di Enzo Terzi
Sollecitato ad un parere sulla informazione che segue e racconta dell’esodo drammatico cui da europei stiamo assistendo e di cui siamo diretti destinatari, inconsapevoli appartenenti ad una terra promessa che a noi pare un mondo in declino, mi trovo da giorni nella assoluta incapacità di dare un senso compiuto ad osservazioni che non siano di una indicibile ovvietà né risentano di quel sentimento umano che è il senso di solidarietà né, ancor di più, riescano a liberarsi di quella sensazione che oramai si è embricata al nostro Dna che dice come niente accada per caso, ovvero, che tenta di alienarci di quella sottile diffidenza che va insistentemente in cerca di fattori geopolitici ed economici – altresì detti interessi altrui – ai quali oramai abbiamo delegato la responsabilità di quasi tutta la nostra vita e del nostro pensare.
E quanto leggo, osservo e percepisco altro non fa che aumentare questa confusione impedendo ogni e qualsivoglia tentativo di “vederci chiaro”, sospeso tra le chiarezze degli integralisti dell’una e dell’altra sponda del pensiero che navigano tra la certezza della tragedia umanitaria ed il complotto destabilizzante ed insostenibile. Ma non me lo posso né ce lo possiamo permettere.
“In medio stat virtus” ci invitava a credere il buon Cicerone ed ancor prima di lui già Aristotele proclamava che il mezzo è la cosa migliore. Ma in questo caso specifico quale sia il “mezzo” che possa riconciliare con una equilibrata chiarezza è difficile da individuare. E l’informazione in questo non aiuta, per i soliti motivi che ammorbano oramai ogni e qualsiasi notizia ci venga proposta e sottoposta.
Dagli scoop strazianti di fanciulli morti annegati, ai governi impreparati e impotenti che chiudono frontiere o picchiano chi arriva, da chi alza muraglie cariche di simboli non tanto antichi, da chi lucra su trasporti e su cibo, fino ad arrivare al gruppetto di immigrati e /o rifugiati che – pare anche questo – si ribellano al cibo donato e organizzano drappelli di protesta, sembra che gli unici sani di mente siamo rimasti noi, spettatori dal facile sdegno che quasi sempre assolviamo la nostra coscienza dopo una sana dose di commenti social-rabbiosi (e non solo ahimè riguardo questo tema) o di commenti piazzaioli, reputando così di aver adempiuto con il nostro “voto” (visto che oramai votare sembra politicamente scorretto in Italia o gesto di uso anche troppo frequente come in Grecia) al nostro impegno civico e sociale. Ammesso che la parola “impegno” si sappia cosa sia e cosa significhi.
In realtà credo che la parte teorica del concetto sia da tutti conosciuta, quanto alla pratica tuttavia vale il discorso dell’esame per la patente di guida. Normalmente si viene bocciati giustappunto all’esame di teoria: se non sai di quanti pezzi è composto uno spinterogeno non superi l’esame, se invece guidi come un cane e sei dunque un potenziale pericolo pubblico … transeat (non ho ricordanza di alcuno che sia bocciato all’esame pratico). Così va il mondo, quello nostro.
D’altronde, dopo essersi svegliati alle 6, aver preparato colazione per i figli, averli vestiti, portati a scuola, essere scappati al lavoro (per chi ce l’ha, perché anche questo va detto), aver fatto la spesa ed ottemperato ad altre incombenze nella calca più assoluta spesso di servizi pubblici isterici quanto se non più di noi, gestito il quotidiano problema di rispondere almeno tre volte ad offerte sulla telefonia con argomenti che sempre più difficilmente evitano il turpiloquio, essersi nascosti dal direttore della banca che come l’angelo della morte c’insegue, trovare di che esternare della solidarietà e della comprensione non è cosa da poco e già un like su Facebook acquisisce (per i più) i connotati di un gesto eroico.
In molti sono a pensare che la solidarietà è di chi può permettersela, salvo poi rispondere al telefono al nonno che chiama da New York dove giunse in fasce, riparato dal freddo da un involucro di cartone, puzzando di tutto quello di cui può puzzare chi lascia la propria terra sapendo che peggio di ciò che ha lasciato non potrà trovare. Manco ci fossero state le bombe! Ma quelli erano altri tempi e tutto ciò poteva succedere. Oggi no. Perché no? Cosa ci differenzia da allora? Ci differenzia il fatto che il nonno al tempo non aveva un telegiornalista che lo intervistava, come hanno fatto giusto oggi da Vienna con un siriano che riconosce come probabilmente, anche lui, al pari del governo ungherese, vedendosi arrivare inaspettatamente così tanta gente, avrebbe per paura reagito con istintivo spirito di conservazione (in altre parole hanno fatto tesoro delle condizioni italiane e greche). Questo siriano, bontà sua, ha compiuto in pochi attimi un doppio miracolo: ha assolto dietro una patina di “comprensibile paura” gesti che a molti hanno ricordato ahimé recenti deportazioni e pogrom (non sia mai certa dietrologia).
E se a riconoscerci una “comprensibile paura” è il destinatario di simili conseguenze, non solo ci troviamo di fronte alla madre di tutte le sindromi di Stoccolma ma anche ad una sanatoria che, al confronto, relega un’indulgenza papale plenaria ad uno spettacolino da circo (visto che lui fa solo da tramite e non è né il peccatore né il destinatario del peccato). Ha poi compiuto il secondo miracolo: ci ha fatto vedere che è tutto vero e che centinaia di migliaia di profughi e di disperati stanno arrivando e non è una invenzione delle Iene (salvo poi ritrovarsi, oggi, ad Atene, con un gruppetto di olandesi che hanno espresso il desiderio di essere indirizzati alla Stazione Victoria della metro ove sono accampati parte dei rifugiati, per vedere “se era vero”. Complimenti ai media olandesi). E dunque la domanda quale è? La domanda sta nella intervista agli altri 20 o 30 profughi che è stata sicuramente fatta dal telegiornalista ma che non è stata mandata in onda. Risposte che probabilmente avranno avuto toni diversi, anche di accusa, ma che per certo non avrebbero giovato alla causa.
E quale causa dunque? Quella che dovrebbe mostrare il profugo buono e l’Europa cattiva? Quella che dovrebbe ridurre a mero fatto episodico e passeggero la chiusura delle frontiere, l’innalzamento di muri di filo spinato, sgambetti, manganellate e così via? Queste cose che amiamo, con superficialissimo senso di denuncia, ricordarci a vicenda, si facevano in tempi di nazifascismo e subito dopo, anche se a interessa ricordare, ad esempio, come simili esodi senza ritorno (il ritorno dei siriani nella terra natale sarà forse problema di qualche generazione ventura), ovvero di genti che partivano perché non avevano più terra dove andare – almeno nel bacino mediterraneo – già due volte ci erano capitati nell’arco del buon vecchio novecento: prima con gli Armeni nel 1915 con l’esodo verso Aleppo (guarda caso in Siria) e poi con i Palestinesi nel 1947-48 (altri esodi – cito per i lettori frettolosi e magari suscettibili – sono avvenuti nel secolo breve, lo sappiamo tutti, ma solo questi due hanno come caratteristica che chi partiva non avrebbe avuto terra dove tornare).
Per fortuna oggi, panacea tra le panacee, abbiamo la Germania che oramai si erge a sommo risolutore e, di punto in bianco, spiazzando tutti, accetta cento, mille, centomila, un milione di persone. Sì, però siriani, il resto ce lo possiamo anche tenere. E insomma … ma non siamo contenti che alla fine la dura ed inflessibile teutonica nazione ceda improvvisamente alla solidarietà, la stessa che oramai pensavamo non potesse albergare in simili cuori rugginosi? Campi rigorosamente attrezzati, con cardo e decumano di romana memoria in verità, larghi sorrisi alle stazioni, poliziotti che si offrono di portare borse e borsoni mentre nel frattempo (senza far tanta pubblicità) si allunga qualche energico ceffone ai seguaci del Salvini nazionale.
Insomma i siriani pare avessero ragione ed il paradiso sembra davvero albergare a Berlino e dintorni. Se poi ci domandiamo come mai l’Italia e la Grecia scoppino dalle affluenze che ormai da anni seguono inesorabili e la Germania abbia invece (così dichiara il suo governo) capienza per oltre mezzo milione di persone l’anno per i prossimi 3-4 anni, questo è un altro discorso che nessuno, ora poi che finalmente ne stanno accogliendo in senso biblico delle moltitudini, potrà andare a cercare di farsi spiegare (laddove non lo abbia capito fino ad oggi). Ma il problema lì non finisce. Al mondo ci sono oltre 7 miliardi di telefoni cellulari ed anche a voler essere migragnosi, allorché il primo siriano è arrivato sul sacro suolo tedesco, si è sentito umanamente in dovere di condividere, twittare, whatzzappare e telefonare agli altri tre milioni di connazionali che non avendo trovato rifugio nei paesi limitrofi, sta tentando, via Turchia, di raggiungere le omeriche sponde e da lì proseguire la propria Odissea verso le rigogliose ed industriose pianure della Ruhr.
In altre parole, probabilmente siamo solo agli inizi. Resta poi da capire (proprio per chi non vuol capire) come mai un passaggio per poche miglia nautiche (ad esempio dalle coste turche a Lesbo o a Symi, o a Chios o a Kos, tutte raggiungibili giusto in un paio d’ore con un motorino da 5 cavalli) non solo costi come una notte al Burj-Al-Arab di Abu Dhabi, ma sia più pericoloso che non percorrere el Caminito del Rey in Spagna ad occhi
Ed ancor più inspiegabile, vista la situazione, il rifiuto della Turchia di aprire un corridoio umanitario via terra, ma, evidentemente, il Califfo Erdogan dopo aver bastonato a dovere in tutti questi anni a destra e a manca non vuole facilitare le cose ad una Europa che oramai non desidera più e quindi – Ponzio Pilato docet – ci si contenti del fatto che non ce li manda direttamente a nuoto (d’altronde i termini “accoglienza” e “solidarietà” in Turchia sono scalettati tra gli impegni di governo per il prossimo decennio).
Ora gli occhi sono tutti orientati a guardare l’esodo dei cittadini siriani, dopo aver dipinto l’Assad come il peggiore dei peggiori rimasti, salvo scoprire oggi come in definitiva durante il suo regime i monumenti non venivano demoliti, che le donne avevano diritti del tutto inattesi in un paese musulmano (molto peggio stanno in Arabia Saudita, recentemente entrata a far parte nella commissione per i Diritti dell’Uomo all’ONU!!) e che la Germania stessa, dall’alto della sua infinita e novella bontà, riconosce a questa gente un grado di istruzione medio tale da renderli appetibili più degli altri per inserirli in contesti di lavoro qualificato.
E gli altri? Afghani, pakistani, ecc. ecc. solo per citare gli arrivi dall’Oriente? La cosa odora quasi di senso di colpa o, nel più cinico dei casi, di punizione dantesca o, ancor peggio, di autogol.
E le domande aumentano dunque e diventano, oltretutto, fuorvianti in quanto innescano la ricerca di altre risposte che in questo momento hanno il solo compito di distoglierci dall’urgenza per quanto sta succedendo. Insomma chi sono i cattivi e chi sono i buoni? Nel frattempo il biblico serpentone umano si snoda per tutta l’Europa tra l’offerta di un pasto caldo e il superamento di un filo spinato. E noi, impreparati, svogliati, incompresi nella nostra ignavia, frustrati dal nostro quotidiano sempre più difficile da gestire, ci troviamo prima involontariamente costretti a vedere questa moltitudine come una surreale fila interminabile di nuove cartelle esattoriali – novelli Magritte – salvo poi, stropicciarsi gli occhi e rendersi conto che non è poi tanto difficile pensare anche per un attimo solo di potersi mettere nei loro panni e convenire che anche noi saremmo scappati come loro e, come loro, ci aspetteremmo almeno che venisse salvaguardato uno straccio di dignità. A meno che non si voglia fare come molti hanno fatto con i Greci, considerando questi ultimi responsabili per fannullonaggine della loro condizione (argomento sul quale oggi sarebbe fors’anche opportuno fare il punto) ed i siriani di non si sa quale altra tremenda colpa e responsabilità. Ed ecco altre domande. E mai nessuna alla quale uno straccio di giornale sia cartaceo che televisivo o radiofonico sia in grado di dare una risposta che non sia sconfessabile nell’arco di pochi giorni.
E intanto questi arrancano, un chilometro dopo l’altro ritrovandosi ad ogni curva del sentiero un impedimento, un inciampo, una difficoltà, un’impreparazione. Ma la Germania ci salverà. Forse. O forse no. Certo dalla loro hanno il fatto di essere nuovi all’esperienza avendo fino ad oggi tenuto ben controllato l’afflusso alle frontiere e le regole nel paese, cosa che non vale per le navigate Italia e Grecia oramai in stato comatoso che oramai raccolgono come morti ambulanti gli altri, morti ambulanti molto spesso anch’essi, che arrivano, senza interruzione. Paesi questi ultimi, che si beccano pure la contestazione del globo terracqueo per non offrire – spesso – l’accoglienza che sarebbe dovuta ad un essere umano. Ricordo qui, giusto per i più frettolosi, che l’accoglienza non si esaurisce con l’offerta di un pasto caldo o di una bottiglia di acqua o di un riparo – ancorché sacrosanti – per una notte o due.
E qui altre domande ancora. Non ci sono solo i siriani. La tendenza di queste ultime settimane è quella di dimenticarsene. Dalla guerra o da paesi comunque in stato di decomposizione vengono via dalle coste africane, vengono via da metà dell’Asia sub-himalayana, senza pensare anche ad immigrazioni e ad orde di profughi dei quali non si parla più, come gli afflussi di genti (anche se questi non possono tacciarsi del “pivilegio” di profughi) mai cessati da paesi dell’est europeo. Il denominatore comune è quello di una vita migliore, quello di un futuro nel quale ricominciare a sperare. E se paesi come il nostro diventano mete ambite, mentre per noi sono luoghi in decadenza, figuriamoci. E allora non ci siamo. Non ci siamo proprio. Non vale la difesa del proprio orticello di fronte a chi scappa da tragedie mille volte più terribili, non vale nemmeno aprire le braccia perché senza programmi si potrà unicamente offrire l’aiuto dei primi giorni, sopperire alle prime necessità, mentre non saremo certo in grado di offrire un cammino per una corretta e duratura accoglienza.
Occorre tutto ciò che non abbiamo e cioè il coraggio, una volta per tutte, di comprendere non solo che il problema ci vede in parte corresponsabili, ma che lo stesso, oggi, necessita di risposte pratiche, necessita non di una nazione ma di un continente che sappia unire le forze. Necessita di Europa e di risposte che siano collettive, organizzate, serie. Degne della dignità umana. E necessita anche del fatto che prima di assurgere a giudici del mondo ed andare ad intervenire contro il presunto cattivo di turno (favola che ci propinano tutte le televisioni di questo mondo cui apparteniamo), si tenga nel conto che poi tutti i disgraziati che ci andiamo collezionando nel mondo, verranno – giustamente – a chiedere aiuto. Ognuno la pensi come vuole ma l’industria bellica in Italia conta circa 165.000 addetti e non credo che le nostre Forze Armate necessitino di tanto lavoro (fonte: Stockholm International Peace Research Institute), con bilanci in netta controtendenza rispetto agli asfittici trend nazionali. Qualche conseguenza pratica da una qualche parte del mondo dovrà ben manifestarsi (oppure si crede che i miliardi di armi a giro di tutti i folli e disperati del mondo siano made in USA?). E se a ciò si aggiunge il fatto che in nessuno dei paesi in guerra è presente non una fabbrica ma nemmeno una officina di armi, forse un qualche pallido, aleatorio senso di corresponsabilità dovremmo riconoscerlo. Storia vecchia questa che affonda le sue radici almeno nel periodo della guerra fredda, periodo in cui si è cominciato dissennatamente a rifornire di armi ora gli uni, ora gli altri. Chi semina vento raccoglie tempesta. E questo è quanto. Ma non è un pistolotto pacifista quello che può risolvere il problema anche se, visti i risultati, quanto sopra potrebbe anche indurre a qualche riflessione più accurata. Il problema è di oggi.
Ed i siriani in fuga hanno fatto da detonatore ad una situazione che oramai si protrae da anni ( se si vanno a vedere le percentuali, ci rendiamo conto come l’esodo siriano rappresenti una minima parte degli afflussi che saturano le coste greche ed italiane).
Non vi è soluzione immediata. Né francamente potrebbe esserci a meno che i paesi del nord-europea non decidano di assorbire tutti questi arrivi cosa che non faranno mai sia perché sono abituati a programmare le loro mosse (non a caso uno degli atti più iniqui, scellerati e privi di ogni possibile attuazione pratica è la Convenzione di Dublino che vuole che i richiedenti asilo presentino la domanda nel paese di arrivo con lunghe peripezie burocratiche), sia perché non metteranno certo a repentaglio con emergenze come quelle che da anni (lo ripeto) stanno sopportando Italia e Grecia, il proprio status sociale, che permette loro una più ponderata gestione della questione. Anche se al sottoscritto piacerebbero molto tante belle navi in fila che da Izmir vanno dritte a Lubecca, Stoccolma, Rotterdam, Helsinki, Oslo e pure Londra, con buona pace della odiata Convenzione di Dublino.
Non per faciloneria quanto per il fatto che nei paesi di approdo non vi sono più le condizioni di offrire una accoglienza che sia degna di un essere umano. Punto. Invece i Signori fanno gli schizzinosi e quando la patata diventa veramente bollente, chiudono pure le frontiere, vogliono pure scegliere; altri ancora, tutti all’est europeo, fanno pure di peggio, rispondendo con un bel NO, alla faccia anche dello loro recente storia. Il problema è che quanto leggiamo, vediamo ed ascoltiamo (ammesso che si abiti in luoghi dove tutto questo resta lontano), ci parla in termini di scoop sensazionalistici e non di cosa e quanto andrebbe messo in opera per valutare, verificare, pianificare ciò che andrebbe fatto riconoscendo che un problema di tale entità lo si può gestire solo se si è un continente serio, adulto e coeso e non un’accozzaglia di rappresentanti nazionali che cercano di privilegiare le proprie esigenze. Cara Germania e cari paesi del ricco nord Europa la gente ve la volete scegliere nel colore e nella quantità preferiti, soldi non ne volete cacciare, le frontiere le aprite come e quando vi pare. Glielo spiegate voi a chi fugge da condizioni che non augurereste neanche all’ultimo dei vostri concittadini?
E visto che ci siamo, facciamo una bella cosa: i presunti 18 miliardi di sanzioni della Volkswagen (e così valga per tutte le altre case automobilistiche che risulteranno implicate, è ovvio), facciamoglieli spendere a favore di questo problema. Non saranno certo le emissioni di gas un poco al di sopra delle convenzioni di una legge che ci faranno morire. E non saranno certo questi soldi che rivedremo nelle nostre tasche. Così, giusto per farsi ripagare una presa per i fondelli – una volta tanto – con qualcosa di sacrosanto, giusto e solidale. Se poi l’industria bellica italiana si trasformasse in industria per le energie rinnovabili, sparirebbe anche l’annoso problema del petrolio e con esso, probabilmente, buona parte dei nostri mali (mantenendo invariati i sacrosanti livelli occupazionali).