E siamo a 750. Tanti sono gli anni trascorsi dalla di nascita uno dei personaggi più importanti della storia culturale della Penisola. Tanto importante che, per molti di noi, ha rappresentato e continuerà a rappresentare il “sommo poeta”, scrittore e protagonista tuttavia di una vicenda non sempre però legata a ricordi affascinanti. Quanti ricordano la forzata conoscenza fatta alle scuole medie, divenuta poi uno dei tanti bagagli, spesso ostici e incompresi da portarsi dietro senza che un seguito di approfondimento abbia potuto trasformarla da peso in ricchezza?
Il problema si complica ulteriormente allorché ci si trova di fronte alle ricorrenze, come quella in corso – inattesa perché in tutta onestà chi mai si ricordava che Dante fosse nato nel 1265? – che ci porta a sentire quasi l’obbligo morale di doverne dissertare. Ma, oltre tutto, con il maggior onere di riconoscerne oggi quegli elementi di attualità dei quali abbiano un disperato bisogno e che corriamo il rischio di vedere anche dove non ve ne sono scambiando profonde differenze sia di metodo che di obiettivi con superficiali somiglianze. Ecco dunque che la ricorrenza può essere l’occasione per liberarci da un enorme doppio fardello: ci offre l’opportunità di provare a indagare con occhio più adulto l’opera di questo grande personaggio (per molti sconosciuto, se non per quei luoghi comuni che la tradizione tramanda) e, per conseguenza, può farci meglio assimilare l’incompresa fatica di quel complicato quanto, per molti, unico, studio adolescenziale, del quale permangono ancora rari e per fortuna sbiaditi incubi ricorrenti.
Gli ostacoli tuttavia da superare per tentare l’impresa non sono pochi.
In fondo sono passati 750 anni e non solo le condizioni di allora, storiche, filosofiche, umane, in generale, erano ben diverse ma l’Alighieri, ad esempio, specie in certe sue teorizzazioni politiche, si rifaceva, tra gli altri, ad Aristotele a lui precedente di ben quindici secoli. Ciò non facilita assolutamente le cose, specie oggi, dove in funzione di uno “svecchiamento” che tentano di operare una serie di personaggi che per l’appunto Dante stesso aveva, nella sua Commedia, sistemati in buon numero nei vari gironi della prima Cantica, l’Inferno appunto, si tende ad eliminare dai curricola scolastici presunte inutili ore passate sulla storia dell’arte o come in Francia recentemente, cercando di eliminare greco e latino dalle scuole medie inferiori. Cosa rispondere a Dante che, oltre tutto, per buona parte del suo difficile viaggio si è fatto accompagnare da un antico come Virgilio? Tra lui ed il maestro intercorrevano dodici secoli essendo Virgilio appartenente alla mitica classe 70 avanti Cristo, quattro secoli in più di quelli che distanziano noi dall’Alighieri.
Cosa dire di quel nutrito quanto pavido gruppo di eminenti intelletti che costituiscono l’intellighentia europea che si sono fotocopiati a vicenda dal 2009 ad oggi (e che oramai più nessuno ascolta) scrivendo, declamando e pontificando (salvo poi ritirarsi nella propria silenziosa torre d’avorio) che la civiltà occidentale aveva un debito indelebile con la antica cultura Greca e che pertanto la terra che l’ospitò non poteva essere lasciata affondare? Non vorremo mica correre il rischio di far altrettanto con Dante e con i suoi maestri e compagni d’avventura? Celebriamo dunque e sia reso onore e gloria a chi, peraltro, ignobilmente fu cacciato per vili incomprensioni!
Eppure proprio Dante ci aveva chiaramente specificato che “fatti non foste a viver come bruti”, bensì a perseguire un obiettivo che, per lui almeno, era la naturale conseguenza della storia e della crescita dell’uomo: “perseguir virtute e conoscenza”. Ce ne siamo dimenticati, salvo pochi e sparuti casi. Tuttavia, proprio in questa affermazione ritroviamo oggi non l’attualità di Dante quanto l’enorme distanza che ci separa da lui. Superare lo stadio di “bruti” per diventare “cercatori di virtù e di conoscenza” presuppone la presenza di un fondamentale elemento propulsore, la presenza di valori e di modelli cui aspirare. Fino al concepimento di modelli, come quello dell’Impero universale, che in Dante erano addirittura diventati “assoluti” e che oggi suonerebbero invece come dittatoriali, antidemocratici anche se l’odierno concetto di globalizzazione porta con sé il concetto di un governo unico, di leggi osservabili in tutto il globo, di regole adottabili da tutti: “E a queste ragioni si possono reducere parole del Filosofo [Aristotele] ch’elli nella Politica dice, che quando più cose ad uno fine sono ordinate, una di quelle conviene essere regolante o vero reggente, e tutte l’altre rette e regolate. Sì come vedemo in una nave, che diversi officî e diversi fini di quella a uno solo fine sono ordinati, cioè a prendere loro desiderato porto per salutevole via: dove, sì come ciascuno ufficiale ordina la propia operazione nel propio fine, così è uno che tutti questi fini considera, e ordina quelli nell’ultimo di tutti; e questo è lo nocchiero, alla cui voce tutti obedire deono…” (Convivio IV, iv, 5-7).
Ma talmente idealizzato era il concetto di “Impero” in Dante che oggi risulta pressoché impossibile pensare ad un qualche governo che gli assomigli. Eppure il percorso che aveva portato a questo concetto non è dissimile da certe tappe che hanno portato alla società globalizzata di oggi: “Lo fondamento radicale della imperiale maiestade, secondo lo vero, è la necessità della umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice; alla quale nullo per sé è sufficiente a venire sanza l’aiutorio d’alcuno, con ciò sia cosa che l’uomo abisogna di molte cose, alle quali uno solo satisfare non può. E però dice lo Filosofo [Aristotele] che l’uomo naturalmente è compagnevole animale. E sì come un uomo a sua sufficienza richiede compagnia domestica di famiglia, così una casa a sua sufficienza richiede una vicinanza: altrimenti molti difetti sosterrebbe che sarebbero impedimento di felicitade. E però che una vicinanza [a] sé non può in tutto satisfare, conviene a satisfacimento di quella essere la cittade. Ancora la cittade richiede alle sue arti e alle sue difensioni vicenda avere e fratellanza colle circavicine cittadi; e però fu fatto lo regno” (Convivio IV, iv, 1-2). E poi dai “regni” cioè dalle nazioni, per estensione del concetto nascono le unioni, le federazioni fino ad arrivare alla perfezione dell’unico “Impero”.
Ma questa visione che pure parte dal concetto ripreso da Aristotele che l’uomo è “compagnevole animale”, da Dante viene subito resa soggetta ad altri aspetti della natura umana: “Onde, con ciò sia cosa che l’animo umano in terminata possessione di terra non si queti, ma sempre desideri gloria d’acquistare, sì come per esperienza vedemo, discordie e guerre conviene surgere intra regno e regno, le quali sono tribulazioni delle cittadi, e per le cittadi delle vicinanze, e per le vicinanze delle case [e per le case] dell’uomo; e così s’impedisce la felicitade” (Convivio IV, iv, 3). La natura umana dunque, insaziabile di gloria e di possesso non potrà impedirsi di essere felice se a capo di tutto vi sarà un onnipotente ed unico Impero che, tutto possedendo, renderà inutile la lotta di conquista non essendovi niente da conquistare. Un’autorità sovranazionale che tutto regolando, permetta, in questo schema che oggi con faciloneria definiremmo tutto meno che democratico, il raggiungimento della felicità ed il superamento della parte “bruta” della natura umana.
Ma Dante sa benissimo che una forma di governo per quanto possibile vicina alla perfezione, da sola non sarà elemento sufficiente a garantire pace e felicità perché, così stante, essa sarà il prodotto dell’uomo e quindi anche della sua debolezza. Ecco che anche questo Impero dovrà essere ispirato e mantenuto su una retta via. E l’unico elemento che può assolvere a questo compito è la grazia divina, il senso del trascendente che porta in sé il bene assoluto. Questo cammino sarà la ragione della Divina Commedia che ci racconta tutto il tribolato percorso dalla “selva oscura” da cui l’individuo parte colmo della incertezza delle proprie debolezze e soprattutto della non conoscenza, per emergere, alla fine del poema “a riveder le stelle”, liberato dalla debolezza ed illuminato dal raggiungimento del bene e dunque della felicità che in Dante giunge solo con la visione del Signore.
Due cardini fondamentali fanno ruotare dunque tutta la poetica e la filosofia etica e politica dell’Alighieri: un potere spirituale ed uno temporale che convivendo secondo una ovvia gerarchia in quanto l’illuminazione del cammino terreno non può che giungere dallo spirito, diffondono a pioggia su tutto il globo terracqueo, ordine, regole da seguirsi, piacere di convivere, felicità.
Tuttavia, se dimentichiamo per un istante l’inalienabilità e la certezza dei valori che mossero Dante nella sua speculazione sull’universo umano, elemento questo che lo rende storicamente diverso dal mondo contemporaneo legandolo in modo indissolubile alle dinamiche medievali, potremmo ritrovare non pochi elementi che lo rendono invece attuale. Primo fra tutti il percorso che vede l’uomo aggregarsi in forme sociali che dalla famiglia giungono al configurarsi di un unico governo terrestre (l’Impero) inteso come entità sovranazionale, garante per tutti. Non è forse questo l’intento con cui a partire dal novecento sono nate prima la Società delle Nazioni e poi l’Onu? Sappiamo quanto il raggiungimento di questo scopo sia tuttavia utopico. Ma lo era anche il concetto di “Impero” per Dante anche se era e restava il sogno giusto per l’umanità. Ed è proprio lui a spiegarci i motivi di questa utopicità quando riferisce di una natura umana tesa più che altro alla cupidigia che, inevitabilmente diventa appannaggio dei più forti. Non è forse oggi il potere finanziario colui che detta le regole nel mondo? Dante non ha dubbi nel trovare le responsabilità e proprio nel Paradiso, ricordando come la cupidigia per il fiorino (Firenze … produce e spande il maladetto fiore …, Canto IX, v. 130) abbia trasformato la gente, il popolo, da pastori in guardia di pecore in lupi (…. c’ha disviate le pecore e li agni, però che fatto ha lupo del pastore…, Canto IX, vv. 131,132), ricorda anche che la responsabilità non è dei pochi ma di tutti e che nessuno è scusabile per non aver visto o sentito (… sì che le pecorelle, che non sanno, tornan del pasco pasciute di vento, e non le scusa non veder lo danno …, Canto XXIX, vv. 106-108). E dunque esorta ad essere in grado di discernere e prendersi la responsabilità che compete a chi è in grado di farlo (… Se mala cupidigia altro vi grida, uomini siate, e non pecore matte …, Canto V, vv. 79-80). Quanto vi è di diverso in questo dall’uomo di oggi che, specie di fronte alla crisi che il mondo occidentale sta attraversando, si trova incapace di sovvertire forme di governo che proprio dell’uomo si sono dimenticate a favore di una inesauribile “cupidigia”?
Ogni questioni che riguardi il vivere sociale, per quanto vasta possa essere è da ricondursi all’uomo ed alla sua capacità di conoscersi. “Conosci te stesso” (Γνῶθι σεαυτόν) esortava già l’oracolo di Delfi e Dante, prendendo alla lettera questo invito indaga la propria natura e con essa quella umana attraverso la conoscenza del male (Inferno), la sua purificazione attraverso il passaggio nel Purgatorio per accedere infine alla conoscenza ed alla coscienza nel Paradiso.
Complesse sono le vicende tutte spirituali che accompagnano al Paradiso e forse sarà anche per questo motivo che la Cantica più popolarmente affascinante è sempre quella dell’Inferno. Specie oggi che il mondo ha più diffusamente abbracciato uno spirito laico che lo allontana dalla indagine spirituale, almeno in senso cristiano. E forse anche per quella morbosa attenzione per il male che permea il mondo dell’informazione. Basta osservare in percentuale il tempo dedicato alle brutte notizie, alle tragedie, agli orrori, per rendersi conto di quanto vi sia non una obiettiva necessità di informare quanto un fascino perverso nei confronti del male. Parimenti nell’Infermo dantesco si ritrovano tutte quelle categorie che in un modo o nell’altro sembrano ricordare coloro che con facile leggerezza indichiamo come responsabili della nostra infelicità. Chi non vedrebbe, ad esempio, politici odierni nel girone infernale dei bugiardi o degli avari o ancora dei traditori o degli avidi? Chi non metterebbe tante banche e banchieri nel girone degli usurai? In quanti non troverebbero una triste affinità con l’oggi nelle parole “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!”(Purgatorio, Canto VI, vv. 76-78)?
V’è poi un ultimo aspetto che mi preme qui sottolineare ovvero l’uso che fa Dante della lingua, ovvero l’utlizzo del volgare. Questa scelta lo rende artefice di quel grande cambiamento che era in atto al tempo, cambiamento che avrebbe gettato solide fondamenta nel passaggio dal latino all’italiano. Ma non solo. Argomentando in particolare nel Convivio, opera interamente dedicata ad un confronto con gli intellettuali del tempo, Dante, al capitolo IX, indica chiaramente la funzione del dotto, di colui che, consapevole di dover assolvere ad una funzione culturale e morale, ha lo specifico compito di “… inducere li uomini a scienza e vertù …, Convivio Trattato I, Capitolo IX, par.7). La funzione dell’intellettuale dunque è quella di trasmettere il più possibile conoscenza e con essa la cultura che non dovrà essere, al tempo schiava del latino, incomprensibile ai più: “… Non avrebbe lo latino così servito a molti: ché se noi reducemo a memoria quello che di sovra è ragionato, li litterati fuori di lingua italica non averebbono potuto avere questo servigio, e quelli di questa lingua, se noi volemo bene vedere chi sono, troveremo che de’ mille l’uno ragionevolmente non sarebbe stato servito; però che non l’averebbero ricevuto, tanto sono pronti ad avarizia che da ogni nobilitade d’animo li rimuove, la quale massimamente desidera questo cibo. E a vituperio di loro dico che non si deono chiamare litterati, però che non acquistano la lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari o dignitate; sì come non si dee chiamare citarista chi tiene la cetera in casa per prestarla per prezzo, e non per usarla per sonare …., Convivio, Trattato I, Capitolo IX, parr. 2-3), ovvero, parafrasando: Il latino non sarebbe stato altrettanto utile a molti; perché se noi ricordiamo ciò che è stato detto prima, [ci rendiamo conto che] i letterati che non conoscono la lingua italiana non avrebbero potuto trarne giovamento, mentre [tra] quelli che conoscono l’italiano, se noi vogliamo vedere bene chi sono, ci accorgeremo che verosimilmente [nemmeno] uno su mille ne avrebbe tratto giovamento; poiché non sarebbero stati in grado di comprenderlo, tanto sono inclini all’avarizia che li allontana da ogni forma di nobiltà d’animo, la quale desidera più di ogni altra cosa questo nutrimento intellettuale. E per farli vergognare, dico che non sono degni di essere chiamati letterati, poiché non studiano le lettere per farne l’uso che ne è proprio (cioè per metterle al servizio della verità e del bene comune), ma perché attraverso di esse, guadagnano denaro o onorificenze; allo stesso modo che non si deve chiamare suonatore di cetra chi tiene la cetra a casa al fine di affittarla in cambio di denaro, e non al fine di usarla per suonare.
E chi ha orecchi da intendere non solo intenda ma sappia che è l’ora di darsi da fare.
Ci sarebbero poi tanti elementi che renderebbero Dante da attuale in “politicamente scorretto”, argomenti che indurrebbero ad una polemica tale che solo la distanza storica potrebbe con un minimo di dignità spiegare. E’ il Dante che pone all’Inferno i sodomiti, Maometto “tra i portator di scandalo e di scisma”, o il Dante che condanna anche i suicidi. Ma questa sarebbe tutta un’altra storia.