di Maria Sibilla
Incentivi buttati al vento, assunzioni diminuite e licenziamenti aumentati. I dati dei primi 6 mesi del 2016 ci consegnano lo scenario di un paese distrutto dalle politiche sbagliate del governo Renzi e dalla propaganda di regime. E’ in questo scenario che si presentano i referendum sul lavoro promossi dalla Cgil. Torna al centro del dibattito il tema più caldo per l’Italia: il lavoro. Che c’è di nuovo? Niente e tutto. Dopo il roboante 60% di No al Referendum Renzi- Boschi e alle prediche buoniste dei discorsi presidenziali di fine anno, nel nostro piccolo Paese dalla disoccupazione giovanile e femminile più alta d’Europa, serve un piccolo passo indietro.
Come in una seduta ipnotica, torniamo insieme con i ricordi all’inizio della Riforma del mercato del lavoro. Era il 2014 e il Renzi rottamatore e salvatore della Patria dall’immobilismo italico dava vita alle “buone” riforme partendo da quella del lavoro. “Jobs Act” la chiamava, con un termine straniero, scelto forse, volutamente, per renderlo poco comprensibile ai più.
Con il sostegno di quasi 14 miliardi in tre anni, il Jobs Act si presentava a reti unificate: agevolate le trasformazioni di contratti a termine a contratti stabili e le nuove assunzioni a tempo indeterminato in tutta Italia. La formula? Il contratto a tempo indeterminato “a tutele crescenti” – così veniva chiamato – perché nelle fasi iniziali le tutele per il lavoratore venivano ridotte all’osso. L’art. 18 dello statuto dei lavoratori, veniva infatti rivoluzionato: facilitati i licenziamenti “per giusta causa” e in caso di riconoscimento giudiziario di licenziamento illegittimo, ridotte a pochissime ipotesi le possibilità di reintegro sul posto di lavoro, sostituito per la gran parte dei casi da un indennizzo più o meno proporzionato al tempo trascorso sotto contratto. Un piccolo baratto, insomma tra la promessa di un contratto stabile e il rischio di un licenziamento più facile.
Un giochino dai risvolti dubbi, svelato sin dagli inizi, paradossalmente proprio dagli economisti de la Voce.info, allora feudo di quel Tito Boeri ora presidente dell’Inps. Ebbene proprio loro avevano dimostrato come l’utilizzo “furbo” del meccanismo del Jobs Act (incentivo + assunzione con contratto a tutele crescenti e licenziamento con la nuova disciplina “leggera” dell’art. 18, quindi senza reintegro ma con indennizzo), avrebbe comunque portato l’impresa ad un guadagno netto. Allora il calcolo non fece scalpore, perché la propaganda di Renzi si concentrò sull’effetto positivo di questa riforma “epocale”, non a caso benedetta da Merkel e dall’Europa. Come era naturale che fosse, infatti, il primo anno di incentivi è stato tutto prosciugato dalle imprese che, alla canna del gas da almeno 5 anni, hanno comunque accettato la scommessa. Ed infatti il Jobs Act nel 2015 è servito per regolarizzare il 75% dei lavoratori a termine già esistenti e per creare circa 500.000 posti di lavoro (risparmiando in entrambi i casi la quota contributiva). Tralasciamo quanto questa operazione sia costata allo Stato italiano.
Perché se effettivamente questi posti di lavoro fossero stati solidi, allora, si sarebbero anche potute accantonare, per un certo periodo, le perplessità su una misura che andava a creare artificialmente posti di lavoro in un mercato drogato da incentivi, piuttosto che in un contesto reale di crescita e sviluppo. Se fossero stati posti di lavoro veri e seri, si sarebbe potuta accettare un’operazione come questa giustificandola quasi come un contributo solidaristico una tantum della comunità dei cittadini ad un Paese in grave difficoltà. Ma in realtà così non è stato. Dopo un anno di propaganda, il dubbio si è sciolto incontrovertibilmente con i dati sul secondo anno di applicazione del Jobs Act e soprattutto con i dati sui licenziamenti.
I primi 6 mesi del 2016, in cui l’incentivo al contratto a tutele crescenti è stato dimezzato rispetto al 2015, hanno registrato il crollo delle assunzioni (- 8,5% rispetto all’anno precedente). Ma la vera notizia non è questa. Il calo delle assunzioni, infatti, era assolutamente prevedibile, perché al diminuire dell’incentivo la convenienza per le imprese si riduce conseguentemente – visto che ci troviamo in un contesto in cui l’incentivo cade isolato, in un paese produttivamente al palo e senza una qualunque strategia di sviluppo e di crescita nel lungo periodo.
Il dato interessante quindi non è il calo delle assunzioni al calare degli incentivi, ma l’aumento netto e incontrovertibile dei licenziamenti. Sia in assoluto (+35% rispetto all’anno precedente da 290.556 a 304.437), sia, in particolare, di quel tipo di licenziamenti derivanti dall’indebolimento dell’art.18, per cui il Jobs Act non prevede reintegro ma solo indennizzo (cd. disciplinari o per giusta causa e giustificato motivo). Bene quel tipo di licenziamenti previsti dal Job Acts sono cresciuti del 28% (dai 36.048 dello stesso periodo a 46.255). Come si legge questo dato? Sembra alquanto improbabile che la forza lavoro abbia dato vita in massa ed in un così breve tempo a comportamenti talmente indisciplinati e insubordinati da indurre le organizzazioni a licenziamenti repentini. Quello che sembra più plausibile è invece l’esito di quel calcolo di convenienze prima citato che getta una luce diversa sulla capacità del Jobs Act di creare posti di lavoro.
Il Jobs Act ha fornito alle imprese disoneste due chance: 1) lo strumento per far passare come disciplinari dei licenziamenti che l’azienda non sarebbe riuscita a gestire come esuberi; 2) la possibilità di lucrare tra l’incentivo incamerato e l’eventuale indennizzo da corrispondere al licenziato. La cosa ancora più grave per quest’ultimo caso è che non è prevista alcuna forma di vigilanza per le imprese che hanno ottenuto l’incentivo per le assunzioni, né tantomeno alcuna forma di sanzione per un suo eventuale uso distorto. Siamo pertanto indotti a pensare male di chi fa distribuzione di denaro pubblico, utilizzandolo per propaganda, ma senza valutarne poi gli esiti. In sintesi: non tutte le assunzioni del Jobs Act erano “buone” assunzioni; non tutte le imprese erano “buone imprese”. Ulteriore conferma che il Jobs Act non è affatto una “buona” riforma.
Accanto al fallimento del Jobs Act va letto un dato altrettanto preoccupante, che è diventato l’emblema dei referendum: la crescita esponenziale del lavoro orario pagato tramite voucher, forma di precarizzazione estesa a tutti i settori di attività. Sono 96,6 milioni i buoni lavoro emessi nei primi sei mesi del 2016, un incremento, rispetto all’anno precedente del 35,9%. Alla faccia dell’art. 1 della legge che istituisce il contratto a tutele crescenti, cuore del jobs act che dice: “Il contratto a tempo indeterminato è la forma normale di rapporto di lavoro”.
La riforma epocale del Jobs Act da un lato fa crescere i contratti incentivati e dall’altro il lavoro sottopagato tramite ticket orari, sempre più via d’uscita conveniente e poco rischiosa per manodopera flessibile. E il governo Renzi cosa ha fatto in vece di fermare queste contraddizioni? Vantarsi di aver introdotto la tracciabilità dei pagamenti tramite voucher. Così lo sfruttamento almeno diventa fiscalmente detraibile. La porcheria è tale che da più parti si stanno ora invocando correzioni, compreso la sua totale abolizione.
Stante questo quadro desolante delle politiche del lavoro, il premier Gentiloni che si fa vanto di guidare un governo “in continuità con il precedente”, dovrà fare duramente i conti con il tema che è il cuore del paese, molto più della legge elettorale: il lavoro. Al netto delle polemiche, nell’interesse reale dello sviluppo di questo paese per troppo tempo imbonito ma dimenticato, tre sono allora le considerazioni da trarre da questa esperienza. Prendiamo atto che il Jobs Act è fallito.
Il fallimento del Jobs Act è un’ulteriore conferma del fallimento dell’ideologia neoliberista di cui è figlio, che affida al mercato la sistemazione ottimale delle risorse. Ma nel mercato mancano le condizioni di sistema (economiche e finanziarie) perché le imprese possano determinare da sole la crescita dell’occupazione e manca quella regia, la visone del sistema paese che serve a realizzare la vera crescita. Il fatto che sia proprio un governo Pd a sostenere con pervicacia questa ideologia è ancora più paradossale.
Non può essere messo in secondo piano il fatto che il fallimento del Jobs Act abbia radici e riflessi oltre i nostri confini. E’noto che questa riforma ed il suo impianto di indebolimento delle tutele del lavoratore sono state “suggerite” dall’apparato Ue nella lettera di Trichet all’Italia, in cui si indicavano i compiti a casa per la crescita del nostro Paese; è altrettanto noto come tale indicazione fosse contenuta nel dossier Italia di JP Morgan, accanto a richieste di riduzione degli spazi di opposizione democratica alle decisioni governative.
Mentre la riforma della legge elettorale mette in scena gli ennesimi balletti di Palazzo, il 60% dei No al referendum, assieme al 30% dei disoccupati in Italia, in prevalenza giovani e al Sud, chiede di certo qualcosa di più. E’giunto il momento che una questione centrale per il Paese come lo sviluppo economico, la crescita e l’occupazione venga davvero esclusa dai giochini di palazzo. Serve non una ennesima propaganda, una ennesima prebenda a lobby di potere economico finanziario mascherata da fiducia nel mercato. Serve un nuovo ruolo dello Stato nella definizione delle priorità, delle strategie e degli investimenti che, parta all’interno del Paese e si faccia anche promotore in Europa dell’abbattimento delle politiche di austerità. Serve dar vita ad un grande New Deal per la ricostruzione economica e sociale dell’Italia, anche se dentro il vincolo del pareggio di bilancio imposto dall’Ue non ci sarà alcuna possibilità di programmare, spendere e investire nel futuro. Ecco che allora l’europeismo o l’antieuropeismo può prendere forma rispetto allo sviluppo vero di un Paese.