di Massimo Magliaro
“Non rinnego nemmeno un attimo della mia vita che ha significato onore e culto della Patria”. Con queste parole Mirko Tremaglia abbracciò sull’altare del Tempio dei Caduti di Sudorno a Bergamo il gen. Alberto Li Gobbi, presidente nazionale onorario dell’Associazione combattenti delle Forze armate regolari della guerra di liberazione. Era domenica 10 marzo 2002. Una giornata storica per la lunga, lenta e controversa marcia verso la pacificazione nazionale che molti (non tutti) dicono di volere ma che pochi (Tremaglia fra questi) cercano di realizzare.
Quel giorno Tremaglia non era soltanto il dirigente di un partito né solo un parlamentare di lungo corso: era un ministro della Repubblica italiana. La cerimonia fu voluta e organizzata dai bersaglieri che combatterono a Montelungo con l’Esercito del sud e dai bersaglieri volontari del Btg. Mameli della Repubblica sociale italiana. C’era una folla incredibile e i rappresentanti di tutti Corpi militari dello Stato e delle forze politiche.
Una giornata storica. Una data storica. Che, in qualche modo, sigillava una vita intera. Mirko Tremaglia si era arruolato a 17 anni nella Repubblica: con lui i due fratelli. E, come disse una volta il figlio Marzio, dalla Rsi non si era mai dimesso. Per tutta la sua vita Mirko Tremaglia è stato il campione assoluto dell’Identità che ha rappresentato e difeso guardando in faccia gli avversari e meritando sempre e comunque il loro rispetto e la loro ammirazione.
Alla Cattolica non lo vollero far laureare perché repubblichino. Cambiò Università, si laureò e divenne avvocato. Nel 1988 andò al Cremlino con una missione parlamentare. Era il tempo di Gorbaciov. C’erano Scalfaro, Pajetta e Piccoli. Tremaglia chiese di poter visitare i Cimiteri dove riposavano i Caduti italiani. Gli venne risposto dal gen. Lobov che si trattava di una provocazione, che quei soldati erano fascisti proprio come lui, Tremaglia. E, quindi, no, non se ne fa niente. Piccoli intervenne per dire che chi aveva fatto la guerra dalla parte “sbagliata” aveva responsabilità colossali e non meritava una sepoltura cristiana e che lui, Piccoli, era contento di aver perso la guerra e di aver ottenuto in cambio la democrazia. “Sei un bastardo! Fai proprio schifo! Hai detto una cosa oltraggiosa per tutti gli italiani! Vai a raccontarla a qualcuno dei tuoi amici delle Brigate rosse!” la replica di Tremaglia.
Nello sconcerto ammutolito degli altri e in particolare del presidente della Commissione Esteri del Soviet delle Nazionalità, Dobrynin, Tremaglia lasciò la delegazione non senza aver prima reso omaggio al Milite ignoto sovietico. Questo era Tremaglia, ma Tremaglia era anche quello dell’abbraccio con Li Gobbi. Identità e pacificazione.

Quell’anno, il 1988, fu l’anno forse più importante della vita di Tremaglia: fu l’anno dell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero. Potrebbe sembrare una cosa da niente. E invece è stata una novità di grandiosa importanza per la democrazia reale del nostro Paese. Prima di quella legge, da Tremaglia voluta con tutte le sue forze, non si sapeva nulla degli italiani all’estero. Erano un popolo sconosciuto, un popolo alla macchia: non per scelta; per il menefreghismo del Sistema democratico-parlamentare che in tutto il dopoguerra tollerava che ci fossero cittadini italiani di serie A (quelli che vivevano in Italia) e cittadini italiani di serie B (quelli che vivevano fuori dall’Italia).
La tenacia di Tremaglia prevalse su questo clima irridente e vischioso nel quale venivano fatte affogare tutte le (peraltro pochissime) iniziative parlamentari prese in questa direzione. La prima, del senatore missino Lando Ferretti, era addirittura del 1955. Ci vollero 33 anni e ci volle Tremaglia per voltare pagina. Una battaglia cominciata nel cuore di Mirko tanti anni prima, in Eritrea. Era il 1963. Tremaglia partì per andare a cercare la tomba del padre.
Era la prima volta che metteva piede nel dolce e difficile Paese africano. La trovò. Era coperta di bei fiori freschi. Pianse. Pianse per il padre ritrovato. E pianse per quella pietà senza parole di chi portava quei fiori.
Giurò che da allora si sarebbe occupato degli italiani nel mondo, di quelli morti e di quelli vivi. Nel 1968 fondò il Comitato tricolore degli italiani nel mondo. Creò Italia tricolore, una rivistina modesta e gloriosa che da quel giorno divenne la dignitosa voce dei patrioti lontani dalla Patria, il loro strumento di collegamento con l’Italia. Due anni dopo i Treni tricolore, uno spettacolo indimenticabile e un segnale del vento che cambiava.
Poi la duplice revisione della Costituzione con le modifiche degli artt. 48, 56 e 57. Un’impresa che pareva folle, impensabile, irraggiungibile. Eppure questo eterno bersagliere fu capace di realizzarla.
Come realizzò un’altra impresa, quella di essere scelto come ministro (2001): un repubblichino, il primo e unico, al Governo della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista. Anno che seguì le parole di Violante (10 febbraio 1998) sui ragazzi che, come Tremaglia, combatterono nella Rsi e che meritano rispetto; e che seguì le commosse parole di Veltroni su Marzio nell’aula di Montecitorio in piedi (28 aprile 2000). Tutti attestati di stima diretti alla vita di Mirko.
Il quale, da ministro, da uomo radicalmente di parte ma strenuamente innamorato dell’unità nazionale, abbracciò chi aveva combattuto sull’altro fronte, dando una lezione di civiltà che ancora è in attesa di essere emulata da chi ci governa in nome della libertà e della democrazia.
Era il 2002. Venti anni fa. Pare un secolo. Davvero una vita da film, quella di Mirko, come gli disse una volta il più grande regista italiano, Federico Fellini. Una vita che, a raccontarla tutta, starà forse in un libro con parecchie pagine. Me ne sto accorgendo adesso che dovrei/vorrei chiudere questo ricordo veloce di un uomo che ha vissuto la sua vita tutta di corsa, come è tipico di un bersagliere.
I ricordi personali sono troppi. Mi stringono alla gola. Mi chiudono gli occhi. Me li tengo per me.
So che alle 11 di sera, tutte le sere, per anni arrivava una telefonata.
“Che fai? Non mi dire che già dormi?”. Parlava con i miei figli: la scuola, gli amichetti, le fidanzatine. Lo chiamavano Zio Mirko.
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