Di Claudio Antonelli
Il libro di don Pietro Zovatto – ricercatore, docente, studioso di grande levatura – consta di tre parti. La prima è dedicata alla “Situazione ecclesiastica in Istria”, la seconda alla “Situazione a Pola e a Fiume“, mentre la terza, più ampia, contiene le “Appendici documentarie” consistenti in testimonianze, rapporti, relazioni sulla persecuzione del clero messa in opera dal regime titino. I due indici distinti, l’uno riguardante i nomi del testo e l’altro i nomi delle testimonianze, permettono di localizzare nel testo le persone citate nell’opera.
Un bilancio che dia conto, per l’intera Jugoslavia, degli eccidi e delle morti in prigione dei tanti uomini di chiesa vittime di quegli anni tremendi è molto pesante. Monsignor Zovatto ci fa conoscere i lutti e le repressioni che la Chiesa dovette subire, in Istria, nel periodo che va dal 1945 al 1956. Ci ricorda anche che il tutto fu reso possibile per l’”atteggiamento passivo di Inglesi e Americani, da Trieste spettatori inerti di fronte a tanta violazione dei diritti umani fondamentali”.
I tedeschi subito dopo l’otto settembre del ‘43 strinsero la loro morsa sull’Istria. Il rastrellamento nazista causò vittime anche tra gli ecclesiastici. Quindi furono le bande di Tito a imperversare, opprimere ed anche uccidere chi rappresentava autenticamente il popolo: un popolo mite, tradizionalista, fedele ai riti religiosi legati alla terra e alla stagioni, e affezionato alle preghiere, ai canti, alle benedizioni.
Agli atti persecutori estremi contro gli uomini di Chiesa, alcuni dei quali pagarono con la vita la loro fede, occorre aggiungere la triste litania delle repressioni e intimidazioni d’ogni sorta: interrogatori condotti dall’Ozna, processi popolari, e inoltre provocazioni, vessazioni, minacce, azioni di disturbo talvolta durante le processioni o le messe. Furono confiscate le proprietà della chiesa, l’educazione dei giovani fu ad essa sottratta, nel camposanto al posto della croce si cominciò a mettere la stella rossa. Si tolse il crocefisso nelle scuole e si abolì l’insegnamento della religione. “Agli impiegati statali era proibita la professione pubblica della religione (andare a messa, far battezzare o cresimare i figli), pena l’espulsione immediata dal lavoro”.
Ben presto si eliminò “il giorno di Natale come giorno festivo” (fu rispristinato nel 1990). Anche la Pasqua fu abolita, ma fortunatamente avveniva di domenica… Tra le altre sanzioni imposte: “impedite le pie associazioni e l’Azione cattolica; tolta la congrua; tassate le entrate della chiesa“. “E in carcere per dispregio i frati francescani detenuti in Istria dovevano scrivere Dio con la d minuscola”.
Il popolo cristiano dimostra però di voler restare vicino ai suoi parroci, e prende rischi nel continuare ad amare le persone di chiesa, da sempre a lui così vicine.
Il regime titoista, ci ricorda monsignor Zovatto, si proponeva “lo smantellamento della civiltà cristiana ruraleggiante della penisola istriana”. La Chiesa fu considerata un pericoloso ostacolo dal regime titoista, il quale mirava a far tabula rasa delle istituzioni precedenti. Le due fedi, titoismo e cristianesimo, erano in netta opposizione circa la palingenesi promessa, ossia l’avvento del paradiso, che in Jugoslavia i poteri popolari garantivano che sarebbe avvenuto di lì a non molto e su terra – in Jugoslavia – e non in cielo.
L’autore ci dice all’inizio del suo libro di voler con questo studio “iniziare un filone di studi diretto a colmare una lacuna storiografica su uno degli aspetti del titoismo: la persecuzione del clero per mano del socialcomunismo jugoslavo”.
Solo dopo un silenzio durato mezzo secolo – fatta eccezione per il noto libro di padre Rocchi – sono cominciati gli scritti su certe infamie di quel titoismo che per anni aveva invece lubricamente titillato le nostre forze “progressiste”, desiderose di continui “rapporti di buon vicinato” con i nostri magnifici vicini dell’Est: gran campioni di equidistanza, di autogestione e beninteso di antifascismo.
Il silenzio è durato, si badi bene, ben oltre la morte di Tito (1980). Fu solo quando il muro compatto del conformismo ideologico filocomunista e in particolare filojugoslavo (ricordate il presidente più amato dagli italiani: Pertini, che tra le persone da lui più amate poneva Tito?) cominciò a presentare le sue vistose crepe anche agli occhi dei nostri esterofili filocomunisti che si cominciò a parlare di infoibamenti. Anche su Goli Otok, il gulag di Tito, dove finirono tanti compagni, si iniziò a lacerare il sudario. Appunto: solo dopo il rompete le righe impartito ai nostri intellettuali impegnati. Il nostro anzi il loro Giacomo Scotti – cittadino onorario del comune di Monfalcone – attese il 1991 prima di rivelare ciò che lui sapeva da anni sugli “Italiani nel gulag di Tito”: Goli Otok, dove finirono tragicamente diversi monfalconesi che come Scotti, originario invece della Campania, avevano preferito la Jugoslavia vincitrice all’Italia sconfitta.
Questa indifferenza italica è dopotutto spiegabile: i crimini titini non hanno mai potuto suscitare sufficiente sdegno e orrore in un paese dominato dagli odi civili come l’Italia, dove nelle strade e nelle piazze la bandiera italiana al posto di quella rossa è stata vista per anni come una provocazione di stampo fascista.
A partire dagli anni ottanta la storiografia triestina, con Pupo, Spazzali, Rumici e altri studiosi, comincia a rivolgere uno sguardo alle tristi pagine di storia del confine nord-orientale. Ma l’interesse specifico per la persecuzione subita dal clero in Jugoslavia, in quelle terre già italiane – ci dice don Pietro Zovatto – comincia ad affiorare “timidamente solo con la beatificazione di don Francesco Bonifacio e di Miroslav Bulesic” (nel 2008).
Padre Francesco Bonifacio, nativo di Pirano, fu barbaramente ucciso dai titini nel settembre del 1946, dopo una condanna a morte senza processo, mentre padre Miroslav Bulešić, di Sanvincenti, fu trucidato nel 1947. Un martirio simile lo conobbero altri preti, come Don Angelo Tarticchio di Gallesano ucciso nel 1943: “Il 19 settembre fu trascinato dalla prigione del castello di Pisino fino alle cave di bauxite di Lindaro e di villa Bassotti” e lì, dopo essere stato denudato e seviziato fu “infoibato con una cinquantina di veri o presunti fascisti.” Quando fu possibile riesumarlo, il suo cadavere fu trovato con “infissa in capo una corona di filo spinato”, e con i genitali, che gli erano stati tagliati, in bocca.
Il racconto di quegli eccidi suscita il semplice orrore. Uno dei primi martiri, ucciso però dai tedeschi e non dai titini, fu don Marco Zelco di Visignano (1893-1944). Tra le tante vittime di quella triste epoca ricordiamo Don Isidoro Zavadlav che fu prelevato dai miliziani di Tito e ucciso (15 settembre del 1946) e don Giuseppe Vedrina, parroco di Lobor (Zagabria), che fu aggredito con bastoni e pietre, e ucciso insieme con il sagrestano accorso in suo aiuto (25 settembre 1949).
Anche a Zara, così come a Fiume e nell’Istria, i sacerdoti pagarono un alto prezzo per la loro fede cristiana. Il parroco di Lagosta Don Romano Gerichievich fu arrestato dal potere partigiano jugoslavo (dicembre 1944), condannato a morte, con pena poi commutata a 10 anni di lavori forzati.
Un episodio non altrettanto cruento, che ebbe però forti ripercussioni segnando l’inizio di una reazione continua e tenace a Trieste contro il potere jugoslavo e le sue sopraffazioni e violenze contro la Chiesa e i suoi esponenti, fu l’aggressione subita da monsignor Santin a Capodistria (19 giugno 1947) per la festa di San Nazario, patrono di Capodistria. Questi, subito dopo l’aggressione, fu di forza rigettato in Italia. Da allora la battaglia di monsignor Santin contro il regime titoista divenne senza quartiere.
Nell’odio anticlericale jugoslavo confluivano diversi veleni: il fanatismo politico del socialcomunismo ateo; e l’antitalianità, poiché la Chiesa in Istria era espressione della realtà storica e umana sostanzialmente latino-veneta di quei luoghi o di gran parte di essi. Inoltre gli uomini di Chiesa erano collegati a Roma e a Trieste. Da qui le accuse a loro rivolte di spionaggio e di attività antipopolari.
Noi ancora oggi ricordiamo il grido di raccolta e di vendetta, in croato e in italiano: “Morte al fascismo, libertà ai popoli!” la cui minacciosa eco si spegnerà solo quando i popoli della Federazione, dopo una straordinaria abbuffata di retorica di fratellanza durata decenni, si sentiranno liberi di saltarsi finalmente alla gola. Ciò avverrà, beninteso, solo dopo il crollo del Muro con la disintegrazione delle menzogne che il socialismo reale aveva cementato nel muro e nella cortina di ferro, convinto di poter sfidare i secoli.
twitter@PrimadiTuttoIta