Polemicamente: ma salvare l’italiano non è roba da provinciali

dillodi Francesco De Palo

“Aprire i confini degli Stati” ebbe a dire anni fa il Santo Padre Giovanni Paolo II, stimolando il cosmo a mettere l’accento sulla globalità di vite e sguardi, di idee e neuroni, di braccia e occhi che, oggi più che mai, giustamente si incontrano e si confrontano in un’ottica di condivisione. Chiedere, così come alcune petizioni stanno facendo nelle ultime settimane, il rispetto della lingua italiana non significa però essere aprioristicamente chiusi.

La lingua italiana è in pericolo e lanciare l’allarme non equivale ad iscriversi al partito dei provinciali o degli iperconservatori, tutt’altro. L’importanza delle lingue straniere nel mondo di oggi è un punto fermo: difficile, se non impossibile, approcciarsi ad ambiti internazionalistici senza una buona conoscenza delle principali glosse straniere. Si aggiunga che numerosi sono gli italiani dediti ad apprendere anche lingue più rare, ma strategiche, come il mandarino, l’arabo, il russo, il greco.

Al contempo, però, la quotidianità della nostra lingua è invasa da locuzioni inglesi che, sebbene sia funzionale conoscere, spesso sono di troppo. In questo modo si impoverisce l’italiano, si spingono i nuovi cittadini a non cementare quella conoscenza che deve essere approfondita (in quanto si tratta di una lingua complessa) e si foraggia un’esterofilia che, in questo caso specifico, risulta esagerata. Parlare bene l’italiano senza sciorinare i vari “location”, “feedback”, “background” potrebbe essere un buon punto di partenza.

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