Dalla Communalka al Cremlino, passando per la costruzione (non in vitro ma sul campo) di una personalità che si é fatta statura leaderistica. E’la traccia seguita da Gennaro Sangiuliano ne “Vita di uno zar” (Mondadori) in cui il vicedirettore del Tg1 racconta l’intimità più profonda del Presidente russo Vladimir Putin.
Perché una biografica analitica su Putin?
Perché è certamente un protagonista rilevantissimo di tutto lo scacchiere geopolitico internazionale, come dimostra il caso siriano e non solo. Ma per poter valutare le sue azioni credo sia utile conoscerne la biografia, anche quella più intima e personale, e così comprendere come dalla storia russa sia potuto scaturire questo personaggio. La sua storia personale è perfettamente coordinata con la storia recente del Paese.
Un minimo comun denominatore tra un paese e il suo leader?
Aderisco sempre al principio crociano secondo cui la storia è sempre storia contemporanea. Non esiste una storia del passato, ma essa ci offre tutti gli strumenti conoscitivi che ci consentono di poter valutare il presente e la nostra contemporaneità. Per cui conoscere Putin significa conoscere, non solo la sua biografia personale; ma anche quella allacciata al contesto del suo Paese.
Quali le sue peculiarità che l’hanno più colpita?
Inizio il primo capitolo definendo Putin “figlio dell’assedio”. Nacque nel 1952 nell’allora Leningrado, che ancora non aveva recuperato il nome della vecchia capitale imperiale, quando al potere c’era Stalin e da pochissimo si era concluso il più tragico assedio della storia: le armate naziste avanzarono verso il centro della Russia e Stalin non volle far evacuare Leningrado e i suoi cinque milioni di abitanti. Volle che i civili restassero in città per costituire una spina nel fianco per i nazisti. Fu una scelta militarmente opportuna ma umanamente tragica, in quanto l’assedio costò un milione di morti. Durante quell’assedio la famiglia di Putin soffrì la fame, suo padre perse una gamba in combattimento, sua madre riportò danni irreversibili causati dalla mancanza di cibo. Perse anche un fratellino che non aveva mai conosciuto, Viktor di sette anni, morto di stenti in un istituto dove la famiglia lo aveva ricoverato nella speranza che potesse sopravvivere. Per cui quando Vladimir nacque furono ben presenti le ferite, non solo materiali, ma anche quelle morali dell’assedio.
Come si caratterizzarono i primi anni della sua vita?
Fino a 30 anni visse in una kommunalka, un appartamento di circa 120 metri quadri dove convivevano in epoca sovietica quattro o cinque famiglie. Ad ogni famiglia veniva data una stanza, con in comune il bagno e la cucina. Chi ha visto Il dottor Zivago può farsi un’idea della kommunalka. La durezza di quel contesto fu un elemento imprescindibile per comprendere il carattere del personaggio.
Quanto incide nell’economia complessiva della sua forma mentis, l’esperienza diretta nel Kgb?
Certamente molto. Innanzitutto va detto che il Kgb era la famigerata polizia segreta dell’Unione Sovietica, uno dei bracci della repressione del sistema comunista. Ma paradossalmente era l’unico apparato che funzionava con efficienza in un contesto che andava verso lo sfascio, dove l’uguaglianza non era stata realizzata: il comunismo aveva creato solo un grande cimitero di macerie morali e materiali. Alla fine degli anni ottanta il paese si confrontò anche con un grande dramma, umano e sociale: l’alcolismo. Secondo gli indici dell’Oms il 70% della popolazione russa ne soffriva. Paradosso dei paradossi, proprio nel Kgb andarono maturando le maggiori consapevolezze sul fatto che il sistema sovietico fosse marcio. Tanto è vero che il capo del Kgb, Andropov, che poi riuscì a diventare segretario del Partito Comunista, era un riformatore. Mentre chi lo sostituì perché molto malato, ovvero Cernenko, era un conservatore con una posizione di regresso rispetto al primo. E Putin fra i giovani ufficiali del Kgb, ovvero fra coloro che avevano le informazioni sostanziali sulle reali condizioni del Paese, maturò la consapevolezza che il comunismo fosse finito, perché fallì la sua missione storica e che occorresse superarlo.
Dall’autoritarismo zarista a quello bolscevico: come si inserisce, economicamente prima che politicamente, la parabola putiniana?
Nel libro c’è una tesi molto chiara: Putin è un personaggio veramente coerente con la storia del suo Paese ed è il massimo di democrazia e di apertura che la Russia può consentirsi in questo momento storico. Nel senso che ancora nel 1860 aveva la servitù della gleba, una vera e propria forma di schiavitù. Poi passò dall’autoritarismo zarista-imperiale a quello bolscevico-comunista che non realizzò alcuna eguaglianza sociale, ma sostituì alla vecchia aristocrazia nobiliare un’altra fatta dagli apparaticchi del partito. Ora, noi non potevamo pensare che caduto il comunismo la Russia potesse diventare, in pochi anni, una democrazia liberale. La stessa Europa l’ha conquistata dopo molti anni. Ne “L’opera al nero”, il bellissimo romanzo storico di Marguerite Yourcenar del 1968, si raccontano le guerre religiose che ci furono dal ‘500 al ‘600 in Europa. Poi, molto gradualmente, attraverso la Rivoluzione Francese, l’Illuminismo e la Rivoluzione Liberale del 1848, il vecchio continente conquistò una forma più compiuta di democrazia. Questo processo storico in Russia non si poteva certo fare in laboratorio.
Quindi?
Quando Aleksandr Solgenitsin, lo scrittore premio Nobel, ritornò nel 1994 in Russia dopo un lungo esilio negli Usa, disse: “Ringrazio gli americani per avermi ospitato e protetto, ma la Russia non può diventare come loro”. Nei processi storici dobbiamo riconoscere la tradizione e il fondamento di un popolo, perché rappresentano una sorta di dna, di tratto antropologico. Come esiste una memoria individuale rispetto ai nostri avi, così esiste una collettiva rispetto alla storia di un Paese. Per cui Putin ha ricostruito le basi dell’identità russa, che era profondamente prostrata dopo il crollo del comunismo, attingendo all’immenso patrimonio storico di quel Paese che, non va dimenticato, ha dato al mondo i natali a una delle più grandi letterature planetarie: Dostoevskij, Tolstòj, Cechov e Gogol’.
E sul versante economico?
Nell’epoca putiniana la Russia ha visto crescere il suo pil a un ritmo molto sostenuto. La cosa più importante credo sia che Putin, per la prima volta nella storia russa, ha ricreato la classe media che non c’era mai stata: all’epoca zarista c’erano aristocratici e nobili, sotto il comunismo gli apparaticchi, con il popolo sempre sotto. La classe media è anche quella che ha la consapevolezza della storia del Paese.
Da più parti si concorda sulla mancanza di leader nell’attuale panorama europeo: perché Putin lo è?
Perché la sua figura ci aiuta a valutare il processo di formazione delle classi dirigenti, che non si inventano. Putin ha alle spalle un cursus honorum molto intenso. E’stato per molti anni il vicesindaco di Leningrado, una città che aveva raggiunto i sette milioni di abitanti, ma era di fatto il vero sindaco. Dopo entrò al Cremlino, dove divenne Premier e Presidente. Per cui è figlio di un processo di selezione politica molto serrato, diverso da quei leader occidentali che si sono formati nei talk show televisivi.
Mentre in Europa si parla di Crimea, Ucraina e sanzioni, a oriente Putin tesse la sua tela con la Cina e sembra l’unico muro alle mire ottomane di Erdogan: il vecchio continente è finito in letargo o è Mosca a lavorare nel medio-lungo periodo?
Nella parata del 9 maggio scorso a Mosca, sulla piazza Rossa, nel settantesimo anniversario della vittoria sul nazismo, nella foto centrale del palco c’era Putin assieme al leader cinese Xi Jinping e al premier indiano Narendra Modi. In quello scatto c’è la metà della popolazione mondiale: un miliardo e mezzo di cinesi, un miliardo e duecentomila indiani e duecento milioni di russi. Ciò dimostra il peso che Putin intende avere in Asia.
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