Terrorismo in Tunisia, ma ora tocca anche all’Italia

Cartaginedi Ilaria Guidantoni

Un attacco ai civili ovvero alla civiltà: è questo il salto doloroso della strage al Bardo del 18 marzo scorso, a due giorni, dalla festa dell’Indipendenza tunisina del 1956. Dalla caduta del regime di Ben ‘Alì, infatti, il 14 gennaio 2011, i due attentati politici e quelli militari dell’estate e dell’autunno scorso erano mirati, tragici sì, quanto circoscritti ad obiettivi individuati, come quelli al mausoleo sufi di Sid Bou Sa’id. Ora, invece, siamo di fronte ad una lotta senza quartiere che non possiamo più definire criminalità organizzata locale, fenomeni estremisti, derive religiose come risultato della rivolta. Siamo in presenza di un fenomeno terroristico che non possiamo definire una guerra, almeno non in senso convenzionale e questo ci impone una riflessione e una strategia nuova: la guerra ha un obiettivo, un nemico individuato e si combatte con gli eserciti. Il terrorismo, al contrario, ha una natura – almeno in questo caso – globalizzata e si affronta principalmente con l’intelligence, con strumenti di polizia e solo in extremis con il ricorso alla forza.

In questo senso è fondamentale il concorso dei paesi arabi, indispensabili non solo per il consenso quanto per la capacità di lettura delle loro matrici. Ad esempio l’Algeria, come bene hanno inteso gli Stati Uniti, essendo stata in grado di sconfiggere il terrorismo interno del Decennio nero, oggi è il punto di riferimento principale per la pacificazione dell’Africa Nord Occidentale. Un altro tema da prendere in considerazione è la “de-alimentazione” delle forniture militari: chi finanzia il terrorismo e come? Occorre una maggiore attenzione a fenomeni che apparentemente non sono legati. Faccio un’ipotesi e non voglio arrivare a facili conclusioni: l’avanzata del Qatar, stato ricco che sta acquistando marchi di lusso, squadre di calcio e industria alberghiera europea, può rappresentare una minaccia perché è un modo di insinuarsi nella vita europea e ci si deve chiedere dove vadano a finire i proventi di quelle attività. Ma i percorsi potrebbero essere molto più articolati e di difficile individuazione. Infine occorre fornire un’alternativa invece di una battaglia che cura solo i sintomi.

Tra l’altro anche la prevenzione rischia di creare allarmismo, dispendio enorme di energie dimostrandosi inefficace proprio perché si tratta di un fenomeno reticolare globale con tanti fronti aperti. Contro chi combatte il jihadismo, termine per altro improprio che ormai utilizziamo per comodità? Contro tutti coloro che non vogliono il califfato secondo alcuni precisi criteri tanto che prima di tutto si tratta di una guerra intestina tra sunniti e sciiti.

Come combattere allora? Il popolo tunisino ci sta dando una risposta chiara: insieme, uniti, a testa alta, con fermezza, promuovendo veglie e marce di pace, più che manifestazioni aggressive e cortei. Da questa tragicità dell’asprezza dell’avanzata terroristica si ricava anche la soluzione: essendo nemica di tutti tranne che di se stessa, è un’occasione internazionale di un’opportunità di pacificazione, anche se paradossale. Tutti uniti contro il solo nemico, il terrorismo di matrice islamico-estremista. Il popolo tunisino si è ricompattato una volta di più. Rispetto al fenomeno dei giovani convertiti alla causa del califfato che allarma particolarmente l’Ifriqya dei Romani, la ricetta è una prospettiva di dignità e lavoro. La scarsità di valori, la mancanza di sogni realizzabili nel futuro lascia i giovani in balia di pericolosi deragliamenti come è successo nel nostro sud, come in Algeria perché il Decennio nero arriva all’indomani di una crisi economica. Ecco che in tal senso il governo deve puntare lì dove ha fallito il precedente, quello di Ennahda che per altro aveva fatto del lavoro il proprio cavallo di battaglia.

In questo senso si inserisce anche il possibile contributo italiano ed europeo in generale. Ci siamo dimenticati di cosa aveva chiesto la Tunisia all’indomani della rivolta? Non elargizioni quanto partenariati, sostegno e condivisione di progetti comuni. Dei finanziamenti in tal senso da parte europea, rispetto agli accordi, è arrivato circa un quinto. Per la Francia e l’Italia, in particolare, in una congiuntura di crisi tra l’altro, è questo il momento di investire in Tunisia: creare un ponte di sviluppo invece di un corridoio di potenziali naufragi. Anche il Medio Oriente potrebbe trovare nella Tunisia, ad oggi l’unico paese che è uscito maturato e in parte cambiato dalle cosiddette “primavere arabe” un’opportunità e un modello di multiculturalità. La Tunisia in tal senso costituisce un laboratorio di convivenza tra i popoli che, oltre tutto, ci riporta alla vocazione originaria del Mediterraneo quale unica possibilità, non solo di pace, ma di sviluppo reale economico, al di là della semplice crescita, dunque di stabilità.

A mente fredda possiamo rileggere l’attacco al Bardo come un attacco multiplo a mio parere: un tentativo di destabilizzazione del nuovo governo, il primo regolare in carica dopo una dittatura e una rivolta, di matrice laica; un modo per colpire la fermezza del popolo tunisino e la sua capacità di smorzare i toni violenti; il valore del dialogo tra diverse umanità; la cultura come ricchezza delle differenze: il Bardo è il museo più importante della Tunisia, il più antico del mondo arabo con la più grande collezione al mondo di mosaici romani, quindi ponte tra le due rive del mare nostrum, oggi in una gestione congiunta con il Louvre – dove, forse in molti non ci hanno fatto caso, il presidente Hollande ha tenuto il discorso dopo i tragici fatti –; come anche un attacco al turismo e un messaggio per l’Italia, visto che le navi da crociera sbarcate e in sosta per la visita al museo erano nostre.
Colpire il turismo significa ferire al cuore l’economia tunisina e creare potenziali nuovi affiliati tra i jihadisti, per mancanza di lavoro e di prospettive. Ecco perché non possiamo abbassare la testa e fare il gioco dei combattenti. La lotta si sta inasprendo e non sappiamo quante vittime ancora farà ma quando cresce la violenza iniziano le dissociazioni: è un fenomeno che la storia insegna.
Gli ultimi tempi di una dittatura sono i peggiori ma ne minano le fondamenta. In Tunisia ci sono già i primi pentiti.

Ilaria Guidantoni, giornalista, scrittrice, è una profonda conoscitrice della Tunisia e del versante nordafricano dal punto di vista sociale, culturale e dell’impegno femminile. Ha pubblicato “Tunisi, taxi di sola andata” (No replay 2012), “Chiacchiere datteri e thé. Tunisi, viaggio in una società che cambia” (Albeggi 2013), “Chéhérazade non abita qui” nel libro collettivo “Chiamarlo amore non si può” (Mammeonline 2013), “Marsiglia-Algeri. Viaggio al chiaro di luna” (Albeggi 2014). E’da poco in libreria il suo ultimo lavoro: “Il potere delle donne arabe” (con Maria Grazia Turri) per Mimesis.

twitter@PrimadituttoIta

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