“Altri appetiti, venuti su di soppiatto, per l’insipienza dell’educazione (…) si fanno molti e gagliardi. (…) E infine si impadroniscono dell’acropoli dell’anima giovanile, vistala vuota di dottrina e di nobili studi e veraci ragionamenti, che sono le migliori sentinelle e guardie nell’animo degli uomini cari agli Dei”. (Platone, La Repubblica).
Di tutta la confusa e disarticolata nuova riforma della scuola italiana, approvata giusto pochi giorni fa in sede definitiva alla Camera, altro non verrebbe da pensare. D’altronde, dopo essere stati tratti in inganno per lunghi mesi dagli appellativi con cui è stata chiamata, sia quello governativo “la buona scuola”, sia quello della vulgata mediatica “riforma della scuola”, per cui era quasi lecito attendersi che si entrasse nel merito dei valori dell’istruzione, è stato, obtorto collo, necessario farsi una ragione che altro non si trattava se non dell’ennesimo accrocchio politico-sindacal-economico-funzionale nato, progettato e finalizzato per cercare di sistemare decine di migliaia di precari a vario titolo e poco più (basta essere uno dei suddetti precari per vedere le cose molto diversamente ma il beneficio del dubbio alle parti in causa non è concesso).
Nel frattempo, graduatorie quale la popolarissima lista redatta dal The Economist Intelligence Unit vede, nel recente 2014 – a seguito di un aggiornamento – consolidata la posizione del sistema scolastico italiano ad un buon 25mo posto su scala mondiale (peccato che l’istituzione scuola in Italia è databile sin dall’epoca romana). La tabella è frutto di una ricerca che ha per titolo “The Global Index of Cognitive Skills and Educational Attainment”, ovvero “Indice globale di capacità cognitive e livello di istruzione”. (Per chi volesse divertircisi lo trova qui: thelearningcurve.pearson.com/index/index-ranking).
Orbene, non è questo certo il Verbo pur godendo di una certa autorevolezza ma, per l’appunto, casca proprio a fagiolo per far comprendere come, tra la mega-presunta riforma scolastica che si sta attuando ed i criteri di qualità dell’istruzione ci passa in mezzo il delta del Po. Quanto ci si appresta a rendere legge (manca ormai solo la firma presidenziale) sembra più un aggiustamento economico-finanziario che non una riforma a pieno titolo di qualcosa di estremamente carico di valori come “la scuola”. Va bene che la parola d’ordine oggi per tutti, politici, media e dilettanti allo sbaraglio (questi ultimi tutti presi ancora a fare calcoli di quanto si sia diversi e distanti dalla pandemia greca) è che la cultura e l’istruzione “devono fare PIL!!!” (e basta?) e quindi il governo nelle sue rare apparizioni in veste populista, ringrazia, prende nota, dispone e se ne va dopo una lotta con i burberi sindacati studiata per contentare anche gli ultimi stalinisti e statalisti de’ noartri, senza attivare quei processi che davvero inciderebbero sulla qualità; ma sarà opportuno dare un limite anche a queste cervellotiche perdite di tempo prima di ritrovarsi oltre che poveri, anche ignoranti perché intenti a fare altro.
La “creazione di posti di lavoro” per lo più intoccabili, non necessariamente crea qualità se a ciò non segue un piano di rivalutazione dell’istruzione.
In buona sostanza, parte la difficile e controversa sistemazione più o meno immediata del mastodontico numero non solo di precari, ma anche di laureati e abilitati “insegnanti in pectore” figli di malgoverni precedenti, di politiche mancate ma anche di ottusità personale e familiare visto che le file si sono negli anni ingrossate nonostante il vasetto di Pandora fosse già stracolmo, per cui la società in tutte le sue componenti avrebbe tutte le carte in regola per sentirsi responsabile di questo desolante enorme magazzino-deposito di smistamento (altro che populistici slogan sul diritto allo studio, che come si vede si è trasformato in diritto al precariato ed alla disoccupazione). Pare che “la manovra” attuale riguardi oltre 100.0000 posti di docenza a vario titolo per cui, acclarato che non siamo soggetti ad una esplosione demografica improvvisa ci si domanda quanto fosse stata depauperata di personale l’attività scolastica visto che, da un giorno all’altro (o quasi), il sistema scuola è in grado di assorbire nel proprio organico, con presumibile profitto, tanto personale.
I conti sono presto fatti: agli attuali docenti sono mediamente 665.000 ed un innesto di portata pari alla manovra, considerato anche il turn-over dei pensionamenti, incrementa come minimo di un 10% il personale. Se a quantità corrispondesse eccellenza (dogma risultato peraltro da sempre falso) dovremmo assistere ad una impennata della qualità della nostra istruzione tale da riportarci a fasti rinascimentali.
Il resto della riforma si può sintetizzare in pochi punti salienti. Comunque vada la sola idea di sistemare anche se in un 2-3 anni, qualcosa come oltre 100.000 persone garantirà per certo un fiume in piena di ricorsi e non si sa quanto in termini di efficienza visto che gli stessi, oltre tutto, andranno inquadrati nella accresciuta autonomia delle scuole tutta sperimentale, per cui la bagarre è garantita. Sapere che per secoli la scuola italiana è stata eccellenza nel mondo e vederla dimenarsi in pantani simili è desolante. E’ certo che ogni scuola si trasformerà in un piccolo parlamento ove ogni docente e rappresentante del consiglio di istituto troverà di che alimentare l’attività democratica del paese senza risparmio. Ho personalmente vissuto la nascita dei consigli di istituto e so di cosa parlo.
Aumenta dunque l’autonomia scolastica (o almeno dovrebbe, ma con essa dovrebbe anche aumentare la capacità di essere autonomi, cosa che non darei per scontata) ed i programmi all’interno si faranno (finalmente, sic!) sull’arco di un triennio e non più di un anno anche se ormai, abituati a programmare avendo il mese come unità di misura, sarà arduo il solo formulare ipotesi.
Il preside finalmente non sarà solo il destinatario impotente di tutti i piagnistei dell’edificio scolastico che – agli occhi dello Stato se non altro – dirige, ma avrà anche la sacrosanta facoltà di scegliersi collaboratori ed ovviamente lo farà cercando tra quelli che gli staranno “bene a mano” (didatticamente parlando s’intende) quindi, rassegnatevi e cominciate a sorridere se avete di tali velleità. In tutto questo gran fervore di organizzazione, di programmazione e di flussi considerevoli di denaro che verranno distribuiti dal Ministero, si aggira, subdolo, viscido ed inquietante lo spettro della “valutazione”.
Ebbene sì: la valutazione del docente. C’è chi come me ha plaudito all’iniziativa trovandola finalmente capace di scalzare un’altra delle poche categorie che in Italia sono autoreferenti, in altre parole, senza controllo alcuno a meno che non diventino omicidi seriali con uso di oggetti contundenti – perché con “armi improprie” già ve ne sono – ; c’è chi invece all’idea (coda di paglia?) ha iniziato a sciorinare imperativi sociali relativi a decadi e decadi di diritti acquisiti, vaticinando su rigurgiti fascisti ed eccessi di potere. Sì eccessi di potere perché, ad una prima lettura, sembrava che fosse il Preside (orami per definizione passato dalla seggetta del confessionale allo scranno del padrone delle terre) a dover di fatto, a mo’ di imperatore al Circo Massimo indicare con pollice alto o pollice verso, la sorte del malcapitato valutando.
Ma non sarà così: in primis la valutazione verrà fatta da un capannello di colleghi che ben si guarderanno di infierire sul valutando, da un genitore del consiglio di istituto le cui mansioni nella vita personale presumibilmente saranno quelle di artigiano conciatore, da un altro genitore appartenente ad altro settore merceologico o, nel caso delle scuole secondarie da uno studente oltre che, ultimo ma non ultimo, da un funzionario scolastico non meglio identificato (uno dei famigerati e latitanti ispettori ministeriali?). Secundis, accanto allo spettro della valutazione vi è il “bonus” ovvero il premio di produzione. Maggiore sarà l’impegno di un docente, maggiore sarà la sua possibilità di accedere ad un riconoscimento. Tertius e verrebbe da dire “tertium non datur” (!)non è contemplato, neppure in caso di conclamata incapacità, il licenziamento.
Nella persistenza dell’intoccabilità e della inamovibilità sta tutta ipocrisia del meccanismo valutativo. L’introduzione del bonus sembra dimostrare solo che o lo stato si sente in qualche modo colpevole di elargire attualmente uno stipendio inadeguato o il corpo docente produce a “gettone” ovvero maggiore la pecunia, maggiore il risultato (ed in molti casi, sic, tra gli esseri umani alberga questa indole). Se, comunque si volesse inglobare il concetto di premio di produzione (scimmiottando il mercato del privato, ancora una volta solo quando fa comodo), si dovrebbe per coerenza, assumersi la responsabilità di prevedere anche la riduzione dello stipendio e financo il licenziamento, altrimenti non ha senso riconoscere a chi fa di più, ignorando chi fa di meno. Oltre tutto sarebbe opportuno conoscere a questo punto, visto che si instaura il concetto di “di più”, quale sia il livello “standard” e quello di “di meno”, stabilendo dunque una scala di valori che non ha senso alcuno.
Non si parla qui di una produzione esclusivamente quantitativa, qui si parla di istruzione e di qualità: o si è in grado di fornirla, altrimenti si va a fare un altro mestiere. Anche la cosiddetta valutazione dunque, o la si fa seriamente o, come nella configurazione attuale, diventa una piccola riunione di condominio. Discutere di adeguamento salariale è ben altro discorso ma questi meccanismi da trader che raggiungono il budget non hanno senso alcuno. Oltre tutto il premio dovrebbe consistere, in società come quelle europee di oggi, già nel fatto di non poter essere soggetti a licenziamento (se non per pochi e rarissimi casi che attingono le loro ragioni più al codice penale per criminali), fatto questo che agli occhi di sindacati oramai aggiornati come l’elettronica di un telefono di bachelite o a masse che ancora credono si viva negli anni ‘60, è continuazione di un diritto inalienabile acquisito mentre, alla faccia di chi ha la propria permanenza in un posto di lavoro legata a livelli di produttività/qualità, è un insulto. In questa logica ridicolo appare dunque il meccanismo della valutazione.
Di cosa e su cosa? Pare la valutazione di stampo sovietico fatta all’interno dei condomini, in assenza tuttavia del commissario politico che aveva potere di “vita o di morte”. Si tratterà solo di rilevare il livello di “gradimento” del soggetto per superare il cosiddetto esame. Anche per palese impossibilità, almeno per i membri non docenti del manipolo di valutatori, di poter fare qualsiasi critica o apprezzamento di qualità. Certo se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno questo potrebbe essere un inizio, ma se è vero che il buon giorno si vede dal mattino, paiono queste, delle questioncelle rionali senza spessore alcuno. Si vada, giusto per informazione, a vedere (e non solo quando fa comodo) i sistemi valutativi nel mondo scolastico anglosassone o in quello svedese, dove addirittura il preside, pur nella scuola pubblica, tratta il compenso con il docente.
Ebbene non se ne abbia la categoria dei docenti che potrebbe sentirsi offesa. In realtà la difesa delle “categorie” si sa (ad esclusione dei sindacati che ancora non ne hanno ricevuto notizia), è faccenda oramai improponibile e, in verità, impossibile. Come in tutte le grandi compagini di persone – e qui si parla di oltre 600.000 esseri umani – occorre contemplare, in forza di quella diversità che recentemente è sempre assimilata al concetto di ricchezza, che vi siano i migliori, i buoni, gli indifferenti e i parassiti. Se poi si parla, come detto altrove, di categorie come queste che sono da sempre autoreferenti, visto che abbiamo – sic! – imparato a non fidarci più di nessuno, il dubbio che vi si annidi una ovvia percentuale (anche la legge dei grandi numeri ci viene in soccorso) di inadeguati/inefficienti, cresce percentualmente. Fa parte della natura umana. Questo per far comprendere come, se è vero che nell’ordine naturale delle cosa sta il premio, parimenti alloggia il benservito. Questioni di ovvietà.
Eppure esiste un corpo insegnante valido, preparato, capace di dimostrare che fare il docente non significa unicamente avere cultura e preparazione, significa anche essere capaci di trasmetterla e questa è dote che nessun tipo di studio può dare. Non sono pochi, anzi, al contrario. E so per certo che sono i più delusi in questo momento. Avrebbero avuto necessità di un sostegno che aiutasse a rifondare il trittico scuola-cultura-istruzione ed invece si sono ritrovati con un compendio di tipo ragionieristico tutto da decrittare e sperimentare, atto unicamente a ridisegnare la quantità. Ad esclusione di una piccola concessione: l’aggiornamento obbligatorio (finalmente, anche se poi tale obbligatorietà è tutta da verificare ), con il piccolo contributo di 500 euro annuali che il docente potrà spendere a tale scopo. Non è molto ma certo un corretto incentivo anche se l’aggiornamento dovrebbe essere non lasciato – ancora – nelle mani del singolo, bensì organizzato e pianificato nelle sedi opportune, ovvero le università e le aziende, lasciando poi la facoltà di “rifinire” personalmente l’upgrade effettuato.
In buona sostanza, di fronte alle graduatorie internazionali che ci mostrano in severo affanno quanto a qualità dell’istruzione, di fronte alle competizioni internazionali che non vedono i nostri studenti brillare, di fronte a questa generale mancanza di qualità, la riforma “tanta scuola, buona scuola” pare possa assolvere unicamente al fatto di dare un colpo di spugna generale al pantano strutturale nel quale sta versando. Come tale, non si può pretendere né che accontenti tutti né che risolva i veri problemi. Certamente , questo gli va riconosciuto, getta le basi affinché si possa un domani, parlare di qualità. E parlare di qualità vuol dire parlare di valutazione (si veda il rapporto Eurydice sui sistemi di valutazione attuati in Europa), di formazione dei docenti, del loro aggiornamento, di accesso al ruolo solo per concorso (ed a questo scopo l’attuale riforma sta cercando di svuotare e quindi eliminare le “graduatorie ad esaurimento”, le GAE, anche se ciò comporterà l’immissione nei ruoli di molti degli attuali iscritti senza che abbiano superato alcun concorso). Dunque la situazione della scuola italiana è una situazione di emergenza alla quale si cerca di rispondere con una riforma di emergenza che non risolve nulla ma sblocca unicamente questioni relative alla gestione del personale.
E questo, si sa, non basta; d’altronde i governi sono deboli, le politiche miopi e talmente indaffarate a tener basso lo spread che il tempo per dedicarsi a qualcosa di non valutabile direttamente in cifre risulta faticoso ed estraneo, come il valore e la qualità dell’istruzione anche se, al contrario, dedicarci risorse e volontà sarebbe il più redditizio degli investimenti.