E’stata, l’austerità, lo spettro per le generazioni europee che sopravvissero alla seconda guerra mondiale. Avrebbe significato il procrastinarsi di condizioni di stenti, di indigenza, di mancanza di futuro e, soprattutto in quegli anni, di cose possedute. Periodo durante il quale se anche in pochi potevano permettersi di vantare il possesso di beni materiali, portava in sé un prorompente desiderio universalmente condiviso di pace nonostante che, da subito, l’aspirazione al consolidamento di quel potere che ti concede la vittoria (la spartizione dell’Europa), avesse già inquinato molte opportunità di ricostruzione culturale e sociale.
L’indigenza, la fame patita, le avversità superate, l’insicurezza che molti oramai vestivano come una seconda pelle, contribuirono a rendere ancora una volta potente il binomio pace-prosperità. Intendendo i due concetti come beni collettivi, palese è la constatazione che il primo è condizione indispensabile alla crescita del secondo ma, indagando più in profondità, ecco che la prosperità si appalesa come un corretto equilibrio tra ricchezze immateriali come la cultura, il progresso, la convivenza e la solidarietà sociali e il possesso di beni materiali, ovvero oggetti che possono rendere la vita più comoda, piacevole.
Il raggiungimento di questo status di prosperità venne perseguito in quel periodo, nella contingenza di un’emergenza e di un rinnovato ottimismo che caratterizzano ogni epoca definibile come “dopoguerra”, tanto da divenire obiettivo fondamentale di quelle ovvie fasi socio-economiche che si chiamano “ricostruzione” e “rinascita economica”.
Per contro sono questi i periodi durante i quali la superiorità anche morale dei vincitori molto spesso sostituisce, senza fatica alcuna, quelle forme di populismo sfortunate che avevano portato al disastro con altre forme di populismo che talvolta si rivelano non meno confuse ed improvvisate. Non a caso, il convulso e talvolta anche subdolo fiume di aiuti, con sé portò quell’effetto collaterale che il mondo chiamò “guerra fredda” e che ci accompagnò fino al 1991 con la famosa caduta dell’ultimo muro dell’epoca moderna o del primo di quella contemporanea. Come preferite.
In ogni caso si cambiarono modelli e riferimenti e si cercò di farlo in fretta per seppellire, nell’oblio di almeno un cinquantennio, tutto il male che addebitammo ai vinti, certi del buono che sarebbe arrivato.
Una proporzione matematica tuttavia ci indica come all’aumentare della velocità aumenti il margine di errore. Nel caso specifico tanto era il bisogno di innescare meccanismi virtuosi e produttivi che si crearono i presupposti affinché la benefica ed equilibrata connivenza nella prosperità di ricchezze immateriali e materiali (da sempre frutto di lunghe elaborazioni politiche e culturali) lentamente iniziò a sbilanciarsi verso questi ultimi, originando così quella condizione involutiva conosciuta come “società dei consumi” (anche se storicamente molti fanno coincidere la nascita di questo termine con l’avvento dell’epoca industriale pur essendo in realtà quella, un’epoca sostenuta da ben diverse necessità). Il mantra fu: “più hai e più felice sei”.
Nel frattempo l’Europa (e non solo) vedeva crescere le proprie ricchezze in modo vertiginoso cercando sempre più con fatica di mantenere quell’equilibrio che fosse garante di una solida base di valori; agli stessi andava il compito di contenere ed in qualche sorta di indirizzare il “mercato delle cose”. Era grazie anche a questa presenza di valori che i padri costituenti immaginarono la nuova Europa. Un’Europa coronamento di grandi ideali, frutto di un’elaborazione politica e culturale che avrebbe potuto e dovuto dare una impronta etica, civile e sociale ad un continente che si apprestava a far divenire ciascuno di noi ricco oltre che cittadino di quella che al tempo era solo la Comunità Economica Europea (Trattati di Roma, 1957).
L’aumento dei consumi proseguì senza arresti fino al 1973, allorquando in Italia (e non solo) nacquero – il 2 dicembre per l’esattezza – i prolegomeni della odierna austerità con la crisi petrolifera generata dalla chiusura di Suez per la guerra dello Yom Kippur (Egitto ed Israele). Con l’istituzione del traffico a targhe alterne, l’orario anticipato per la chiusura dei cinema, la riduzione della pubblica illuminazione e la riduzione delle velocità consentite sulle strade, si effettuarono le prime prove di una nuova austerità su una popolazione – quella italiana almeno – che iniziò vagamente a prendere atto del fatto che la propria vita era dipendente da interessi, intrecci e vicende ben lontane dai propri confini, nei confronti dei quali non avremmo potuto fare altro che subirne, impotenti, le conseguenze. Di fronte a questa nuova austerità che veniva da lontano, nessuno aveva strumenti per contrapporsi. Da allora la tranquillità almeno economica di tutti sarà sempre più legata a meccanismi progressivamente più complessi e da motivazioni sempre più lontane anche nello spazio.
Contestualmente e grazie alla politica che sempre più diventava politica economica e sempre meno politica intesa come governo di aristotelica memoria, relegando alle eccedenze o alle perdite di bilancio le sorti dell’aspetto sociale (per non parlare di quello etico), si produsse definitivamente (almeno per il secolo ultimo scorso) un radicale cambiamento. Una trasformazione, quasi definibile come antropologica, che sancì il passaggio dal rigore morale e dalla filosofia del risparmio, ritenuti da molti come retaggi dell’epoca fascista o come necessità di periodi post-bellici, alla frenesia del consumo.
E quel campanello d’allarme costituito dai provvedimenti restrittivi del 1973 – peraltro fugaci in quanto aboliti nel maggio successivo – anziché diventare elemento di riflessione contribuì invece a rinvigorire la spinta al consumo, venendo liquidato come fantasma passeggero di passati e sepolti tempi difficili dei quali, si diceva, era ben stata compresa la lezione. L’equilibrio originario tra ricchezze materiali ed immateriali era definitivamente scomparso nella “prosperità” delle società di fine secolo.
La fine degli anni ’70 è storia da tutti vissuta o conosciuta. Gli avversari del consumo vennero bollati come reazionari fuori tempo, così come coloro che iniziarono a gettare grida d’allarme anche sull’ambiente (“Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole …”, scriveva Pasolini nel 1975) e sulla salute pubblica. Fece nuovamente la sua apparizione la lotta di classe che in un qualche modo trovò di che costruire appiccicosi compromessi con l’edonismo reaganiano degli anni ’80.
Dal difficile perseguimento della felicità collettiva ci spostavamo verso il più accessibile ed accattivante conseguimento della felicità personale.
Nel frattempo sull’edificio della Comunità Economica Europea non si stava più lavorando per erigere l’Europa politica immaginata da De Gasperi, Adeanuer, Spaak, Spinelli, Schumann, Monnet e Beck ma si stavano predisponendo quelle norme, essenzialmente economiche, che avrebbero dato il via alla odierna Unione Europea i cui protagonisti non sono i leader politici ma i leader finanziari. Piaccia o meno, questo è il risultato. Verrebbe da dire, così come ci ricorda quasi ossessivamente il mantra del Presidente Renzi: “tutto ciò vuol dire una cosa molto semplice”. La cosa molto semplice in questo caso è che la finanza ha soppiantato la politica e gli stati non si governano per l’ottenimento della prosperità della popolazione che è solo uno strumento al quale far produrre debito personale affinché, veicolando il consumo, possa pagare debito pubblico. Alcuni paesi ci riescono meglio permettendo alle popolazioni stesse di vivere dignitosamente, altri peggio, altri ancora, proprio per niente. Scegliete senza vergogna il gruppo nel quale più vi riconoscete.
Conoscete poi a perfezione la crisi che sta attraversando il mondo occidentale oramai dal 2009. Se non l’avete subita probabilmente fate parte di coloro che l’hanno generata o di quell’indotto che ogni crisi o catastrofe porta ad arricchirsi, come la vendita di veleno per topi durante la peste.
E come ogni crisi che si rispetti si amplificano le differenze sociali e crescono sempre più le campagne denigratorie e diffamatorie promosse da chi più “non può” contro chi ancora “può”. E già a questo stadio, che è lo stadio iniziale della crisi, si perdono di vista due importanti riflessioni. La prima è che le crisi tanto più sono gravi quanto più sono il manifesto di valori inadeguati o mancanti; la seconda è che ad ogni giocatore vincente (vanno di moda oggi le teorie dei giochi) ne corrisponde uno che ha contribuito alla sua vittoria: il perdente, che non è mai estraneo da responsabilità. Tanto più quando, come in questo caso a noi contemporaneo, la crisi, di squisita matrice finanziaria, si è potuta produrre grazie sì ad una dissennata offerta ma anche ad una sfrenata domanda (di gatti che si mordono la coda – d’altronde – né è piena la storia e la letteratura). La differenza stavolta è che nessuno ha giocato con la propria ricchezza ma unicamente con la presunta sostenibilità del personale debito che andava contraendo, sbagliando, pare, nelle previsioni. Tutti colpevoli dunque o tutti innocenti: decidete voi.
La riflessione deve, adesso, fare un passo indietro e constatare che la maggior parte del debito che hanno accumulato i singoli non si è creato per spese atte ad un miglioramento della qualità della propria vita, quanto per il possesso di una maggiore quantità di beni, con la connivenza, spesso gioiosa, della finanza e dell’industria.
La finanza fornendo credito senza controllo e spesso con insufficiente informazione, l’industria adottando sempre più il concetto della “obsolescenza programmata” in base al quale la progettazione viene effettuata stabilendo a priori la durata del bene che deve essere tale da soffrire di un rapido esaurimento e, per conseguenza, di una altrettanto rapida sostituzione (leggi acquisto). Gli stati dal canto loro non si sono in fondo comportati con maggiore lungimiranza. Il debito che hanno sulle proprie spalle non deriva da massicci investimenti atti a migliorare la vita delle proprie popolazioni ma, oramai, solo dal pagamento sempre più oneroso di interessi e dalla costituzione di sempre nuovo debito, ovvero di certificati del tesoro (detti “bond”).
In altre parole di “pagherò o cambiali” la cui certezza del riscatto è figlia delle stime dell’analista di turno e dell’ignoto visto che siamo arrivati ad emetterne con scadenza cinquantennale (Francia, Spagna e in piccolissima quantità anche Italia). Che gran cosa se la “fiducia”, così come è generosa negli orti della finanza lo fosse anche tra le persone.
Grandi quantità di denaro (virtuale, senza controvalore) ed una carenza totale di idee dunque, visto che la politica oramai prende direttive (dalla finanza) anziché darne (cioè governare) e non potendo più fare conto sulla saggia filosofia di Eduardo, “adda passà a’ nuttata”, una delle strade da perseguire per trasformare questa odierna austerità in qualcosa che non solo sia più sostenibile ma anche propositore di modelli per modificare un sistema che evidentemente convince sempre meno, è forse il cammino verso la sobrietà. Il cammino non è semplice e “sobrietà” non è unicamente una pura e semplice “riduzione delle spese”. Quella già la sta imponendo l’austerità, ma ha tanto il sapore della costrizione e della iniquità visto che a doverla mettere in atto non è la collettività tutta ma gli strati cosiddetti “più deboli” ovvero le moltitudini di poveracci che stanno crescendo come se fossero dietro al pifferaio di Hamelin.
La sobrietà è uno stile di vita completamente diverso da quello cui ci eravamo abituati fino a poco tempo fa, tempi in cui erano nati motti tipo “la mia amica banca” o il “compri 2 e prendi 3” fino alle iperboli rappresentate dalle carte di debito per cui anche la più inutile delle inutilità poteva finalmente – sic!- essere nostra, per non parlare di veri e propri simboli di status il cui possesso potesse farci salire l’erta scala delle condizioni sociali almeno nelle apparenze (se poi tutto ciò costava rate fino a 7 anni dei quali i primi 3 di solo pagamento di interessi, ciò era secondario). L’adozione della sobrietà presuppone educazione, addestramento e soprattutto discernimento.
La sobrietà sta al consumismo come il diavolo all’acqua santa. Il consumismo non sceglie, la sobrietà sceglie. Il consumismo decide cosa e quanto dobbiamo acquistare, la sobrietà impone a chi produce cosa e quanto vogliamo acquistare. Tuttavia sia chiaro per tutti: abbracciare la sobrietà non può essere un atto di rinuncia ma deve essere, per produrre risultati positivi, il frutto di una scelta verso una migliore qualità di vita. Ed iniziare a considerare nel microcosmo della propria vita personale il consumismo oramai abitudinario che dirige i nostri passi come un atteggiamento che crea tensione, ansia, disagio, disarmonia non è un passo da prendersi alla leggera. Occorre essere coscienti della bontà delle alternative.
Si tratta di riconoscere che abbiamo abbracciato falsi dèi nel nome della quantità a scapito della qualità. E riconoscere infine che la qualità è il rifiorire delle idee, è una solidarietà fatta non esclusivamente di grandi titoli giornalistici o di giorni della memoria, è l’intenzione di riconciliarsi con un ambiente che abbiamo violentato, è il riconoscimento della propria dignità non più da considerare proporzionale alla grandezza del portafoglio, è il laboratorio dove etica, politica e società potrebbero ritrovare quel filo che è oramai spezzato da qualche decennio. E’ una palestra dove accanto alla straripante “cultura del diritto” si deve riavvicinare la “cultura del dovere”. Non è poi eccessivamente difficile e sotto questa luce troverebbero maggior dignità anche le già tante campagne intraprese contro gli sprechi e l’inettitudine – specie dei governanti – o le campagne che ormai mostrano come una finanza senza più regole stia raggiungendo quell’obiettivo per il quale: tutto ha un prezzo, tutto si può comprare, tutto si può camuffare.
A meno che la nostra non sia invidia delle più scadenti e, per conseguenza la ”cultura del diritto” una misera rivendicazione. Complotti? Assolutamente no, solo gli esiti di quella libertà che abbiamo concesso ai “gestori” in cambio di stagno e princisbecco che ci hanno venduto come oro. Eppure, verso la strada della sobrietà, sempre di più sono gli stimoli che ci vengono messi sotto gli occhi giornalmente. Atteggiamenti e comportamenti di personaggi leader che, pur non avendo ancora la capacità di trasformarsi in simbolo, stanno lanciando segnali che potremmo anche raccogliere con maggiore energia se solo volessimo. Senza preconcetti dovremmo poter essere in grado di individuare quando certi segnali sono buoni, da qualsiasi parte essi arrivino.
Che sia Papa Francesco o il Presidente Mattarella, che sia l’ex Presidente uruguaiano Mujica o il Premier Cameron o ancora non pochi tra i grandi CEO giapponesi o parte della recente nomenclatura greca, forse è il caso di riflettere su come certi gesti e comportamenti la maggior parte dei quali compiuti non per smania populista ma in nome della sobrietà (che oggi inquadrerei tra i civici doveri), se adottati sempre più da noi tutti, potrebbero indurre a cambiamenti senza che gli stessi piovano, come d’abitudine, dall’alto, cambiamenti dei quali potremmo essere protagonisti e non pubblico pagante.
Ognuno continui a fare il lavoro per il quale ha studiato e sudato, non servono popoli né di allenatori né di statisti, occorre solo gente responsabile e per esserlo non servono grandi possedimenti o la laurea alla Bocconi.