La scuola e le cattedre da non confondere con ammortizzatori sociali e poltronifici. La proposta di aprire due albi e soprattutto l’obiettivo di costi standard anche nel campo dell’istruzione. Sono alcune delle “pillole” che Suor Anna Monia Alfieri ha condensato nel volume “Il diritto di apprendere” (Giappichelli), scritto a sei mani con il docente di economia Mario Grumo e la commercialista Maria Chiara Parola.
Suor Anna è una voce molto autorevole nel panorama scolastico italiano: è presidente della Fidae Lombardia, cura un seguitissimo blog su Formiche.net, con un approccio laico nel pensiero scientifico. Parla con tutti senza alcuna connotazione politica, clericale o di parte: il suo ultimo libro sulla scuola libera e i costi standard ha avuto la prefazione del ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini.
Risparmiare denaro e al contempo ottenere una scuola migliore: come attuare in questa Italia il binomio che teorizza?
Come direbbero gli economisti, bisogna porre in fila le questioni per avere una buona scuola e dei buoni docenti. In Italia esiste il malefico meccanismo delle graduatorie ad esaurimento, che mi auguro venga sanato. La scuola italiana è stata sempre considerata un ammortizzatore sociale: abbiamo fatto abilitare tutti i docenti promettendo poi loro un lavoro. Un sistema perverso che da anni ha prodotto docenti che non ce la fanno e che prendono la sospensiva. Il risultato? Cattedre vuote nonostante la scuola statale sia già partita in questo mese. Come si fa a fare scuola in questo modo?
A ciò si aggiungano le cattedre vuote dei docenti per disabili…
Pensiamo a tutti i disabili, ad esempio i ciechi o i sordomuti che vanno in aula e non hanno l’assistente perché non è stato assegnato. Quindi questi ragazzi vengono discriminati e saranno in classe a far nulla. Altresì accade nella scuola paritaria, perché i docenti sono stati chiamati dallo Stato italiano per insegnare in quella statale ma senza sapere quando. A settembre? A ottobre? Per cui si è scelto di lasciare nell’incertezza anche le cattedre delle paritarie.
Per quale motivo?
Perché il punto di partenza non è stato lo studente, ma l’idea di piazzare tutti questi docenti. Se si riuscirà a concludere le cattedre in esaurimento, allora bisognerà ripartire dal punto zero. Ovvero iniziare a riflettere sul fatto che non tutti i docenti che si laureano avranno poi il posto assicurato. Per cui è utile aprire delle abilitazioni o indire dei concorsi solo per le cattedre che servono davvero. Al momento abbiamo concorsi sine fine in lettere che non servono affatto e magari non quelli in matematica.
Cosa propone?
Due soluzioni. La prima: aprire due albi, per far confluire in uno i docenti abilitati per concorso pubblico, ma sulla scorta delle cattedre vuote; ed uno delle scuole paritarie. Così i docenti potranno scegliere liberamente dove collocarsi, come accade nella laica Francia, consentendo ai dirigenti di entrambe le scuole di poter attingere dagli albi con il vantaggio che lo Stato può metterci il sigillo (ovvero docenti abilitati perché passati dal concorso, quindi bravissimi) e assumerli, ma non a tempo indeterminato, bensì mettendoli alla prova per tre anni. E se davvero poi si dimostreranno dei bravi docenti, allora andare a tempo indeterminato. Questo passaggio era in itinere nella buona scuola, ma poi non si realizza riempiendo alcune scuole e lasciandone vacanti altre.
Dare al dirigente la libertà di scegliere un progetto educativo, condiviso sicuramente secondo il territorio, e docenti selezionati in base ad esso. Fare scuola a Scampia non è come farla nel centro di Milano, per questo dovrò avere un dirigente talmente capace di leggere il territorio che intercetti al meglio il vero fabbisogno culturale locale. Qualcuno potrebbe obiettare un rischio clientelismo per il dirigente scolastico, vero? In quel caso interverrebbe il cosiddetto Stato-garante, che si libera del suo compito di gestore e controlla che quel rischio non si tramuti in realtà. Tant’è che in Italia abbiamo una serie di scuole paritarie che solo solo dei diplomifici, altre in cui non si pagano gli stipendi. Ma ci tengo a dire che sono una minima parte, con nomi e cognomi ben noti al Ministero dell’Istruzione. Perché non vengono chiuse?
La politica dei costi standard in che misura aiuterebbe lo Stato?
Il costo standard di sostenibilità ha dei processi di attuazione e porta con sé alcune leve. Oggi il finanziamento della scuola statale avviene tramite il Mof: alla fine dell’anno lo Stato invia dei denari, dopo aver pagato i docenti. Per cui la scuola statale non riesce neanche a immaginare dei progetti perché sono soldi a pioggia, senza badare al merito ed alla gestione del progetto. Il costo standard è efficace perché comprende anche la valutazione della singola scuola a cui poi inviare il finanziamento, come la partecipazione delle famiglie al gruppo di valutazione o la meritocrazia dei docenti. Se i parametri di qualità non sono rispettati, allora cala la quantità di denaro inviata.
Quali i vantaggi?
E’chiaro che si tratta di un sistema che non si può applicare da un giorno all’altro, ma occorrerà accompagnare la scuola statale attraverso un processo di riorganizzazione gestionale interna con tre risultati: si iniziano ad evitare gli sprechi, si consente al dirigente di rimpolpare il settore con buoni docenti, si permette alle famiglie di scegliere tra una buona scuola pubblica statale ed una paritaria. Il tutto automaticamente porterà alla chiusura di quelle scuole che non funzionano. Senza dimenticare che lo Stato risparmierebbe ben 17 miliardi di euro a fronte di un sistema che funzionerebbe molto meglio, come dimostra la classifica Ocse delle scuole italiane: Milano prima, Campania e Sicilia ultime. I docenti meridionali non sono andati al nord perché al sud c’è un basso tasso di natalità, ma per via di un alto tasso di dispersione scolastica.
Nel suo libro raccoglie spunti per la cosiddetta libertà di scelta educativa: come potrà la nuova scuola andare incontro alla scelta delle famiglie?
La nuova scuola potrà dare alle famiglie un vaucher, secondo il costo standard, che sia spendibile come già si fa in Lombardia, presso la scuola pubblica o paritaria che coincide con le singole scelte. Credo che anche una scuola statale debba avere un’identità.
Perché sino ad oggi il pluralismo difeso dalla Carta costituzionale non si è tradotto in realtà per alcuni diritti?
Per tre motivi. Il primo risale al 1838 quando il sistema scolastico entrò nella situazione del Regno d’Italia dove si voleva sanare l’analfabetismo e unire il Paese. Così lo Stato avocò a sé l’istruzione, prima era gestita da soggetti privati come le congregazioni religiose. Non ha sanato l’analfabetismo ma ha creato una orma di diffusione di cultura di massa. Purtroppo non ha sanato neanche l’unità d’Italia, perché il regionalismo sussiste proprio a causa di regioni che sono culturalmente avanti ed altre indietro. Ma ad un certo punto lo Stato non ha avuto il coraggio di fare ciò che ha fatto il resto d’Europa che, uscendo dal comunismo, ha cavalcato la libertà di insegnamento con il pluralismo educativo e diffondendo una cultura laica. La Francia è laica, il nostro Stato invece no e compie scelte che non sempre sono imparziali. Per cui si è incancrenito nel sistema della scuola statale, favorendone la iperburocratizzazione, con il sopravvento dei sindacati, che tendono a considerare la scuola un ammortizzatore sociale. E’assurdo che un docente venga sistemato per il semplice fatto di aver superato un concorso.
E la famiglia che dazio ha pagato?
E’stata collocata in una situazione quasi soporifera, dimenticandosi quasi di questo suo diritto. Anche la società civile non si è resa conto che avrebbe dovuto battersi per la libertà di scelta educativa della famiglia, invece ha avviato solo una battaglia per la difesa della paritaria. La legge Berlinguer n. 62 del 2000 non dice che la famiglia può scegliere fra una scuola e l’altra, ma che esiste un generico pluralismo educativo. E’giuridicamente insostenibile ed ha portato gli scettici e chi non aveva altri argomenti di merito ad attaccare questo principio, definendo la scuola paritaria “per ricchi e gestita dai preti”. Il cuore della questione è un altro: dobbiamo chiederci quale diritto in Italia non venga garantito, pur essendo riconosciuto nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo. Ovvero la libertà di scelta educativa.
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