Dove guardano i cittadini elettori tra Brecht e Eco

arisdi Enzo Terzi

In questo articolo siamo politicamente corretti. Il termine “candidato” non verrà declinato e sarà usato senza distinzione di sesso, genere, religione, casta sociale, cittadinanza, livello d’istruzione e quant’altro possa costituire differenza in altri contesti passibile di declinazione.
Il peggiore analfabeta è l’analfabeta politico. Egli non sente, non parla, né s’importa degli avvenimenti politici. Egli non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell’affitto, delle scarpe e delle medicine dipendono dalle decisioni politiche. […] Non sa l’imbecille che dalla sua ignoranza politica nasce […] il politico imbroglione, il mafioso corrotto, il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali”.

Siamo agli inizi del secolo scorso anche se alla retorica popolare contemporanea potrebbe non sembrare. Sono parole di Brecht, Bertold, insigne tedesco, drammaturgo ed uomo di sinistra, così come la si poteva concepire allora in quel periodo tra le due guerre mondiali in cui da una parte si consumavano gli ultimi decenni degli ormai sbiaditi fasti imperiali e dall’altra si insinuava la coscienza non solo populisticamente operaia ma anche dell’individuo. E se alla schietta rappresentazione del tedesco si volesse attribuire un sentimento lontano dalle passioni italiane giusto divenute nazionali (più o meno forzatamente) grazie all’inattesa vittoria nella Prima Guerra Mondiale, ecco che nostranamente, tale Gramsci, Antonio, anche se indotto da motivazioni estremamente lontane, lanciava il suo j’accuse con altrettanta fermezza: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti” (1917).

Il cittadino tale è per diritto di nascita ma per potersi trasformare nell’animale politico, il “politikòn zôon” cui faceva riferimento Aristotele (tanto per non farsi mancare anche ben più remoti riconoscimenti), ovvero in quell’essere portato per natura ad unirsi in comunità occorre un salto di qualità. Il cittadino è tale non solo per diritto anagrafico ma anche perché concorre alla gestione del governo in base al ruolo assegnatoli.
Lo scopo del governo è quello del bene dello stato, della comunità. Essere buoni cittadini non necessariamente, specifica Aristotele, coincide con l’essere uomini buoni. Virtù personali e virtù del governante sono cose diverse perché diversi sono gli obiettivi che si perseguono.

Molto più vicino ai nostri tempi, nel 1919 per l’esattezza, in una dissertazione di Croce, Benedetto, vuole confermarci che “Un’altra manifestazione della volgare in intelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell’«onestà » nella vita politica. L’ ideale che canta nell’anima di tutti gl’imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorta d’areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese. Entrerebbero in quel consesso chimici, fisici, poeti, matematici, medici, padri di famiglia, e via dicendo, che avrebbero tutti per fondamentali requisiti la bontà delle intenzioni e il personale disinteresse, e, insieme con ciò, la conoscenza e l’abilità in qualche ramo dell’attività umana, che non sia per altro la politica propriamente detta: questa invece dovrebbe, nel suo senso buono, essere la risultante di un incrocio tra l’onestà e la competenza, come si dice, tecnica. […] È strano (cioè, non è strano, quando si tengano presenti le spiegazioni psicologiche offerte di sopra) che, laddove nessuno, quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a una operazione chirurgica, chiede un onest’uomo, e neppure un onest’uomo filosofo o scienziato, ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurgi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina e chirurgia, forniti di occhio clinico e di abilità operatoria, nelle cose della politica si chiedano, invece, non uomini politici, ma onest’uomini, forniti tutt’al più di attitudini d’altra natura”.

Riepilogando: stabilito dunque che l’analfabeta politico è animale pericoloso, sancito il disprezzo per gli indifferenti, condizione che già Aristotele di fatto ebbe a stigmatizzare come caratteristica non propria dell’essere cittadini in quanto ciascuno deve concorrere al bene comune, stabilito inoltre che al politico non debba richiedersi una generica forma di virtù bensì la specifica indole a saper ben governare, possiamo avvicinarsi a quell’epocale cambiamento che è stato da molti definito come la democratizzazione dell’informazione.

L’accesso all’informazione da parte di tutti e la possibilità per tutti, come conseguenza, di fare informazione, intesa nel senso più ampio di esternazione, di divulgazione di un pensiero o di una notizia. E così come per Aristotele la democrazia altro non era che una forma esasperata di governo e pertanto non preferibile alla “politeia” intesa come giusto mezzo tra aristocrazia e democrazia, altrettanto, ai giorni nostri dove la democrazia si manifesta anche nella globale libertà di parola, si arriva alla altamente provocatoria considerazione di Eco, Umberto: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli […]La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità».
In questo contesto, ch’è quello dove abitiamo, dove cerchiamo di farci una identità e di darci un obiettivo, il grande appuntamento delle elezioni politiche assume un significato ben diverso da quello che aveva ai tempi dei vari Brecht, Gramsci o Croce. Allora era per eccellenza il momento unico rispetto alla quotidianità, durante il quale si poteva esercitare il proprio diritto ad essere cittadini, oggi non è altro che uno dei momenti di sintesi di una vita che ha, quanto al manifestarsi, la possibilità di servirsi 24 su 24 dei mezzi più diversi.

Chi oggi si presenta per concorrere ad una carica politica lo fa cosciente di cosa i cittadini vorrebbero e di come lo vorrebbero. Ed è cosciente altresì di come gli stessi cittadini lo metteranno alla gogna. E sa anche che sarà messo alla gogna per fatti spessi indipendenti o insignificanti rispetto al buon governo dello stato. Diminuite pure la qualità di un servizio e sopravvivrete, ma non togliete al cittadino la possibilità di lamentarsi di ciò perché non ve lo perdonerà. L’esternazione del proprio dolore e del proprio dissenso sono oggi le vette più alte della partecipazione che a molti si può richiedere. Senza contare “gli imbecilli” la cui presenza oltre che essere avallata dalla quasi totalità degli internauti (salvo coloro che pur non negandola hanno preferito porre l’accento sulla vittoria della democrazia) è, nel contempo difficile da identificare proprio per i tanti che, nel convenirne, ne hanno implicitamente preso le distanze. E dunque venendo solo agli italici panni, perpetuando ancora quello schema televisivo per cui ci sentivamo superiori allo “scemo del villaggio” ed in altre occasioni tutti allenatori, la colpa è sempre alloggiata altrove e presso altrui. E così pure l’imbecillità.
Nobilitati dunque da simile capacità critica oggi – e non già ieri che eravamo costretti a mugugnare più o meno in privato le nostre pene – anche per i fatti elettorali la colpa è e sarà di altri.

No, ci vogliono le primarie come se ogni santo giorno non fosse, di fatto, una primaria ad libitum e come se da esse potesse effettivamente saltar fuori il candidato perfetto. Perché questo cerchiamo, ancora in preda evidentemente della sindrome del principe azzurro. E allora primarie, secondarie e poi ancora altri voti e contro voti affinché “quelli lassù”, da domani, non siano più frutto di scelte anch’esse “di altri” ma le nostre, proprie e personali. Peccato che all’ultima votazione dovremo arrenderci al fatto che gli eletti lo saranno per quella democratica regola che si chiama “maggioranza” e quindi non necessariamente sarà il “nostro” unico ed insostituibile. Sarà probabilmente figlio di altrui preferenze. E pertanto un impuro, un indegno, un non titolato, un incapace a prescindere, per quella oramai consumata norma per la quale non vale neanche la pena di vedere cosa sia capace di fare. La nostra affinata capacità critica oramai giudica “a pelle” senza margine d’errore. Ma questo è il sistema critico italiano. E se provassimo ad utilizzare altri metodi elettorali, provenienti da altre esperienze? Quello statunitense ad esempio che tanto sembra coinvolgere il proprio paese potrebbe forse giovare alle nostre scelte?

Siamo là, anche in questo periodo, in fase elettorale e, come di consueto, i candidati vengono passati ad una tomografia assiale computerizzata mediatica che qui ce la sogniamo. Un esame che il Benedetto, Croce s’intende, reputerebbe in buona parte inutile in quanto le eventuali nefandezze riscontrabili in ambito di vita privata e/o di altre attività che non siano la politica per lui non avrebbero valore alcuno. E fors’anche in parte Aristotele stesso avrebbe da eccepire visto che per lui etica e politica viaggiano su binari diversi anche se non paralleli.
Più accondiscendente potrebbe essere Brecht anche se poi, per la sua paura che il candidato possa rivelarsi “il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali”, già in questa fase vedrebbe – con buona pace della sua sinistra vocazione – come unico candidato sopravvissuto a tale scrematura, il “palazzinaro de voartri”, al secolo Donald Trump, l’unico che pare, non abbia di che rispondere di alcun patrimonio altrui. Contento non sarebbe neanche il Gramsci nazionale poiché nonostante l’assordante strombazzamento l’assenteismo anche negli Stati Uniti non scherza affatto a testimonianza forse che anche un più diretto coinvolgimento non è necessariamente portatore di maggior coinvolgimento.

Ma indipendentemente dalla caratura dei partecipanti che qui non interessa indagare, ciò che preme è il mezzo. Forse, obnubilati dalla grande cacofonia che circonda l’evento elettorale, dimentichiamo (o non sappiamo) che almeno per quanto concerne le primarie Usa, le stesse – atte a stabilire i “corridori” di ogni partito – si svolgono con sistemi che variano da stato a stato ma che, comunemente, riconducono nella maggioranza dei casi non a votazione diretta dei candidati ma al voto di un organo intermedio ed intermediatore, ovvero il “caucus”, una sorta di “gran consiglio” di indiana memoria al quale partecipano in taluni stati solo gli iscritti al partito stesso, in altri stati coloro che si iscrivono anche solo per quella votazione (gettando subito dopo la tessera alle ortiche), in altri ancora – ma sono pochi – chiunque voglia. Vi è dunque anche lì un filtro che ovviamente, essendo il “caucus” un organismo di fatto gestito da un partito, ha lo scopo di scegliere colui che viene reputato il più adatto a sfidare nello scontro finale l’avversario o gli avversari di altri partiti, anche se storicamente è quasi sempre un testa a testa tra candidato democratico e conservatore. Al termine delle primarie in parte si risolve la partecipazione popolare anche se non si esaurisce.

L’elettore, una volta compiuto lo sforzo di accettare il candidato che sicuramente piace ad un partito, deciderà poi, alla tornata finale (di solito si tengono in novembre) chi votare, dopo che i due sfidanti si saranno scannati su tutti i media, dopo che la loro vita privata, fino al terzo o quarto grado di parentela sarà stata passata sotto la lente di ingrandimento per verificare che non vi sia fatto politicamente scorretto da addebitargli a partire dalla più tenera infanzia. Politicamente scorretto beninteso secondo i canoni americani che grosso modo suonano così: per i repubblicani ogni democratico è un furfante figlio dei fiori, mentre per i democratici ogni repubblicano è un guerrafondaio servo dei banchieri e dei petrolieri. Senza che vi sia eccezione alcuna. Se i candidati riescono a passare al vaglio di questo divertente esame – che niente ha a che vedere con le capacità politiche ma il cui intento è solo quello di suscitare lo scandalo atto a screditare – può giocarsela nelle urne. Una simile torchiatura renderebbe di fatto inammissibile il 99,9% dei candidati che si presentano alle elezioni in Italia. Siamo più crociani in questo senso ed a meno che lo stesso candidato non sia incorso in bancarotta fraudolenta o abbia commesso omicidi seriali, poco d’altro c’importa. Il resto rimane politica: gli verranno alienati voti da parte di coloro che lo avranno mal giudicato ma difficilmente potrà incorrere in una rinuncia per pregressi comportamenti universalmente censurabili. Sappiamo bene in realtà che il peggio di sé lo daranno una volta seduti in poltrona.

Vi è poi un’altra questione che in Italia creerebbe non poca difficoltà ed è il corredo che quasi ogni candidato americano ha di massicci finanziamenti, quasi tutti alla luce del sole beninteso, vigendo là una ben diversa normativa ed agguerritissime squadre di giornalisti investigatori (sono correntemente centinaia i milioni di dollari che vengono raccolti da ogni candidato a sostegno della propria campagna). Questa cosa ci farebbe non solo schizzare gli occhi fuori dalle orbite come se i costi di una legittima campagna elettorale, ovvero di una campagna durante la quale si informano i cittadini del proprio programma nel caso si venisse eletti, fosse cosa da far pagare ai candidati di tasca propria o meglio ancora da altri che abitano su un altro pianeta. Non risolve certo il problema la legge nuova (governo Letta) sul finanziamento ai partiti che, con il ridicolo tetto di 300.000 euro annui (deducibili al 26%), non può certo pensare di sostenere i costi della politica. Resteranno altre forme occulte di finanziamento che invece, se fossero tutte apertamente dichiarabili e deducibili farebbero il bene di tutti evitando i consueti fondi neri e i segreti di Pulcinella. Questo pudore di non voler vedere una azienda schierarsi politicamente in maniera aperta e ufficiale è ipocrisia tutta nostrana. Come se il suo titolare e/o consiglio di amministrazione non andasse a votare! In altre parole, questo sarebbe un altro scoglio insormontabile. Avremmo tutti la maglietta con scritto “je suis Brecht” e tutti grideremmo alla servitù, al vassallaggio ed all’inciucio tra politico ed azienda. Che viva di aria questa politica, perbacco!

Resta poi un fatto, ultimo forse, che è il ruolo dei media, dalla carta stampata alle televisioni. Là oltre oceano, nessuno fa grazie a nessuno, non esiste pietà alcuna ed il livello di fiducia che viene loro riposto è senza dubbio alto, tanto che la stampa è pesantemente in grado di influenzare l’opinione pubblica. In Italia? Beh, non mancano le eccellenze ma certo non si può parlare di media in grado di incidere pesantemente sulla pubblica opinione. Troppe sono state anche recentemente le occasioni per le quali il discredito si è accumulato e sì che anche tra i giornalisti, ad esempio, in tempi non troppo lontani, ci sono state vittime per inchieste condotte là e su chi non avrebbero dovuto.

La questione probabilmente è un’altra ed il metodo, sia esso utilizzato da questa o dall’altra parte dell’Atlantico, poco risolve del problema fondamentale che afferisce invece la competenza del candidato. Problema che sembra in parte dimenticato a favore della possibilità di poter direttamente eleggere il proprio beniamino. Verrebbe in mente di istituire allo scopo delle specifiche assemblee di “saggi” (e per saggi si intende specialisti di ogni branca che afferisca il governo di una nazione, quale che sia la loro provenienza politica, che andrà proporzionalmente suddivisa a seguito dei risultati elettorali precedenti) di antica memoria, assemblee ampie, capillarmente distribuite in tutte le città, rappresentative dunque di ogni territorio, alle quali delegare la disamina dei candidati in modo che chi si sottopone al voto popolare sia almeno passato attraverso un vaglio di competenza.

Altrimenti, volendo perseguire la strada della elezione diretta, sic et simpliciter, dovremo, da profani, decidere fidandosi più probabilmente delle loro capacità di imbonitori (la falsa promessa elettorale è nata insieme al concetto di “elezione”) che non di governanti. Senza dimenticare che poi avremo, imbecilli o meno, tutta la potenza di internet per poter gridare al mondo il nostro dolore.

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