Cimiteri senza croci: i massacri del Nord-Est da ricordare

di Claudio Antonelli

Le tragiche pagine di storia delle terre del nostro confine orientale non sono più tabù, come furono invece per mezzo secolo, fino al “rompete le righe!” che il crollo del Muro lanciò finalmente alle coorti degli asserviti al conformismo ideologico marxista. Eppure sembrerebbe che queste tristi pagine di storia stentino ancora a entrare negli ambienti accademici nazionali di studi.

E ciò per tante ragioni, tra cui soprattutto la mancanza di sentimento nazionale e di senso di un destino comune, in un Paese in cui, in nome di un grottesco, esasperato e vile sentimento di partigianeria e di faziosità ideologica, si continua a voler rimuovere dalla memoria collettiva i segni di una sconfitta nazionale avvenuta nel sangue; con le foibe, l’esodo, e la perdita di un lembo d’Italia popolato, stando a quanto affermò Indro Montanelli, dei suoi migliori italiani (Forse… ma certamente non dei suoi peggiori). Segni di una tragica sconfitta che smentiscono la vulgata portata avanti in gran pompa dai vertici dello Stato, con i discorsi autocompiaciuti dei vari presidenti della Repubblica, i quali ogni anno, celebrando la Liberazione, immancabilmente sorvolano sulla perdita e sui massacri delle terre italiane del Nord-Est.

Gorizia, ancora cimitero senza croci” (Trieste, 2015, 141 p.) di Adriana Defilippi e Giorgio Rustia cerca di aprire uno squarcio su quei tremendi giorni, quando sul piccolo mondo goriziano si riversò con l’occupazione della città, a guerra quasi finita, la ferocia dei partigiani titini e dei loro sostenitori italiani. Il lungo sottotitolo: “Un secondo contributo alla ricerca dei goriziani scomparsi durante l’occupazione comunista titina italo slovena della città (dal 1 maggio al 12 giugno 1945)” circoscrive il periodo e la ristretta area geografica della ricerca storica.

Gli autori raccontano, succintamente, attenendosi ai fatti, attraverso fonti di varia origine e proponendo anche articoli di giornale (vedi gli allegati del capitolo 4), le vicende di morte di quel breve, tragico periodo – dal 1 maggio al 12 giugno ’45 – in cui sparirono, finendo nei carnai comuni, le vittime della barbarie comunista.

Dare loro una croce ossia identificarli e conoscere i loro ultimi giorni sarebbe un gesto minimo di umana pietà. Pietà contro la quale in Italia, patria degli odi civili, milita invece partigiano il veleno del condizionamento ideologico che interpreta il passato in funzione degli interessi di parte. Questo “odio antitaliano”, perché di questo si tratta, dal momento che i massacri nelle terre del Nord-Est presero di mira soprattutto l’italianità, è ancora oggi distillato con cura e direi con amore nella stessa Italia: che si pensi a chi è invitato a tenere conferenze per esporre la sua tesi che le foibe non sono altro che un mito.

Un tema espresso dagli autori ripetutamente, con amarezza e con sdegno, è l’invito, fatto ai custodi dei registri ufficiali di storia ma rivolto soprattutto alla storiografia accademica di simpatie comuniste, di non continuare a tenere distolto lo sguardo da quel piccolo lembo martoriato di terra: Gorizia, dove i morti, sprofondati negli innumerevoli carnai di cui è disseminata l’ampia area italo-slovena, ancora oggi invocano una croce.

La mancanza d’interesse per questi morti si spiega probabilmente anche con il fatto che, nonostante il fallimento storico del comunismo, una certa ideologia che si basa su migliaia di tonnellate di scritti, attraverso il mondo, pullulanti di espressioni e termini come “lotta di classe”, “nemici del popolo”, “spirito borghese”, “sfruttamento dei lavoratori”, “democrazie popolari”, etc., continua surrettiziamente a tenere cattedra con i suoi filtri ideologici e con i suoi crudeli preconcetti rivolti tanto ai vivi che ai morti. “Fascisti”, ossia subumani meritevoli di morte, di una morte inflitta dopo terrore e torture, è la classica etichetta giustificatrice della logica di questa “raccolta differenziata”, invalsa per tanti anni negli ambienti che contano in Italia nei confronti di cadaveri, liste, documenti, testimonianze; con i morti italiani delle terre del confine orientale automaticamente considerati appunto “fascisti”, e sversati nella discarica comune dell’oblio.

Si capisce subito dal titolo, denunciante le croci mancanti al cimitero, che le vicende trattate fanno parte di una storia nazionale che noi, originari di quelle terre, porteremo dentro fino alla morte. La dedica è eloquente: “In memoria di Leo Marzini e del di lui padre Attilio, barbaramente assassinato il 19 settembre 1943 dai partigiani comunisti titini italo croati, assieme ad altri 43 italiani nelle cave di bauxite di Gallignana (Pisino)”. La coautrice Defilippi, che è vedova Marzini, parla di cose che la toccano molto da vicino. Il dott. Rustia si batte anch’egli da anni contro l’oblio e l’indifferenza verso i nostri morti.

Con questa loro ricerca gli autori intendono “sostenere l’appello lanciato dal Sindaco di Gorizia, dr. Romoli, affinché finalmente i responsabili di tale massacro ed i loro odierni eredi etnici e ideologici dicano dove hanno fatto concludere la giornata terrena di tanti poveri sventurati”.

Apprendiamo, nel Sommario, che fu lo studioso sloveno Tone Ferenc, circa 25 anni fa, a fornire notizie di un gruppo di scomparsi, 112, di cui 22 erano goriziani. Seguì l’intervento di un giornalista in pensione del Piccolo, Marcello Lorenzini, che segnalò l’esistenza, a Roma, negli archivi del Ministero degli Affari Esteri, di documenti importanti, utili per conoscere la sorte dei nostri connazionali prelevati e fatti sparire dai titini sloveni e dai loro complici italiani: i comunisti della Venezia Giulia. Documenti su cui Lorenzini sollecitava le autorità a togliere la segretazione. Raoul Pupo, giovane storico, reagì con uno scritto sul Piccolo in cui derideva l’invito alla divulgazione fatto dal Lorenzini, parlando di “pseudo-misteri d’archivio, con relative pseudo-scoperte”, negando insomma che simili documenti esistessero.

Gli autori di questa sofferta ricerca, misto di saggio e di bibliografia di nomi e di fonti documentali, dimostrano invece che esistono queste fonti d’archivio ed anche altre. Cui si aggiungono elenchi di vittime e studi di provenienza slovena: il che è stato reso possibile dal crollo della gigantesca menzogna comunista e dalla fine della dittatura “nazional-socialista” alla Tito, che condizionavano pesantemente studi e testimonianze. Un esempio di questo nuovo clima è il libro “Slovenia 1941 1948 1952 – Anche noi siamo morti per la patria” (anno di pubblicazione: 2000) he rivela e denuncia i numerosi massacri subiti dai Domobranci, e anche dagli Ustascia e dai Cetnici, entro i confini dell’attuale Slovenia.

La ricerca condotta da Defilippi e Rustia è in reazione a questo voler “non andare oltre” italiano. Essa cerca di chiarire alcuni aspetti di questo tragico nostro passato, con un appello rivolto agli altri studiosi perché si interessino a queste vittime senza croce.

Gli autori ci propongono le nuove informazioni rinvenute negli archivi elettronici e negli archivi del Ministero degli Affari Esteri italiano “nella speranza che pure esse contribuiscano a dare ad ogni scomparso l’indicazione del suo luogo di sepoltura.”

Si tratta di uno studio sofferto, perché il tema trattato continua a far male a molti di noi, originari di quelle terre colpite da una tragedia che per anni l’Italia non ha voluto fare sua e che forse non farà mai interamente sua. Ciò a causa dell’odio ideologico imperante in un Paese dove un normale patriottismo è visto come un’aberrazione degna d’insulti e di discorsi d’odio, da parte soprattutto delle cerchie ex comuniste oggi entusiastiche sostenitrici di nuove utopie che si basano sul mondialismo e sull’immigrazionismo. Mondialismo e immigrazionismo senza limiti che loro vedono come agenti di negazione della nostra identità nazionale, in pratica agenti di antitalianità, e quindi glorioso vettore di antifascismo.

Per capire quest’odio è sufficiente vedere la tracotanza con cui certi individui salgono in cattedra reinventando, relativizzando, mistificando la storia: la storia che noi e i nostri padri abbiamo vissuto anche in prima persona e su cui quindi nessuno può venire a raccontarci fiabe. Ma tali individui sono applauditi dalla sempre attiva coorte di adepti degli odi civili, nonché cultori della perdita dei territori del confine orientale e celebratori della disfatta nazionale.

cristicchiI relativisti-negazionisti si nutrono di odio contro chi prova un normale sentimento di amor patrio, e possiede un sentimento di unità, dignità e solidarietà nazionali. Essi coltivano direi professionalmente il fantasma di un pericolo proveniente da nemici morti e sepolti per sempre, poiché si considerano i conquistatori fisici e morali dell’Italia. Basterà ricordare l’atteggiamento tenuto nei confronti del geniale, umanissimo artista Simone Cristicchi, fino a poco prima considerato un compagno di sinistra, ma subito etichettato come fascista per aver osato dar voce, in teatro, attraverso il suo ammirevole “Magazzino 18“, alle vittime innocenti del carnaio balcanico.

Con il disfacimento nel fuoco e nel sangue dell’ex Jugoslavia, paese costruito anche sui nostri morti, la carneficina balcanica è stato rieditata dai nostri vicini dell’Est, venendo però proposta questa volta alle platee mondiali sotto i riflettori dei mass media, e non nel silenzio e nell’indifferenza come avvenne invece per noi. La drammatica, sanguinosa esplosione dell’odio tribale scatenatosi tra gli ex urlatori del “Morte al fascismo e libertà ai popoli!” non è riuscita purtroppo ad aprire gli occhi a chi, in Italia, ha guardato per anni ed anni alla Jugoslavia come a un faro di progresso sociale, politico e morale (ricordate, il presidente più amato, Pertini?).

Non resisto alla tentazione di riportare questo giudizio di Claudia Cernigoi, la quale liquida così “Magazzino 18” di Simone Cristicchi:

“Come opera di propaganda Magazzino 18 è indiscutibilmente riuscito molto bene: ma per chi come noi ha studiato e conosce la storia di queste terre, vederla stravolta in questo modo allo scopo di denigrare il movimento internazionalista ed antifascista jugoslavo, è francamente intollerabile; ed inoltre, considerando il modo in cui è stato sponsorizzato, a livello mediatico, questo spettacolo, fa sorgere il dubbio che si tratti di un’operazione studiata a tavolino che può rivelarsi molto pericolosa per gli equilibri delicati del confine orientale.”

Questo ignobile commento, esaltante “il movimento internazionalista ed antifascista jugoslavo” (inclusi, immagino, Goli Otok e le esecuzioni di massa consumate dagli jugoslavi sugli altri jugoslavi) ci ripropone fine gli eterni sacrosanti rapporti di buon vicinato.

Chi non ricorda i continui inviti agli italiani perché assumessero la posizione supina per facilitare i “rapporti di buon vicinato” con i nostri gagliardi vicini dell’Est? Al carattere guerriero e predatorio di questi vicini dell’Est, si contrappone la mitezza dei nostri esuli che non hanno generato forse un solo atto di violenza in questo Belpaese dall’esodo ad oggi; quindi né la Kersevan né la Cernogoi hanno alcunché da temere dai figli e dai nipoti degli infoibati. Lo Stivalone, terra di mafie e di camorre, ha espresso invece la violenza delle Brigate Rosse, compagine sorella dei nostri infoibatori.

Ed è un Belpaese che oggi esprime l’insulto ai morti e ai sopravvissuti delle foibe e ai loro discendenti attraverso l’attivismo di questi conferenzieri che difendono Ivan Motika, denigrano Cristicchi, ci accusano di riscrittura della storia a scopo politico e ci considerano canea che da decenni contamina la storia politica delle nostre terre.

Ma come reagiamo noi, esuli e figli di esuli, quindi per acclamazione fascisti, a queste offese fatte alla verità storica e a questi insulti? Con parole, con messe a punto, con chiarimenti, con testimonianze, e anche con rabbia, con disgusto, con dolore e con scritti amari come questo mio. Il che ci rende meritevoli, ipso facto, della qualifica di estremisti. Posso solo dire che per intransigenza etnica e spirito guerriero i cosiddetti estremisti italiani, ossia i nazionalisti italiani, non arrivano neppure alla spalla di sloveni, croati o serbi anche non estremisti.

Nidia Cernecca, nel suo libro autobiografico ricorda: “Gli slavi torturarono a morte mio padre. Non contenti, lo decapitarono per estrargli due denti d’oro. E poi, per sfregio, con la sua testa ci giocarono a palla, sui binari del treno. La sua ‘colpa’? Era italiano”.

Tutto inventato probabilmente o allora tutto meritato. Così come i nostri infoibatori hanno meritato le pensioni dell’Inps, anche con gli arretrati e le tredicesime, spedite in Jugoslavia… Cito: “L’ Inps erogava al 30 giugno 1997 (…) ben 29.149 pensioni nell’ ex Jugoslavia , spendendo circa 200 miliardi l’anno.” Cosa volete, questi pensionati avevano pur effettuato una doverosa attività militare…

Immaginate cosa si racconterebbe di noi in Italia se non ci fossero le testimonianze di personaggi anche celebri come Benvenuti, Endrigo, Andretti, Luxardo, Pamich, Missoni... E un gran numero di scritti di testimoni diretti di quei giorni infami, tra cui “Bora”, e tantissime altre testimonianze.

I nostri “estremisti” sono quelli che osano invocare una croce per gli scomparsi mai più ritrovati. E difatti Giorgio Rustia è considerato un estremista dai tanti italiani che vivono di odio antitaliano.

Cosa volete, nel Belpaese gli sputi sui nostri morti, perché di sputi si tratta, sono considerati accettabili. In Slovenia e in Croazia ai crociati contro la nazione spetterebbe una sorte molto ma molto dura, e non le semplici polemiche e ricostruzioni storiche: le nostre patetiche armi.

Mi rendo conto a questo punto che avrei dovuto enumerare le fosse comuni, i sepolcri tenuti nascosti, le foibe, i carnai, di cui si cita il nome nel testo “Gorizia, ancora cimitero senza croci”, e soprattutto fornire maggiori dettagli sugli scomparsi che attendono una croce. Ma il pathos autentico che investe un lettore come me, nativo di Pisino, emigrato in Canada, figlio di esuli, ha preso il sopravvento in questo mio scritto. Anche perché contemporaneamente alla lettura dello studio di Rustia e Defilippi mi sono addentrato nella lettura di “Preti perseguitati in Istria, 1945-1956”, di ben 331 pagine, di cui è autore Pietro Zovatto, e che denuncia la dura persecuzione subita dalla Chiesa in Jugoslavia.

Ben vengano dopo mezzo secolo di silenzio questi scritti che vogliono semplicemente ricordare. Ricordare, in buona fede, senza avanzare crediti all’incasso, senza considerarsi le uniche vittime di una disastrosa guerra che ha inghiottito popolazioni intere e che ha causato lutti anche più gravi. E che ha finito col porre metà Europa sotto il tallone del comunismo per più di mezzo secolo. Ricordare, semplicemente: senza disprezzo e neppure odio per chi sul fronte è in altrettanta buona fede.

Ma trovo legittimo provare un sentimento di disprezzo per chi, in Italia, invece di un normale amor patrio con un altruistico desiderio di pacificazione, di solidarietà, di fratellanza e di unità, nutre nell’animo ed esala all’intorno partigianeria, faziosità e odio civile.

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