Quell’approssimazione becera sui nostri “emigranti”

radicidi Claudio Antonelli

L’Italia è un paese che ha fornito al mondo tantissimi emigranti (emigrati, migranti, immigranti, immigrati, secondo la prospettiva). Eppure è raro trovare scritti profondi su certe faccette di questo fenomeno complesso. E negli scritti redatti oggi in Italia su di noi emigrati si tende ad ignorare il punto di vista degli espatriati: il nostro punto di vista. Eppure non mancano le testimonianze anche letterarie espresse dagli espatriati, attraverso una lingua spesso carente, sì, ma densa di sentimenti ed emozioni. Mi riferisco ai libretti, quasi sempre auto-editi, scritti dagli emigranti italiani.

E tali testimonianze di vita esistono anche in Québec, tanto che io ho consacrato un lungo scritto a questo particolare fenomeno che chiamo la scrittura dello sradicamento. Ma mi fermo qui per quanto riguarda gli scritti dell’emigrante perché il soggetto mi condurrebbe troppo lontano.

Molto, moltissimo è cambiato nel campo dell’emigrazione e della vita dell’emigrato, a causa soprattutto dei mezzi tecnici che hanno raccorciato le distanze, fisiche ed anche mentali dell’espatriato. Che si pensi all’avvento di Internet che permette all’emigrato di ritornare virtualmente in patria a suo piacimento, di leggere i giornali, di ascoltare la radio, di vedere la tv, e di parlare e di vedere sullo schermo del computer amici e familiari rimasti in patria.

Leggendo i commenti che talvolta i lettori esprimono nel blog Italians del Corriere della Sera online, sono colpito ogni volta dalle generalizzazioni che si fanno nei riguardi degli italiani all’estero. Le approssimazioni nei ragionamenti degli italiani, e le vere e proprie storture mentali di cui fanno prova, e non solo nei riguardi dell’emigrazione ma su altri grandi temi su cui oggi si dibatte, sono in gran parte dovute al loro voler fare di tutt’erba un fascio. Generalizzare, allargare il discorso, far rientrare tutto nello stesso calderone, si direbbe sia una necessità dello spirito per loro.

Mi limiterò all’esempio seguente circa questa maniera alla carlona di analizzare un problema. Mai dico mai che qualcuno facesse una distinzione tra l’emigrazione che ha condotto un italiano oltreoceano, e l’emigrazione che ha condotto un altro italiano a vivere a due o tre ore di treno dall’Italia. So bene che il film “Pane e cioccolata” ci mostra che certi problemi di adattamento esistono anche se si è appena superato il confine.

pane-cioccolataMa l’oceano resta uno spartiacque, una frattura, un divario, un nulla separatore che le rotaie del treno, sempre inchiodate al suolo, non conosceranno mai. È facile capire che per un emigrato italiano, vivere in Patagonia non è certamente lo stesso che vivere a Lugano. Sì, entrambi sono dei trapiantati, ma in suoli molto diversi. E ciò ha un impatto sull’universo mentale del trapiantato, il quale – non si dimentichi – è fortemente influenzato dalla cultura della società d’accoglimento. Di conseguenza egli, a causa dell’acculturazione, conosce un mutamento interiore che varia a seconda del paese da cui è stato “adottato”, ossia in cui risiede stabilmente. Sono convinto che persino due fratelli, uno immigrato in Québec e l’altro in Ontario, conoscono un’evoluzione culturale distinta, a causa delle differenze culturali, appunto, esistenti tra il Québec e il Canada, che pur fanno parte dello stesso paese: il Canada.

Darò un altro esempio di questa incapacità degli italiani di addentrarsi e capire i meandri dell’animo dell’emigrante, anzi dell’emigrato. Il fatto che i termini stessi – migranti, immigranti, emigrati, emigranti, immigrati, italiani all’estero – siano quasi sempre usati in maniera interscambiabile rivela una disinvoltura che non è altro che approssimazione d’idee. I termini enunciati, infatti, hanno un senso non perfettamente identico. In Canada, io sono considerato un immigrato. In Italia sono un emigrato, o anche un emigrante. Ma il termine deamicisiano emigrante esprime una provvisorietà che mal si attaglia a chi ormai è un residente permanente della nuova terra.

Le oscillazioni dell’anima. Pochi conoscono il fenomeno dell’oscillazione che tanti emigrati hanno vissuto e forse ancora vivono, e che si riassume nell’interrogativo ch’essi si pongono: rientro o non rientro? In patria naturalmente. Non si tratta, certo, di un’alternativa che investa quotidianamente l’emigrato impedendogli di vivere la sua nuova vita. No, è un’idea che affiora solo in certi momenti. Ed è anche da dire che non tutti gli emigrati conoscono questi momenti di incertezza. L’oscillazione è comunque una realtà dello spirito per certuni. Realtà dello spirito che non è del resto estranea neppure a certi italiani rimasti al paesello i quali, qualche volta, s’interrogano con una punta di rimpianto su certe occasioni di espatriare, o comunque di cambiare vita, che ebbero un lontano giorno, ma che rinviarono all’indomani. Ma l’indomani mai venne.

Una lettera spedita dall’Australia al blog Italians di Severgnini da un emigrato italiano di 53 anni, da 10 anni in quel paese (Ivano Laureti), ha causato diverse risposte circa la saggezza e l’opportunità di rispondere al richiamo della patria – l’Italia – rientrandovi definitivamente, oppure di ignorare questo richiamo proveniente da un Paese dove tutto è più difficile che all’estero. O almeno così si dice in Italia, dove estero è una parola direi magica, dai contorni evanescenti.

radiciQuesto emigrato italiano si trova bene in Australia, dove ha un ottimo lavoro. Qui gli è nato un figlio. Eppure ogni anno egli rientra con la famiglia in Italia, per una bella vacanza che lo appaga pienamente e gli fa nascere il desiderio del rientro definitivo in Patria, dove ha numerosi famigliari ed amici. Però nell’animo avverte una forte incertezza. Dopotutto è ben cosciente che l’Italia è confrontata a seri problemi, e che una vacanza non è la perfetta cartina di tornasole che chiarisca questi legittimi dubbi.

Ebbene tra i tanti commenti, tutti proponenti una soluzione drastica: Rimani!, Rientra! con spiegazioni circa i vantaggi di natura pratica della soluzione che ognuno prospetta, nessuno che avesse accennato a questa vera e propria malattia dei sentimenti che spesso colpisce l’emigrato marchiandolo col dubbio e l’incertezza. Io ho cercato di spiegare la cosa attraverso una email che ho spedito a Severgnini e che questi ha pubblicato. Ve la propongo qui di seguito.

Restare, tornare, quest’oscillazione dolorosa

Gentile Laureti (“Dilemma in famiglia: torniamo o no (dall’Australia)?”, http://bit.ly/2dHd3p1 ), mi permetto di dirle che tornare in Italia sarebbe un grave errore perché, dopo un paio di mesi o tutt’al più un paio di anni, lei e sua moglie decidereste di tornare in Australia, paese che vi apparirà migliore di quanto non vi sembri oggi.

E così, da lontano, anche l’Italia vi appare oggi migliore di come si rivelerà quando la vivrete quotidianamente. Il vostro rimpianto è dovuto a una profonda sensibilità, all’amore per i luoghi, al senso di fedeltà. E al sentimento di un destino nazionale mancato: la patria non è un’invenzione di rétori. Ma anche rimanendo in Australia non riuscirete a mettere il vostro animo in pace, perché il luogo natale è come un essere caro che è morto, sì, ma il cui cadavere noi non siamo mai capaci di seppellire per sempre. Solo il viaggio del rientro provvisorio, per una certa strana magia, riesce ad appagarci in pieno. Ma se prolungato in maniera indefinita esso ci rivelerà, invece, amare sorprese. È uno scotto che certi emigrati pagano a causa di un’incrinatura che mai si sanerà, né rimanendo né partendo.

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La loro anima è come un vaso preziosissimo rotto, che nessun cemento magico riporterà allo stato primigenio. Voglio dire che in voi vi sarà sempre – temo – quest’oscillazione dolorosa. So che vi è stata gente che, stanca della nuova patria, rientrando in Italia è riuscita a mettere il cuore in pace. Ma sono casi rari. E direi impossibili oggi in quest’Italia in grave declino, e il cui volto e la cui anima sono già irrimediabilmente cambiati. È un gioco di specchi che non metterà mai fine al vostro disagio. Oso poi fare una previsione che voi forse giudicherete azzardata: vostro figlio, divenuto maggiorenne, deciderà di andare a vivere in Australia. Gli esempi di situazioni simili sono numerosi. Vi dico tutto questo, non mosso dal desiderio di aver ragione e di fare il maestro, ma per un profondo sentimento d’identificazione, di solidarietà (anch’io sono un emigrato) e di simpatia.

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