Credo a tutti sia conosciuta una frase pronunciata il 28 agosto 1963: “I Have a dream” (io ho un sogno). Fu Martin Luther King a pronunciarla, forse l’ultimo grande leader di questo mondo.
Era stato preceduto di pochi anni da un altro grande ed indiscusso: Mohandas Karamchand Gandhi, il Mahatma. Gli ultimi due che hanno lasciato la loro impronta nella storia per aver caparbiamente inseguito un sogno. Entrambi morti ammazzati, quasi inutile soffermarcisi su, così come parimenti a tanti dei grandi sognatori era successo nel corso della storia.
Gli ultimi due al mondo visto che negli anni ’60 anche in una Europa che stava vivendo il periodo di massima e febbrile ricrescita e riorganizzazione dopo i danni scatenatisi causa altri sognatori – di incubi invero – che pur tuttavia avevano in una prima fase raccolto i loro momenti di gloria e di successo. Una Europa che stava con estremo timore (ed in definitiva con molte malcelate note di sospetto e di sfiducia) cercando di ritrovare anche la strada di una autonomia politica, preda come era, invece (ed ancora per non pochi anni lo sarebbe stata), di quello scontro tra i vincitori della seconda guerra mondiale, conosciuto sotto il nome di guerra fredda ma che altro non era se non un assaggio di quello che poi si sarebbe conclamato con il passare dei decenni: il potere finanziario che stava muovendo i primi passi per sostituirsi a quello bellico visto che, perseverando nel conflitto armato, il rischio era quello di innescare un meccanismo irreversibile che non avrebbe prodotto alcun vincitore.
La supremazia politica intesa come scontro tra mondi dalla visione completamente opposta stava cercando nuovi sistemi per combattersi ed essendo venuto meno lo slancio militarista che al massimo oramai si manifestava soltanto in scontri cosiddetti collaterali (il Vietnam primo fra tutti fu un classico esempio di questa lotta di supremazia decentrata), lentamente si creavano le condizioni per mettere in atto la vera arma del XXI secolo: la finanza. In questo contesto, dopo che l’ultimo dispetto tra i due giganti può a ragione individuarsi nella costruzione del Muro di Berlino (agosto 1961), l’Europa – quella occidentale da una parte e quella del Patto i Varsavia dall’altra – cercò vie e forme per lanciare una cooperazione su più livelli. E se tale intento di fatto nei paesi del Patto di Varsavia fu stroncato sanguinosamente sul nascere, da parte occidentale portò alla creazione di quegli organismi (MEC, CEE, …) che approderanno poi nella costituzione della Unione Europea odierna.
Mec sta per Mercato Europeo Comune e Cee sta per Comunità Economica Europea e questo la dice lunga sulla matrice squisitamente commerciale sulla quale si è sviluppata l’attuale Unione Europea che, non a caso, è incapace di produrre alcunché al di fuori di accordi commerciali, mancando del tutto di un Dna politico comune, nonostante che alcuni paladini, i cosiddetti “padri dell’Unione” avessero, a suo tempo, fatto i loro buoni tentativi per indirizzare verso una più ampia condivisione di intenti. Ma tal signori venivano fuori dall’olocausto della guerra, avevano gestito le difficili fasi che seguono ogni conflitto, durante le quali non solo si ricostruisce con i mattoni ma anche con le idee, che diventano ideali e ogni addirittura. Proprio come Luther King ed il Mahatma Gandhi.
Da allora l’Europa non ha prodotto più leader politici. Quelli sopravvissuti ebbero alterni successi nei propri paesi, dopodiché il vuoto della mediocrità. Mediocrità, s’intenda non intesa in senso dispregiativo quanto come quell’universo all’interno del quale ci si muove sempre in bilico, misurando progetti ed ambizioni su poche, piccole cose, in un clima dove anche il vecchio sovietico (e tanto deriso talvolta) “piano quinquennale” con il quale gli eredi di Stalin cercarono di mandare avanti lo sfiatato baraccone, potrebbe sembrare un parto di fantasia dei più audaci, una visione così lontana nel tempo da sembrare una scommessa con l’ignoto.
Cosa è dunque cambiato per non riuscire a trovare più neanche con il lanternino uno straccio di personalità politica di grande livello? Perché fino al secolo scorso convivevamo con personaggi politici (anche nostrani) che ipotizzavano la nascita di comunità europee ed i loro discorsi erano ricchi di termini come libertà, solidarietà e prosperità che cercavano di trasformare in promesse di fronte alle quali eravamo colpiti ed affascinati? Perché oggi, in Italia ad esempio, il capo del governo si permette, osa vorrei dire, conquistare il popolo che rappresenta con una promessa da 80 (dico ottanta) euro, presunti mensili, con la faccia di uno che sembra debba venderti una fetta dell’universo cosmico mentre non sta altro che copiando quella vecchia idea dei “trenta denari” che già a suo tempo fece un certo scalpore, storia questa riportata con beffarda ironia proprio nel Vangelo di Matteo … (ed altro non aggiungo)?
La ricerca del capro espiatorio tuttavia non porta ad alcuna soluzione. Tra i Luther King e gli attuali leader politici sembra siano passati secoli e invece poche decine di anni li separano, talmente poche che riesce difficile accettare che i primi siano tanto lontani da risultare solo materiale per i manuali di storia mentre sono personaggi appartenenti al massimo alla generazione dei nonni di molti di voi, per altri addirittura alla generazione dei padri.
Eppure in questo ultimo quarantennio una cosa si è distrutta ed è proprio la capacità di sognare. Il sogno non è unicamente quell’atto di elaborazione fantastica capace di trasformare la realtà fino a sostituirla. Non è un mondo parallelo. Sognare in termini politici e sociali è coltivare l’idea di un obiettivo grande, ambizioso, è la forza di farci sentire partecipi di qualcosa di potente per il quale vale la pena di concedere l’impegno, la fiducia. Sognare è la capacità di ipotizzare e concorrere a realizzare il futuro.
Quale il futuro che si chiede oggi al nostro politico? Quanto è grande? Quanto è lontano? Quanto è difficile? Quanto siamo disposti ad investirci come comunità? La risposta a queste domande ahimè darà il perché degli 80 euro e di tanto altro ancora.
Ma oggi in tempi di esasperata democrazia il leader non lo vuole più nessuno salvo gli scalmanati. Oggi il leader è una figura, in Europa, vista ed interpretata al negativo. Leader è una persona forte, di carisma, capace di coinvolgere e noi non ci vogliamo più cascare. Essere leader è essere estremista e gli estremisti sono antidemocratici: bocciati tutti sul nascere. Ognuno è leader di se stesso e tanto basta. Viva la democrazia.
Un passo indietro: avevamo sopra accennato come l’evoluzione della matrice comunitaria europea si sia basata essenzialmente su accordi economici ed avevamo inoltre puntato l’attenzione sul fatto che la fine della guerra fredda di fatto simboleggiò il cambiamento delle armi impiegate: da quelle militari a quelle finanziarie.
Ebbene accordi commerciali e finanza vanno indissolubilmente d’accordo ed è così che il nuovo potere si consolida fino a sostituirsi al potere politico. Quale leader politico oggi non spende il 99% della propria giornata lavorativa se non dietro ai bilanci? Perché il nostro capo del governo anziché promettere una rete italiana di centri di ricerca per le malattie gravi, preferisce distribuire queste risorse dando a molti di noi 80 euro di regalo? Evidentemente sa che avrà più possibilità di essere ben accolto con questa scelta anziché con l’altra che potrebbe invece essere vista come un’idea balzana. Se fossero stati impiegati nella seconda non avremmo potuto “toccare con mano” i risultati forse prima di un decennio (cfr. futuro, inteso come capacità di immaginare, programmando, un miglioramento, una evoluzione), gli “80, pochi, maledetti e subito” avrebbero ben pagato un paio di rate del nuovo iphone.
Prepotentemente mi viene in mente Aldous Huxley che nel 1932, nel suo utopico volume “Il mondo nuovo” ebbe ad affermare: “’La dittatura perfetta avrà sembianza di democrazia, una prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno mai di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù”. “… grazie al consumo ed al divertimento …ameranno la loro schiavitù”.
Ma se anche per alcuni certe citazioni risultassero odiosamente “radical chic”, sono certo che se domando a 100, 1000 persone quale è il loro sogno, troverò tutte le spiegazioni sufficienti e necessarie a giustificare la scomparsa dei leader o come si voglia chiamare i Luther ed i Gandhi che avevano un sogno. Mi mancano, molto, perché a quella loro capacità di coinvolgermi io rispondevo con la disponibilità a farmi coinvolgere, segno evidente che ero pronto a immaginare e lavorare per un futuro che avrebbe potuto essere anche il mio. Oggi prevale la più totale delle diffidenze e chi ha compiti di gestione e rappresentanza deve misurarsi e lavorare su futuri di piccolo cabotaggio, di breve termine, di mesi addirittura, sostenendo risultati minimi, pratici, di immediato impatto. In questa logica non v’è più assolutamente humus per il grande ideale, per una progettazione che tale possa chiamarsi e d’altronde nessuno la chiede ormai più. Il benessere maggiore si vuole per oggi e non per domani, il futuro, inoltre, è fatica, un salto nel buio, una delega della propria sovranità. A proposito, intanto il benessere si misura in capacità di consumare e quindi in capacità di produrre debito: ed è questo il compito del leader di oggi, del capo di governo. Fare sì che la propria popolazione sia capace di un maggior debito e di un maggior consumo, l’uno e l’altro fratelli siamesi di questo deserto di idee. L’unico futuro concesso – e non per tutti in realtà – è quello costituito dalla possibilità di procrastinare il debito fino a 50 anni (considerato il massimo riconoscimento per uno stato da parte del potere finanziario): in pratica il futuro come ricettacolo di debiti che pronipoti dovrebbero (il condizionale è d’obbligo tanto è ridicola questa cosa) poi accollarsi insieme alla prima poppata.
In buona sostanza è l’orgia del debito dalla quale non si vuole (mondo finanziario), non si deve (mondo politico) e non si può (popolazione) escludere dalla quotidianità che così vede pesantemente inficiata ogni e qualsiasi ipotesi di futuro diversamente realizzabile.
E’ una miscela esplosiva dunque quella che ha condotto all’estinzione (temporanea in senso storico almeno) dei leader politici. La loro sudditanza ai voleri finanziari e il nostro bisogno rattrappito di piccoli aumenti di benessere esenti da fatica alcuna ne hanno modificato i parametri genetici. E talvolta, come in Italia, manco si perde tempo per andarli a votare ed anzi, quando possibile, sono gli stessi a sconsigliarcelo.
C’è un modo di sovvertire il movimento ipnotico di questa situazione dove a tutto si assiste, da tutto si prendono le distanze, per tutto si trova un colpevole, ed è ricominciare a sognare. “I have a dream” (io ho un sogno). Cominciare a ripeterlo piano ogni giorno fino a ritrovare la capacità di crederci ancora. E lavorarci su. Non un sogno piccino di intenti e di statura, relegato nel luccichio di qualche moneta che poi, qualcuno, sarà costretto a pagare non una ma cento volte.
Un sogno che guardi lontano, che immagini e percepisca come realizzabili dei rapporti più consapevoli con il mondo che ci circonda, con le altre popolazioni, con noi stessi, ricomponendo l’armonia tra i diritti e i doveri, non per regola imposta ma perché quel panta rei che accompagna la nostra vita ha bisogno di regole e obiettivi per essere compreso, per essere riportato ad una dimensione accessibile agli umani. Avere un sogno è faticoso, doloroso, estenuante. Coltivarlo ed alimentarlo significa compiere quello sforzo che lo trasformerà da sogno in futuro e ci concederà la forza per uscire da questa condizione di sconsiderati Sisifo alla quale, meschini (!!), sempre più ci stiamo abituando in cambio, appunto, di trenta denari (80 euro al cambio odierno) per ingannarci da soli. Oltre a riconquistare il diritto anche di accettare dei leader, visti come coloro che meglio possano dare forma al bisogno di futuro, interpreti e non impostori.