Capace di “stupire il mondo”: Federico II e il dialetto siciliano

casteldi Enzo Terzi

Ci sono momenti particolari nel corso dell’anno in cui, per ritrovare un’impronta edificante, si è costretti a ripercorrere la storia, spesso tornando così indietro nel tempo da trovare poi l’ostacolo, inevitabile, di rendere arduo il paragone con i giorni nostri per le mutate condizioni antropologiche, sociali ed ambientali. Inutile (se lo si fa senza trasformare il gesto in esperienza) rivolgersi ai grandi nomi dei tempi passati e trapassati, che spesso riproponiamo come portatori di insegnamenti e di gesta rimaste immortali per il loro valore e per intrinseca verità.

Oggi è uno di quei momenti in cui la ricerca nei passati vicini e lontani si ravviva, se non altro per riprendere un attimo fiato da una quotidianità che seppellisce ogni giorno di più qualsiasi brandello di esperienza – in senso storico s’intende. Specie per chi abita in Europa, in caduta libera dopo quel famigerato 2008. Al crollo dei mercati e al consolidarsi delle migrazioni dei popoli è seguita la scoperta che la presunta civiltà non aveva poi grandi princìpi ai quali attingere per ricostruirsi ed adattarsi, abituata più di quanto si potesse immaginare, più ad avere che non a essere. Ma infine, dove trovare spunto di riflessione che possa indurci a pensare che anche di altro siamo capaci, se non rovistando nel passato?

Lasciando in pace gli “antichi savi”, in questi anni anche troppo disturbati (e spesso a vanvera) è il turno oggi di Federico II di Svevia. Non è stato un santo, né uno sfegatato religioso che anzi ben ebbe modo di “dribblare” anche una guerra santa come una crociata; non è stato un principe eccessivamente illuminato anche se poi a molti fa piacere tributargli spropositate lodi a gesti che invece erano anche frutto di calcoli politici; ha avuto però il merito enorme di farsi promotore di iniziative che oggi passerebbero sotto il nome di “valorizzazione delle diversità” e “accoglienza”o, quanto meno, molto gli si avvicinerebbero. Sorvoliamo dunque sulle gesta più propriamente storico-guerresche o sul suo famoso Trattato sulla falconeria (De arte venandi cum avibus), o ancora sui suoi protocolli costituzionali (Costituzioni di Melfi), non perché siano fatti minori, quanto per il fatto che altri aspetti ci sembrano più vicini alle attuali tribolazioni.

Federico II, duca di Svevia, re di Germania ed imperatore del Sacro Romano Impero, amministrava terre che andavano dalla Germania alla Sicilia, terre peraltro divise dalla presenza dello Stato Pontificio che, seppure all’epoca non tanto ingombrante anche se de facto tagliava in due la penisola, doveva la sua importanza alla figura del Papa che esercitava ben forti pressioni su tutto il mondo cristiano. E forse proprio il dissidio profondo tra i vari papi che si succedettero e Federico II al quale somministrarono ben tre scomuniche, ebbe un ruolo di non poco conto nella valorizzazione della lingua volgare e più in particolare del dialetto siciliano, avvenuta in parte per l’indubbio amore che Federico stesso nutriva per la cultura in generale e per la letteratura (lui stesso fu anche autore di sonetti), in parte perché la crescita di un dialetto tanto forte da elevarsi al ruolo di lingua serviva da contrasto all’uso del latino, lingua propria dell’intellighenzia papale. Convergenza di intenti dunque, politici ed intellettuali, ma il risultato fu senza dubbio sbalorditivo in quanto non si trattò di un episodio provvisorio e temporaneo ed anzi, tale e tanta fu la sua eco e la sua importanza che della Scuola Siciliana già Dante, a non più di cinquant’anni dalla sua nascita, ne celebrò le virtù e l’importanza nel suo Libro Primo (cap. 12, 4) del De Vulgari Eloquentia, additandola come fucina all’interno della quale la lingua italiana prese le mosse: “…Consideriamo anzitutto il siciliano: vediamo infatti che questo volgare arroga a sé una fama superiore agli altri volgari, sia perché col nome di «siciliana» viene indicata tutta la produzione poetica degli Italiani, sia perché troviamo che molti maestri nativi di Sicilia hanno composto poesia elevata …”.

Siracusa

Pur senza soffermarsi sulle fortunate influenze che Dante ci evidenzia, è importante riconoscere come questo processo intellettuale si sia rivelato un arricchimento fuor di misura tanto che, per l’assenza di altre strutture culturali, servì da battistrada alla costituzione di una lingua nazionale. D’altronde, la frammentazione che contraddistingueva l’Italia del tempo (contrariamente ad altre nazioni quali Germania e Francia dove già la solidità territoriale aveva potuto far attecchire anche una uniformità linguistica), aveva permesso da una parte il permanere ben radicato di dialetti regionali e, dall’altra, il perseverare del latino come lingua dotta, atto a sottolineare il potere delle cose temporali e spirituali ad una plebe così condannata ad essere “diversa” anche nella lingua. L’iniziativa promossa e fiancheggiata da Federico II fece sì che la “lingua dialettale” usata anche da funzionari e dignitari (l’allora classe media) si raffinasse ed assurgesse a livello di “lingua della poesia” infrangendo e sconvolgendo quel divario prima esistente. Jacopo da Lentini, notaio in Catania, ne fu probabilmente il vessillifero, o forse Percival Doria, condottiero pare d’origine genovese; entrambi composero versi, nella piena tradizione del “poetar cortese”, d’amore, argomento principe nei versi del tempo (altri, e non pochi, furono i protagonisti di questa fiorente scuola siciliana ma lascio la loro conoscenza a chi volesse approfondire).

Oggi, per quanto le modificazioni del linguaggio si siano spostate dall’asse regionale-nazionale a quello nazionale-mondiale, ogni qualvolta si intendano preservare le culture regionali (o nazionali addirittura), si assolve ad un doppio processo: alla conservazione della memoria ed all’arricchimento del patrimonio collettivo (disconoscere le fondamenta delle culture è come appoggiare il futuro sul vuoto). In altre parole si assolve ad uno dei compiti più importanti ai quali è chiamato non solo l’intellettuale ma anche il politico: il potenziamento continuo dell’universo culturale al quale sempre più individui potranno accedervi e trarne conoscenza e, per estensione, esperienza. In buona sostanza, dotarci degli strumenti per una crescita coerente con la memoria, avallando quella straparlata “ricchezza nella diversità” che è sulla bocca di tanti che neanche di lontano sanno cosa possa significare essendo loro sconosciuto il concetto di “rispetto” (estendete pure questo concetto a piacimento: all’arte, agli usi e costumi, al colore della pelle, …). Federico II, rompendo le regole ed elevando al rango di lingua un dialetto compì i primi passi di un processo che oggi, calcandone le orme, ci vede impegnati nella ricerca di un linguaggio globale attraverso la commistione di lingue nazionali e l’adozione di vocaboli “simbolo” universalmente riconosciuti. Parallelamente, la ricerca invece delle radici del linguaggio ci porta alle cosiddette “lingue matrice” da cui l’odierno esprimersi ha tratto origine.

Con Francesco II siamo di fronte ad una figura alla quale non casualmente venne attribuito l’appellativo di “stupor mundi”. Appellativo che oggi meglio di allora risulta benevolo in quanto siamo pronti a cogliere l’accezione positiva dello stupore ma che, a quel tempo, non era scevro di un certo reverenziale timore in quanto lo “stupor” era anche segno di cambiamento radicale in un periodo ove ogni rovesciamento dell’ordine costituito era visto con paura, in odor spesso di eresia, incomprensibile e inaccettabile. Francesco II parlava sei lingue, latino, siciliano, tedesco, francese, greco e arabo. La popolazione siciliana, là dove era fiorita la sua Corte (anche se molto spesso preferiva risiedere in Puglia) era un miscuglio tra bizantini, ebrei, arabi e normanni, fatto questo che implicava non soltanto una coesistenza culturale ma anche e soprattutto religiosa in un periodo ove le guerre di religione erano pane quotidiano. Anche ai tempi di Federico II la coabitazione con gli arabi non fu delle più felici tanto che sotto il suo regno le ultime comunità presenti in Sicilia vennero trasferite a Lucera, in Puglia (le fonti più attendibili parlano di una comunità di oltre 50.000 musulmani che vi si insediò), ma non furono motivi religiosi quelli che ne determinarono il trasferimento, quanto motivi di dominio su un territorio al quale gli ultimi signori saraceni non volevano rinunciare. Ma se i fatti storici narrano di incompatibilità temporali è altresì vero che la corte di Federico II brillò per la vastità della sua biblioteca e per i continui arricchimenti che giungevano da tutte le culture conosciute, prima fra tutte, forse proprio quella araba che all’epoca era tra le più rigogliose. Testi di Avicenna si unirono a quelli di Averroè, massimo filosofo arabo in Spagna che scrisse anche in difesa del “primato della ragione” di Aristotele, principio a Federico II molto caro perché sanciva una netta divisione tra teologia e ragione, aprendo dunque – tra l’altro – la strada al concetto di “stato laico” (per la felicità del Papa).

Senza dimenticare poi che la Palermo di Federico II era la splendida Palermo intrisa di cultura ed architettura arabe che tanto avevano già valorizzato i Normanni. Ma se Federico II fu costretto a scacciare (in realtà fu un po’ una sorta di deportazione) le ultime comunità arabe divenute ribelli, mostrò raffinata oculatezza allorquando, al comando della sesta crociata, anziché perseverare nello scontro frontale istituzionalizzato dai cavalieri crociati, preferì un accordo diplomatico con il Sultano d’Egitto che lo portò a divenire Re di Gerusalemme senza colpo ferire (grazie a seconde nozze con Jolanda di Brienne e lasciando in contropartita le terre delle moderne Palestina e Siria), mostrando al mondo intero come fosse possibile anche perseguire vie più intelligenti. E la “tolleranza” dimostrata da Federico II nei confronti dei musulmani in occasione della crociata restò un atto incompreso per i cristiani che mai si sarebbero potuti capacitare di un tale rispetto nei confronti di coloro che erano considerati i nemici del proprio universo. La stessa tolleranza che in fondo aveva mostrato nei confronti dei suoi sudditi visto che nei confronti degli arabi ribelli non procedette ad un eccidio, così come tollerante rimase nei confronti della comunità ebraica che viveva sotto la “protezione regia” di normanna eredità. Indubbiamente non si può parlare di una “tolleranza” nel senso attuale del termine ma, senza dubbio, di un “rispetto” che quanto meno permetteva una convivenza senza che gli uni imponessero ad altri una qualsiasi forma di forzata conversione anche se in quei tempi ed in quelle terre, il continuo andirivieni di regnanti ora di una confessione ora di un’altra, avevano reso questa pratica molto più spontaneamente diffusa di quanto non si pensi, se non altro quale forma non solo di sopravvivenza ma anche di mantenimento del proprio status sociale. Ci si limitava, per sommi capi, a far pagare a chi professava una diversa religione da quella istituzionale, una tassa suppletiva, la “jizya” di araba origine che i ora i musulmani, ora i non musulmani, pagavano al Signore di turno per garantirsi la “dhimma”, ovvero il “patto di protezione” (tassa questa oggi tra l’altro ripropostaci da quei forsennati dell’ISIS).

Molto e molto ancora potrebbe aggiungersi non tanto ad elogio quanto a riconoscimento nei confronti di Federico II. Seppur mosso da necessità prevalentemente politiche (ma quale governante non lo sarebbe o non lo dovrebbe essere?), seppe dimostrare al mondo come cavalcando soprattutto la cultura si potessero intraprendere sfide mirabolanti come quelle di costruire una lingua nuova o ancora di applicare tolleranza e diplomazia. Non fu uomo di pace ma certo lo fu di intelligenza. E già questo, anche oggi, sarebbe sufficiente, ancora una volta, a farne un governante capace di stupire il mondo.

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