietà mielosa che li avvolge. E questo per due ragioni. In primis perché, una volta tanto nella storia, morti e tragedie quanto meno avevano prodotto una vittoria (senza il benché minimo cenno di trionfalismo non vedo però perché dimenticarsene, ono in tanti in fondo coloro che hanno goduto delle conseguenze) e poi perché ben altre pellicole – alcune veri e propri capolavori – fanno parte della produzione nazionale, da “La grande Guerra” a “Uomini contro”, solo per citare due degli emblemi i cui autori e interpreti stanno adesso rivoltandosi nella tomba. L’intento era in questo caso più che onorevole e tutta la vasta precedente produzione avrebbe potuto dare una marcia in più e non divenire qualcosa da scimmiottare tra i soliti stereotipi (la montagna gelata, veneti e meridionali al fronte, come se dalle altre regioni tutti fossero rimasti a casa) ed insipide storie infarcite dei consueti spezzoni di documentario a dimostrazione che non sarebbe stato altrimenti possibile arrivare ai tempi minimi necessari ad essere considerati film. Nell’uno Ermanno Olmi (che ci aveva abituato ad un uso ben diverso dell’elegia) manifesta tutta la consapevolezza di un lavoro fatto “su commissione” (una marchetta insomma), nell’altro, Leonardi Tiberi dovrebbe spiegarci come il “Sacrario del Milite Ignoto” possa quasi ridursi a tomba solo di chi sia stato contagiato dalla doppia sfortuna di essere morto a pochi giorni dall’armistizio e di non essere stato riconosciuto (grazie ad un compagno d’armi ladro, tanto per meglio esemplificare la figura del soldato italiano, che, trovatolo morente, gli ruba l’orologio, unico elemento capace di identificarlo per la moda di allora di inciderci le cifre del proprio nome). C’è chi molto più realisticamente e più verosimilmente è stato semplicemente fatto a pezzi e reso irriconoscibile da una bomba; l’artificio filmico della “sfiga” risulta inutile se non addirittura offensivo. Per un centenario ci aspettavamo ben altro, ogni giorno dovremmo aspettarci ben altro quando si menzionano avvenimenti storici che hanno cambiato le terre e le popolazioni. Gli intenti più alti sono dunque miseramente falliti ma se il pantano dal quale uscire è quello del cinepanettone, dovremo, in questo caso, accontentarci di questi seppur mediocri passi.
Ed in tutta onestà non presenta niente di nuovo neanche il vincitore del Premio Donatello, “Anime nere” la cui storia di narcotraffico e mafia cerca invano una catarsi nella figura del “savio” della famiglia mafiosa. E poiché l’ecatombe per i soliti regolamenti di conti non basta a decimare la famiglia ci penserà la follia del “savio” per un improbabile tentativo di emendare la propria ignavia e di sconfiggere il male radicato nel dna familiare, decimando il suo stesso sangue, raggiungendo l’unico scopo di dimostrare di appartenervi (non conoscendo altro medicinale se non le pallottole) lasciandoci in eredità il fatto che dall’ignoranza e dall’ambiente non si scappa. Lo sapevamo e ci attendevamo, anche in questo caso, che si cominciassero ad offrire anche se pur pallide e rozze, ipotesi di futuro diverse dall’eliminazione o dall’autoannientamento. Ed in questo caso, il dialetto siciliano, con gli opportuni sottotitoli, rende ancora più fosco il quadro creando un meccanismo di identificazione che, in sede internazionale soprattutto, concorrerà a confermare voci stereotipate che sarebbe opportuno aggiornare al mondo odierno dove ben altri sono i confini di questo virus. In altre parole come recitava Carlo Emilio Gadda “La porca rogna italiana dell’autodenigrazione”, colpisce ancora perché dubito molto che in sede internazionale si possano avere gli elementi per fare quei sottili distinguo che il film, peraltro di buon pregio scenico e ritmico, propone in un modo che a pochi, fors’anche in Italia, risulteranno comprensibili.
Dai temi storico-sociali si passa poi alle storie delle persone. Qui almeno nel caso di “Mia madre”, di “Hungry hearts” e di “Youth”, già ce la caviamo meglio. Soprattutto nel primo, “Mia madre”, al quale va dato il merito di potersi riconoscere in quelle fasi particolari della vita in cui si ha a che fare con dolori tali da scardinarne le sicurezze, evitando di sentenziare, di scrivere una fine che possa in qualche modo essere morale o didascalica (al di là dei complessi itinerari che la critica specializzata ha voluto individuare nella dicotomia tra realtà e finzione che la protagonista affronta in virtù del proprio lavoro di cineasta, fino ad elevare questa titanica lotta tra il vero ed il falso ad uno dei grandi temi che periodicamente affliggono il cinema. Non è evidentemente parso sufficiente il “semplice e normale” incontro tra le sicurezze della vita e la capacità di demolirle che ha la morte). Lo stesso “Hungry hearts” (al quale non perdono il titolo inglese) pur rimanendo contagiato dal fascino perverso della storia particolare dove invece è più difficile riconoscersi (chissà come mai il coraggio di parlare di situazioni “normali” è oramai qualità solo di pochi, come questo ultimo Moretti ad esempio) in fondo affronta temi, quale la fobia sempre più dilagante per l’alimentazione tradizionale, che sono senza dubbio di cogente attualità. Tuttavia, ci si ostina a ricorrere a storie di condizioni e di situazioni portate e vissute al limite, come se fosse, ogni volta, necessario il superamento del limite stesso e la conclusione più o meno orrifica per fare da deterrente contro gli eccessi. Dimenticando che il filone horror è invece uno di quelli più gettonati ottenendo dunque unicamente il risultato di stordire con una overdose non già di drammaticità (che ben altro è, specie nel cinema), quanto di gratuità inutilità. “Youth” ha finalmente quell’ingrediente che agli altri manca. Ottenuto attraverso un crescendo di tensioni che anziché esplodere nell’olocausto finale o nella cementificazione di ogni speranza, si affaccia, con quel dolore che gli è necessario, il senso del futuro. Maldestro, opaco, ma in qualche modo possibile. Ed in questo, più che non negli altri ingredienti, più che non grazie ad attori più o meno eccellenti, finalmente si trova linfa per parlare di un rinnovamento del cinema che assolve a qualcosa che non sia il mero intrattenimento o l’esercizio tecnico. Un rinnovamento che implica il coraggio, finalmente, di tornare a parlare di futuro possibile, pensabile, ipotizzabile, da troppo tempo invece relegato alla novella fantascientifica (quella odierna, ben diversa dall’antesignano “Metropolis” o da “2001: Odissea nello spazio”) o al catastrofismo figlio di Godzilla. Difficile parlare di futuro e soprattutto di futuri possibili, oggi, dove già la gestione della quotidianità è impresa per molti di non poco conto. Ma non si può continuare a stordire la nostra condizione ingerendo pillole di eccessi per poi uscire scambiando il difficile quotidiano con una sacrosanta normalità della quale potersi anche sentire, al confronto, appagati. Il metodo “arancia meccanica” non funziona, ormai lo sappiamo e non è nemmeno sufficiente l’osservazione asettica di quanto ci circonda. Occorrono piccoli segnali che un futuro è possibile, reale e non di celluloide. E per rendere possibile il futuro occorre una catarsi personale, una rinascita. Ma per lanciare questi segnali, occorre coraggio, il coraggio che in parte distingue il buon cinema da quello che è destinato, premi o meno, a non lasciare traccia o ad essere consumato al pari di un cinepanettone. Bravo, ancora una volta, Sorrentino.
Resta da menzionare, dalla lista costruita per inventarsi una lettura panoramica sui premiati ed i premiandi, “Il giovane favoloso”, per il quale necessitano ben altre riflessioni. Il genere biografico da sempre è stato perseguito dal cinema anche nei periodi più difficili in quanto serviva, spesso, da strumento di propaganda (basti pensare ad esempio in Italia, il fiorire dei film sugli eroici protagonisti dell’antica Roma per capire come l’era fascista avesse fatto del film uno strumento efficace di comunicazione). Oggi il genere biografico viene più modestamente a concentrarsi su personaggi spesso unicamente popolari , non necessariamente eccelsi, anche se certo ogni paese non manca di crearsi l’opportunità per celebrare i propri vessilliferi (basti vedere ad esempio la recente pellicola sull’astrofisico Stephen Hawking). E soprattutto, attraverso di essi, si affrontano epoche storiche, financo quella contemporanea, nell’intento di capire come, attraverso l’operato di questi simboli, possano essere avvenuti cambiamenti o si siano, in ogni caso, cementate delle pietre miliari. Ebbene in Italia, dove da tempo il genere era stato lasciato in disparte, specie in riferimento a personaggi di una qualche arte, si è alfine trovato il coraggio di indagare su un uomo simbolo della nostra cultura: Giacomo Leopardi. Eccelso, riconosciuto e studiato in tutto il mondo, ivi compreso in Italia dove ricordi di acerba gioventù fanno riecheggiare i versi, ostici al tempo, de “La Ginestra” o de “Il tramonto della luna” che i professori sempre sceglievano per non si sa quale torpido meccanismo perverso, per fortuna attenuati dal più commestibile “Sabato del villaggio”. Una pellicola complessa che spesso sembra scorrere più sul binomio genio-malattia che non sul percorso filosofico e letterario che appare talvolta svilito a vantaggio della sensazione che il pessimismo cosmico leopardiano possa essere in realtà frutto delle conseguenze della malattia, per quanto la stessa senza dubbio abbia avuto una non indifferente influenza. In specie quando Leopardi affronta, nel film, argomenti relativi alle persone ed in particolare alle donne, mondo di fatto a lui precluso e del quale soffrirà passando dalla delusione (ancorché frutto di un amore non dichiarato) per Silvia per passare alla disperazione per la mancata conquista della Fanny Targioni Tozzetti a Firenze, disperazione peraltro raccontata nel film con l’accompagnamento, inspiegabile e del tutto fuori luogo (nonostante la colonna sonora sia di assoluto pregio) di una canzone inglese, “LightOn” di Apparat (“Deserted hopes, deserted eyes Deserted soul, deserted lies Deserted hands of deserted men Deserted all should I want ……”), per terminare poi nello squallore di un bordello popolare napoletano dove, tra l’altro, un Leopardi che suscita compassione si trova sbeffeggiato, irriso durante l’incontro (preparato dal fidato Ranieri) che lo trasformerà in una figura addirittura patetica (in pochi fotogrammi si vede fra l’altro che l’incontro era non con una donna, figura per lui irraggiungibile, ma con un transessuale, come se il regista avesse inteso creare un ponte con la figura di Pasolini) che riuscirà a rendere gli ultimi meravigliosi versi de “La ginestra” recitati dopo che la sua figura, quella di un grottesco gobbo di Notre-Dame è stata vilipesa, a lui oramai estranei e lontani. Leopardi non è il Leopardi di questa rappresentazione che, se anche a tratti sembra condurci verso quella profonda indagine che gli ha permesso di produrre opere ineguagliabili, le stesse finiscono per risultargli sempre più costruite intorno, soffocato in quella maschera grottesca, quasi animalesca, che dimostra, ancora una volta, come voler cercare chiavi di lettura troppo sofisticate, si finisce per perdere il senso ed il valore di ciò di cui si tratta.
E dunque, per quanto queste pellicole possano senza dubbio costituire un energico tentativo di fare buon cinema, permane l’idea che si sia ancora profondamente ammalati di quel provincialismo che difficilmente renderà questi lavori capaci di trasmettere qualcosa che in sede internazionale possa dare quella immagine italiana che in fondo ci compete. Resta il conforto, se tale lo si vuol chiamare, che almeno vi è finalmente qualcosa su cui valga la pena di confrontare pareri ed impressioni, qualcosa che comunque stimoli a tornare a guardare al cinema come ad una risorsa per la cultura e per la tasca nazionale di questi tempi alquanto polverosa.
Si tratta per il momento di fare uno sforzo per coniugare la bellezza del nostro patrimonio, come ad esempio gli stessi Quirinale e Castel Porziano che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha deciso di aprire alle visite per mostrare, per dirla con Leopardi, proprio ne “La ginestra”, come: “… Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive …”, ovvero, come in questi luoghi (rive) sono rappresentate le sorti splendide e in continuo progresso dell’umanità, ossia nei frutti della cultura.
