Ha scritto Mark Twain che «non sarebbe un bene se tutti la pensassimo allo stesso modo: è la divergenza di opinioni che rende possibili le corse dei cavalli». Per cui il punto polemico su cui è utile soffermarsi è quello relativo ai modi dei contenuti. Non è qualunquismo dolersi del fatto che la politica abbia smarrito forme e idee. Ma prima di ogni altra cosa credo manifesti un deficit di favella. Parlare non significa automaticamente comunicare come purtroppo troppo spesso sta accadendo alla politica, è la ragione per cui si potrebbero individuare tre parole da far mettere in movimento.
Res publica: con alla base l’idea aristotelica dell’uomo come animale politico, grande invenzione dell’occidente. La cosa pubblica va coniugata investendo sulla fluidità tra i nessi, e sottolineando il principio di Jefferson della politica come piacere di stare insieme.
La seconda parola è partecipazione: come scrive Rancière in “Dieci tesi per la politica”, essa non è l’esercizio del potere, ma modo di agire specifico messo in atto da un soggetto con una razionalità propria. Ed è proprio la relazione politica che consente di pensare il soggetto politico e non il contrario. Ricordando che la felicità è libertà e la libertà è coraggio.
Terza parola quella che abbraccia diritti e libertà politiche: con in primo piano un ragionamento serio e ponderato non solo su ciò che accade a poche miglia da casa nostra, ma anche su come la politica si fa aperta e capace di intercettare gli interessi nazionali, senza egoismi ma con una logica legittimamente aziendalistica. Il contrario di quello che la politica italiana (anche estera) ha fatto.
Ad esempio: tutelare gli interessi delle aziende italiane in Libia senza che ciò comporti poi il rapimenti di operai italiani è sognare la luna? Quando il grande sociologo Zygmunt Bauman osserva che la partita non si gioca più sul versante del comunismo o del consumismo, intende dire che il piano di lavoro è cambiato completamente come in una sorta di grande e nuova rivoluzione copernicana, dal momento che «gli Stati intendono controllare l’opinione pubblica e riprodurre le loro élite». La sua preoccupazione maggiore sta, quindi, nell’evoluzione distorta che la società ha registrato, passando da un’etica del lavoro a una del consumo.
Il consumo per la politica lo si trova anche alla voce parole: la politica ha usato troppe parole consumate, non le ha modernizzate, né tradotte in fatti e oggi si lecca le ferite per l’arrivo di altre parole fuorvianti e pericolose, come ad esempio “cambiamento” e “bene comune”. Serve, prima di vademecum, programmi, misure economiche o sociali, che la politica riprenda il controllo delle parole, per non accomodarsi su un vuoto e generico senso comune, ma proporre un nuovo vocabolario alla cosa pubblica: quindi ri-mettersi a studiare e farlo seriamente, senza scimmiottare modelli stranieri e poi scoprirsi un attimo dopo iper provinciali e applicarli “all’italiana maniera”.
Perché, come diceva Pietro Scoppola, «l’insegnamento è ascolto del nuovo, il nuovo delle nuove generazioni». Come a voler dire che senza un passo verso l’apprendimento e l’evoluzione costruttiva non c’è futuro: tanto a scuola quanto nella politica. «Noto in Italia – scriveva a inizio secolo Benedetto Croce a un giovanissimo Giovanni Laterza – una sorta di ebetudine, bisogna avere fiducia nell’avvenire e coraggio nel presente. Passerà». Speriamo presto.
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