Quando Matteo Renzi definisce “impressionanti” i risultati del Jobs act nel 2015, di certo non può avere in mente l’occupazione femminile. Nessuno degli aspetti che rendono critico il rapporto tra donne e lavoro in Italia vengono risolti dalla riforma Renzi-Poletti. I tassi di occupazione restano al palo, la disoccupazione femminile aumenta, la maternità continua ad essere un ostacolo al lavoro delle donne. I timidi interventi sulla conciliazione vita lavoro, che pur regolamentano aspetti importanti, non appaiono risolutivi per aprire il mercato del lavoro alle donne. E’ assente qualunque riflessione di carattere economico e fiscale. E’ assente qualunque strategia o investimento di lungo periodo.
Ma perché in un momento difficile come questo, in cui il Paese non vede ancora una ripresa, Renzi ed il suo Jobs act dovrebbero occuparsi delle donne? Non certo per una questione di pari opportunità, ma di sviluppo economico del Paese. Le donne che non lavorano sono un pezzo di Pil che manca al paese. Stime della Banca d’Italia, oramai note, valutano che un’occupazione femminile al 60% (13 punti in più di oggi) varrebbe 7 punti di PIL. Ma anche semplicemente eguagliare su base regionale i tassi di uomini e donne varrebbe 4 punti di pil. Allora, l’attenzione all’aumento dell’occupazione femminile è una questione di sviluppo economico del paese. E va perseguita con la consapevolezza delle difficoltà e delle implicazioni che ne derivano. Non basta illudersi che una nuova tipologia contrattuale, di per sé, sappia innescare un effetto dirompente e positivo. Se così fosse, qui sette punti di pil sarebbero già patrimonio nazionale. Invece oggi il Jobs act si limita a sperare che una pioggia di incentivi, a carico della finanza pubblica, convinca le imprese ad assumere per qualche anno qualche persona in più, uomini o donne in modo casuale, senza fornire alcun piano di investimento strategico entro cui, poi, poter mantenere queste assunzioni a regime. In questo quadro, perciò, il Governo non ha ragione di entusiasmarsi tanto per una stima al rialzo del pil di un risicato 0,1%, quando non si cura affatto di un potenziale dormiente– poco più del 50% delle donne non lavora – che non partecipa alla produzione di ricchezza nazionale.
Cosa è accaduto in sintesi in un anno di Jobs act all’occupazione femminile? Ad un anno dal decreto istitutivo del contratto a tutele crescenti (4 marzo 2015 n.23), per le donne, i dati restano sconfortanti (Istat). Il 2015 si è chiuso senza nessun balzo in avanti per i tassi di occupazione che restano al 65,9 % per gli uomini e al 47,5 % per le donne – cementando un gender gap (ossia la distanza tra uomini e donne nel mercato del lavoro) quasi del 20% e consolidando l’Italia agli ultimi posti in Europa per occupazione femminile.
La disoccupazione diminuisce, ma solo per gli uomini (che arrivano al 10,9%), mentre per le donne aumenta di 3,3 punti percentuali raggiungendo il 12,4% (che diventa 37% tra le giovani). Il calo generale della disoccupazione, però, è solo apparentemente una “buona notizia”, soprattutto per le donne, perché non si trasforma automaticamente in aumento dei posti di lavoro. Quelli che la statistica non conta più come “disoccupati” (persone che non hanno un lavoro ma lo cercano) in realtà diventano in prevalenza “inattivi”, cioè persone che pur non avendo un lavoro, smettono di cercarlo. E questo è particolarmente vero per le donne. Nel 2015 sono uscite dalla categoria “disoccupate” circa 209.000 donne, ma di queste ben 154.000 sono diventate inattive.
La situazione più critica continua a registrarsi al Sud: in Campania, Sicilia e Calabria lavora meno del 30% delle donne e nelle altre regioni del Sud non si supera il 40%. I giovani sono nella condizione più disperata: la disoccupazione femminile è al 52% e quella maschile al 46,5% e resta uno zoccolo duro di “Neet” (acronimo che sta per chi non studia né lavora) vicino al 30%. Le uniche regioni che hanno già raggiunto l’obiettivo del 60% di occupazione femminile, richiesto sin dal 2010 dall’Ue, sono solo Valle d’Aosta, Trento e Bolzano.
La maternità continua ad essere una sfida persa sul lavoro. Una donna su 3 lascia il lavoro entro 2 anni di vita del bambino, con un rischio più elevato nel Mezzogiorno. La lontananza dal lavoro nel 60% dei casi dura 5 anni.
Perché ciò avviene? Più della metà delle madri ha dichiarato di non lavorare più perché si è licenziata o ha interrotto l’attività che svolgeva come autonoma; – circa una madre su quattro è stata licenziata, – per una su cinque si è concluso un contratto di lavoro o una consulenza; il 3,6 % ha dichiarato di essere stata posta in mobilità. Inevitabile in tutto ciò il peso della questione “conciliazione vita/lavoro”: secondo Eurostat le italiane dedicano alle responsabilità familiari più tempo di tutte le altre donne europee, 5 ore e 20 minuti al giorno. Ossia 3 ore e 45 minuti più degli uomini. Non si tratta solo di cura di figli, ma anche della cura di anziani e persone con disabilità, al punto che le donne tra i 30 e 39 anni, che spesso vivono queste realtà anche simultaneamente, sono state definite una “generazione sandwich”.
Passando dai dati Istat, che misurano persone e la loro condizione nel mercato del lavoro ai dati Inps che, con alcune limitazioni conteggiano contratti, si evince che: nel 2015, i nuovi contratti sono prevalentemente a tempo determinato (63% per le donne, 61% per gli uomini) con la disciplina più “leggera” in termini di causa e rinnovi stabilita dal neoministro Poletti col decreto legge n° 34 del 2014. Il contratto a tempo indeterminato è applicato solo al 33% dei contratti che hanno coinvolto donne e al 36% di quelli che hanno coinvolto uomini.
Ma anche in questo caso, i contratti alle donne restano sempre inferiori a quelli degli uomini almeno del 20% in tutte le tipologie (tra quelli a tempo determinato sono 443.267 in meno, tra quelli a tempo indeterminato sono 600.021 in meno e anche nell’apprendistato sono inferiori di 26020 unità). Considerando che questi dati sono relativi a rapporti di lavoro e non a persone e che nell’anno gli individui possono anche aver avuto più di un contratto, ne risulta che in realtà, il numero delle “persone” raggiunte dal Jobs act è comunque inferiore a questi dati.
Con questa premessa esaminiamo il contratto a tutele crescenti (instaurato dal d.lgs 4 marzo 2015 n. 23)2. Tale contratto, accompagnato dall’incentivo decontributivo (L.190/14-Legge Stabilità 2015), è stato la forma del 61% dei nuovi rapporti di lavoro e di quasi l’80% delle stabilizzazioni (trasformazioni a tempo indeterminato di altri contratti a termine), ma per le donne non è stata una svolta. Sono 431.194 i nuovi contratti a tutele crescenti con incentivo rivolti a donne, contro i 647.876 degli uomini. Sono 143.279 le stabilizzazioni con incentivo di donne contro le 221.277 degli uomini. Tuttavia un dato appare eclatante: nonostante i contratti di donne siano, sempre, numericamente inferiori a quelli degli uomini, sono quelli per i quali l’incentivo decontributivo è stato utilizzato di più. Il che significa che mentre le imprese hanno continuato ad assumere uomini in via ordinaria, e con qualche incentivo laddove fosse concesso, per assumere le donne hanno utilizzato prevalentemente gli incentivi. Il che ci lascia immaginare la difficoltà di una gestione “oridinaria”.
Col Jobs act, in sintesi, si fanno meno contratti a donne, ma quei pochi che si fanno utilizzano l’incentivo molto di più. E questo se da un lato è indice della permanenza di una fortissima debolezza delle donne sul mercato del lavoro, dall’altro rende sempre più dirimente la domanda: che cosa accadrà a questi contratti quando l’incentivo sarà terminato?
“Una droga di mercato” sono stati chiamati, a suo tempo, proprio dall’entourage del premier gli incentivi del Jobs act. Ed in effetti sono il fattore che spiega da solo la crescita dell’occupazione. Lo confermano le stesse imprese che hanno effettuato assunzioni nell’anno. Oltre il 55% delle imprese nella manifattura e oltre il 60% nei servizi considerano l’incentivo decontributivo la misura che li ha fatti effettivamente decidere ad effettuare la nuova assunzione, mentre solo il 35% considera il contratto a tutele crescenti (con la nuova disciplina dell’art.18) di per sé una misura interessante. Dopo la fine dell’incentivo, in assenza di una riflessione strategica sul piano di sviluppo di un paese, l’impresa, se onesta, terrà il lavoratore solo se sono maturate le condizioni per fare a meno dell’incentivo – e si tratta di condizioni che non sono dipendenti dal Jobs act, che ha solo natura normativa, ma dall’evoluzione della domanda e dei mercati, in poche parole dallo sviluppo economico. Se l’impresa, invece, non è onesta, avrà incamerato l’incentivo dando seguito a una serie di fattispecie illegali.
In questo contesto quindi ecco un ventaglio di proposte:
-Che l’incentivo debba essere una misura temporanea e strutturata, calata in ambiti ritenuti strategici da una pianificazione nazionale. Per assicurare una corretta gestione del denaro pubblico attraverso gli incentivi, associare regole di vigilanza e controllo all’erogazione degli incentivi e meccanismi sanzionatori e di disincentivazione all’uso non ortodosso dell’istituto, o che monetizzino parte dell’incentivo al lavoratore o che rappresentino una penalizzazione per l’impresa all’ottenimento di altri benefici futuri, prevedendo un meccanismo premiale che potrebbe legare l’incentivo ricevuto all’incremento della performance di impresa e al fatto che l’impresa da sola abbia proceduto ad altre assunzioni oltre al mantenimento della precedente.
-Una vigilanza più serrata sui contratti a tutele crescenti per le donne, con o senza incentivo, in quanto l’indebolimento delle tutele dell’art.18 potrebbe rafforzare le note pratiche discriminatorie nei confronti delle lavoratrici femminili, per le quali da sempre il divieto normativo non è sufficiente e facilmente aggirabile.
-Un monitoraggio serrato sull’“altra faccia del Jobs act”, ossia il proliferare del lavoro femminile pagato tramite voucher, che sta assumendo i connotati di nuovo modo di ottenere flessibilità a costi più bassi delle forme esistenti e regolamentate (a partire dai settori dove le donne sono più presenti, commercio, turismo, servizi). In particolar modo contro la liberalizzazione dei settori e dei limiti di reddito stabiliti con il d. lgs 15 giugno 2015 n. 81, occorre una revisione degli ambiti di applicazione del lavoro accessorio. In particolare l’eliminazione della cura e assistenza alle persone che richiede valore, qualità e professionalità che non possono essere assimilate a lavori saltuari di manutenzione (e indirettamente la revisione della disciplina del voucher babysitting introdotto dalla L.92/125).
In sintesi, il Jobs act deve trasformarsi da strumento di propaganda a strumento di crescita. Perché è lo sviluppo economico che crea l’occupazione e non il contrario e che quindi in questo momento il sistema da solo non è in grado di produrre opportunità di lavoro a regime. La strada per far ripartire il Paese non è quella di drogare il mercato attuale con incentivi a fondo perduto, o cercare di abbassare a tutti i costi il costo del lavoro (battaglia persa in partenza con la concorrenza orientale) ma quella di coinvolgere il sistema produttivo in un disegno più grande di crescita del paese, un nuovo new deal italiano, un Progetto Paese, in cui l’Italia rinasca investendo in prodotti, innovazione e filiere specifiche e su questi (e non sul costo del lavoro) possa essere competitivo sui mercati.
Un nuovo New deal, entro cui orientare anche le richieste d’inserimento lavorativo dei giovani e di ricollocazione di chi il lavoro lo ha perso, in cui lo Stato, di concerto con Enti locali, definisce alcuni ambiti di intervento prioritari, d’interesse della collettività (ad esempio su temi quali il welfare, la cultura, il turismo, il decoro urbano) che possa produrre occupazione, servizi aggiuntivi e ricchezza. L’obiettivo è innescare l’effetto moltiplicatore tra produzione, reddito, consumi, per riattivare in prima istanza il circuito produttivo e stimolare la domanda. A partire dalle donne.