Mirko Tremaglia, l’arcitaliano che veniva da Salò 

di Aldo Di Lello

Le riunioni di redazione del “Secolo d’Italia” avevano un convitato di pietra. Era Mirko Tremaglia, il quale non ci inviava mai messaggi al miele. Le sue sfuriate ci erano riferite dal direttore di quel momento. Si trattasse di Cesare Mantovani, Giano Accame, Maurizio Gasparri o Gennaro Malgieri, la musica non cambiava. C’era sempre un titolo o un articolo su cui Tremaglia aveva da ridire, oppure un argomento importante che, a suo giudizio, avevamo trascurato. Spesso assistevamo alle sue rampogne in diretta. Ed era uno spettacolo, perché, al torrente di parole indistinte e gracchianti che tracimava dalla cornetta, corrispondeva il volto, spesso paonazzo, ma sempre paziente, dell’interlocutore di turno. Non era facile, anzi, pressoché impossibile, discutere con lui quando era preso dal demone della polemica.

Ma a noi, redattori del quotidiano del Movimento sociale prima e di Alleanza nazionale poi, Mirko Tremaglia non ha mai smesso di risultare una figura amica e familiare. E questo perché, oltre alla stima personale che tutti noi nutrivamo per lui, capivamo anche che Mirko, al “Secolo d’Italia”, teneva molto. E si trattava di un attaccamento che si mantenne inalterato anche dopo la svolta di Fiuggi. In fondo, eravamo una delle poche sigle che riportavano direttamente alla storia del Msi. Oltre naturalmente al suo glorioso Comitato Tricolore per gli Italiani nel Mondo. 

Il fatto è anche, almeno per quanto direttamente ci risultava, che Tremaglia non amava sfumature o sottigliezze. Seguiva una logica rigidamente binaria: o era giusto o era sbagliato. Non c’erano vie di mezzo. Era l’esatto opposto, antropologico e ontologico, del politico democristiano, di tutti i pesci lessi che popolavano la corte di Andreotti o di Forlani. Il suo carattere sanguigno e concreto lo portava a trovarsi a disagio anche nell’epoca delle fantasmagorie berlusconiane e delle mortadelle prodiane. 

Le sue esternazioni erano, spesso, quanto di più imprudente e sconveniente si potesse immaginare in politica, però sapevano interpretare sentimenti collettivi profondi e radicati. Come quando, pur essendo diventato ministro della Repubblica, non smetteva mai di rivendicare la sua giovanile militanza nella Rsi. Né, l’alto rango istituzionale che aveva raggiunto, lo indusse a diventare prudente. Ancora tremano i palazzi di Bruxelles e di Strasburgo per una sua esternazione del 2004: «Povera Europa: i culattoni sono in maggioranza». 

Era tritolo allo stato puro, con il quale Tremaglia intendeva correre in aiuto di Rocco Buttiglione, che in quei giorni era stato bocciato dal Parlamento europeo come commissario Ue alla Giustizia per via delle sue dichiarazioni contro i matrimoni gay. Scoppiò un putiferio memorabile ancorché, all’epoca, non fosse ancora stato raggiunto l’odierno grado di isteria che circonda il mondo Lgbt. 

Un veemente coro di oppositori al governo Berlusconi chiese le dimissioni del ministro per gli italiani nel mondo. Ma Tremaglia rimase al suo posto, anche se non tutti, nell’esecutivo, lo amavano. Non solo per il suo essere un “ragazzo di Salò” niente affatto pentito, ma anche per le critiche che non aveva timore di rivolgere sia alle politiche di Berlusconi sia a quelle di Bossi. 

Però, alla fine, tutti, di qualsiasi schieramento politico fossero, lo stimavano, a parte naturalmente i soliti trinariciuti in servizio permanente effettivo. Di Tremaglia, non c’era chi non apprezzasse la pulizia morale, la coerenza ideale, la passione politica. Se per i suoi, per la sua parte, Mirko era uno dei padri fondatori, per gli altri, per gli avversari, rappresentava il vecchio zio fascista verso cui provare, non dico affetto, ma quanto meno rispetto. E ciò, naturalmente, cominciò ad accadere solo dall’inizio della cosiddetta Seconda Repubblica, quando il suo nome divenne noto ai più e quando, soprattutto, il clima politico si andava svelenendo dagli odi della guerra civile prima e della guerra fredda poi. 

Vale la pena aggiungere che in quella stagione era come se gli italiani si andassero riscoprendo tra loro al di là delle divisioni ideologiche. E uno dei momenti solenni di quel tentativo di riconciliazione vide tra i suoi protagonisti proprio Tremaglia. Fu quando il vecchio e fiero Mirko si alzò dai banchi di An per andare incontro al neopresidente della Camera Luciano Violante che si era da poco chiesto, nel suo discorso di investitura, quali erano le «ragioni dei vinti», richiamandosi alle migliaia di ragazzi e di ragazze che «si schierarono dalla parte di Salò quando tutto era perduto». Dopo 50 anni – disse Tremaglia a Violante con sincera commozione- è un «segnale di notevole valore per la pacificazione che abbiamo sempre chiesto nel rispetto di coloro che hanno combattuto da una parte e dall’altra».

Fu un momento alto di incontro tra italiani che venivano da opposte barricate, un momento che però non durò molto, perché di lì a qualche anno saremmo tornati alle delegittimazioni reciproche e alle avversioni antropologiche, anche se eravamo comunque lontani dalla stagione furiosa delle ideologie. La guerra civile, per così dire, riprese in forme parodistiche, fino ad arrivare agli odierni, grotteschi approdi di un Saviano, di un Travaglio, di una Murgia o di uno Scanzi. Ma l’Italia aveva in ogni caso voltato pagina e di quella svolta, umana prima che politica, Mirko Tremaglia rimane uno degli emblemi più rappresentativi. 

Momento struggente di questo fluido umano che promanava dalla sua persona fu quando, nel momento più doloroso della sua vita, Tremaglia fu accolto da un commovente e caloroso applauso della Camera mentre rientrava a Montecitorio dopo la lunga assenza che seguì la scomparsa del figlio. Tutta l’Aula si alzò in piedi. In quel momento stava parlando Walter Veltroni, il quale, dopo aver capito il perché di quell’improvviso clamore, si rivolse direttamente a Tremaglia e ricordò quando, da ministro della Cultura, aveva avuto modo di conoscere e di apprezzare il giovane Marzio come uno dei più validi assessori che in quel momento operavano in Italia. 

Ecco, dire quale fosse il segreto di questa alchimia che creava empatia è cosa assai difficile, se non impossibile. Però, limitandoci al profilo politico, non si va lontano dal vero se si rileva che il grande Mirko era un autentico arcitaliano, non nel senso che incarnasse pregi e difetti dei suoi connazionali, ma nel senso che sapeva, realmente e senza retorica, mettere al primo posto l’Italia e gli italiani. E questo fin da quando fondò il CTIM, quando cioè ebbe la straordinaria visione di un’Italia al di fuori dell’Italia, quando superò la rappresentazione oleografica e un po’ pietistica degli italiani all’estero come semplici emigranti, per affermare l’idea che quegli italiani sparsi per il mondo potessero e dovessero essere parte integrante della nazione, e che quindi dovessero rappresentare un insieme di comunità unite alla madrepatria da un vincolo politico, un legame che solo la possibilità del voto era in grado di rendere palesemente operante. 

Gli ultimi anni della vita di Tremaglia coincisero con il periodo più difficile e amaro nella storia della destra italiana, il periodo della divisione, finanche della diaspora, la fine di An, la sua confluenza nel Pdl. E poi la fine stessa del Pdl, la frammentazione di un mondo, la diverse strade intraprese dai componenti della vecchia comunità umana del Msi.

Mirko anche quella stagione difficile volle viverla fino in fondo. Poteva chiamarsi fuori dai giochi. Nessuno gliel’avrebbe contestato. Invece decise di fare la sua scelta. Aderì a Fli. Scelse Fini.

Volle stare sul campo fino alla fine. E fino alla fine lo si poteva incontrare in Transatlantico. Era anziano e malato. Ma i suoi occhi non smettavano mai di brillare. E continuavano ad accendersi. Come accadeva nel tempo in cui riempiva di benefiche rampogne gli amici. E di umanissime invettive gli avversari. 

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