Le 19,34 è l’orario in cui il 23 novembre del 1980 la terra tremò in Campania e Basilicata, con epicentro in Irpinia. Novanta interminabili secondi al termine dei quali il bilancio fu di tremila morti, novemila feriti, trecentomila cittadini rimasti senza tetto e centocinquantamila abitazioni distrutte, senza contare interi paesi isolati per giorni e giorni. La vergogna italiana e di chi amministrava il paese si rinviene in due dati. I ritardi allucinanti dei soccorsi: tardivi, imbarazzanti e da terzo mondo a cui fece da contraltare l’impegno epico dei volontari.
Le promesse, lunghe e imbarazzanti, della politica che ancora una volta usò una tragedia immane per tornaconti elettorali e biechi interessi di facciata. Nel mezzo, un manipolo di italiani, lasciati soli. Sono loro i veri eroi di un mezzogiorno che porta addosso ancora oggi i segni di quel sisma. Ma non nelle strade interrotte o nei paesi isolati, non in scale devastate o in murature da puntellare: bensì nelle anime di chi credeva in qualcosa e si è visto abbandonato.
I trentacinque anni del terremoto in Irpinia devono servire alla politica per guardarsi allo specchio, scoprirsi incapace e bugiarda. E chiedere “scusa”, una frase che non dice più nessuno mentre invece dovrebbe essere il rosario da recitare tutti i giorni. Compresi quelli in cui si chiedono i voti.