Un decalogo per leggere e apprendere voci e storie, pensieri e speranze di chi, dall’Italia, ha scelto nel secolo scorso la strada dell’emigrazione. Tiziana Grassi racconta a Prima di Tutto Italiani come è nata l’idea del Dizionario delle Migrazioni che sta presentando in tutta Italia e anche all’estero.
Come nasce l’idea del Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane (edito dalla SER ItaliAteneo con la Fondazione Migrantes) di cui è direttore?
Nasce sull’humus che per me hanno rappresentato 10 anni di lavoro a Rai International (oggi Rai Italia) come autrice del programma di servizio “Sportello Italia”. Essere tutti i giorni a diretto contatto con gli italiani nel mondo, ascoltare e risolvere con i nostri esperti i loro problemi, ricevere in redazione i loro diari di emigrazione, percepire che eravamo un loro punto di riferimento, sentirli piangere di emozione e incredulità al telefono solo nell’ascoltare le nostre voci che parlavano la loro stessa lingua, è stata un’esperienza umanamente straordinaria. Perché – nel vedere che quel programma di servizio era uno dei pochissimi ponti tra le ‘due Italie’ per risolvere i problemi che andavano dalla pensione al fisco, dalla cittadinanza alla salute, da questioni di indigenza a informazioni sulle iniziative attivate dalle regioni di origine – ho potuto conoscere dal ‘di dentro’, empaticamente, tutta la valenza di questa pagina fondativa della nostra Storia quale è stata l’Emigrazione italiana. E’stato naturale che questa mia quotidiana compartecipazione ai bisogni, espressi e inespressi, dei nostri connazionali all’estero, mi portassero ad approfondire tutti gli aspetti legati a questa nostra epopea. Così, dopo l’opera multimediale in dvd “Segni e sogni dell’Emigrazione” che pubblicai nel 2009, in un continuum di studi e ricerca, ho pensato ad un Dizionario Enciclopedico che raccogliesse, in una sorta di mosaico interdisciplinare, gli aspetti teorici, i sistemi di valori, i segni e i simboli, i sentimenti, la psicologia, i luoghi, i fatti, gli oggetti concreti che fanno parte integrante del vissuto di 27 milioni di italiani partiti tra Otto e Novecento e che oggi si riverberano in 80 milioni di oriundi, i cosiddetti “italiani con trattino”.
Un Dizionario che, valorizzando Memoria e Identità, potesse essere strumento di conoscenza anche per le giovani generazioni?
Certo, al fine di entrare ‘dentro’ questa pagina della nostra Storia, spesso purtroppo trascurata anche nei testi scolastici. Con la direzione editoriale di Enzo Caffarelli e il coordinamento scientifico di Delfina Licata, attraverso 700 lemmi, 20 appendici monotematiche, 180 box integrativi e 500 tra fotografie e documenti storici, coinvolgendo oltre 160 studiosi ed esperti, ho voluto raccontare l’Emigrazione italiana con un taglio scientifico-divulgativo attraverso la corrispondenza, la fotografia, la musica, la linguistica, il cinema, la letteratura, l’onomastica, l’alimentazione, le devozioni, l’associazionismo, le statistiche con i dati più aggiornati sui flussi migratori da tutte le regioni italiane nei vari continenti.
Un tempo si partiva per migliorare, ma contando anche su una rete di italiani presenti all’estero. Quale il ruolo delle comunità?
Per gli emigrati italiani nel mondo, le comunità di appartenenza hanno avuto un ruolo fondamentale sul piano umano e sociale, e pensiamo ai patronati, alle società di mutuo soccorso nate già a metà dell’Ottocento, all’associazionismo. Ricordiamo che molti italiani che lasciavano un Paese in difficoltà alla ricerca di una vita migliore, non avevano un progetto specifico oltre a quello minimo di trovare un lavoro e mettere da parte una riserva economica in poco tempo, con la remota speranza di ritornare in patria. Un’attitudine che, per la connotazione transitoria o stagionale della migrazione, valse loro il termine di ‘rondini di passaggio’, equivalente a gente senza un vero interesse nei confronti del Paese ospitante, spesso notoriamente ostile. Le forme associative in cui si organizzavano le comunità di italiani, svolgevano dunque la duplice funzione connettiva e di rappresentanza, rispondendo al bisogno primario dei connazionali, da una parte di riunirsi e ritrovarsi “altrove”, nei Paesi di destinazione, dall’altra di rendersi interlocutrici dirette con le istituzioni sia per quanto riguardava la loro condizione di lavoro e di vita all’estero affrontando i problemi in una dimensione collettiva, sia per ciò che riguardava la condizione e i rapporti con le famiglie rimaste in Italia. Nate con un profilo prevalentemente assistenziale, le associazioni italiane nel mondo hanno poi progressivamente assunto caratteri più diversificati, che andavano dagli aspetti solidaristici a quelli culturali, religiosi, ricreativi ed economici.
E attualmente?
La questione dell’associazionismo riguarda soprattutto gli oriundi e la necessità di mantenere vivi questi legami con una partecipazione che a volte si rivela attiva e proattiva, altre volte quasi inesistente, riflesso di una mentalità che tende a considerare – a torto – l’emigrazione eco del passato. E’una importante sfida socioculturale, quella da affrontare, perché con importanti riflessi sul lungo periodo. Mantenere in vita e trovare nuove forme di legami con gli oriundi implica l’attenzione da parte di più soggetti, in primis del mondo politico e istituzionale. Ma voglio essere fiduciosa, mentre osservo che solo poche regioni si attivano con iniziative e progetti per vivificare e attraversare in maniera concreta e propulsiva il complesso passaggio intergenerazionale.
Le devozioni degli italiani emigrati nel mondo e la trasposizione oltreconfine dei culti mariani e dei santi patroni con funzione affettivo-identitaria di mantenimento delle culture native. Cosa rappresenta, da un punto di vista geo-sociale, l’italianità?
E’un ‘universo’, come ogni identità nazionale. L’italianità è un insieme di tratti, morali e mentali, un complesso di caratteri storici e culturali che caratterizzano una ‘visione del mondo’. Tra costume, mentalità e psicologia collettiva. Per restare allo specifico della Grande Emigrazione, con i suoi riflessi e testimonianze che giungono fino ad oggi e che ho potuto osservare nei tanti connazionali che si rivolgevano quotidianamente a Rai International, esprime sicuramente un marcato e profondo senso di appartenenza, l’orgoglio delle radici, della madre-terra, spesso sentito in maniera più acuta oltreconfine che da noi. A questo proposito colpisce che siano in molti i giovani oriundi che vogliono conoscere la propria storia di famiglia attraverso le ricerche genealogiche, per scoprire da dove un giorno è partito un proprio avo, con quale nave, se nel tempo il proprio cognome di origine italiana ha subito modificazioni; variazioni avvenute o per scelta e processi adattivi, o per una errata trascrizione al momento dell’arrivo, o per costrizione, cambiandosi nella veste grafica per corrispondere – assimilarsi – alla pronuncia originaria o per rispettare le leggi grafiche e fonetiche della lingua del Paese di destinazione. Tempo fa queste ricerche sulla storia di famiglia da parte dei giovani discendenti italiani erano legate, oltre che agli aspetti affettivo-identitari, anche all’eventuale richiesta di cittadinanza italiana. Oggi prevale l’aspetto identitario, di un sentimento profondo e pervasivo di italianità. Gli studiosi parlano di “transgenerazionalità” familiare a proposito delle tematiche psicologiche, le quali passerebbero, come in eredità, da una generazione alla successiva, in attesa di essere elaborate e risolte. Alcune migrazioni familiari hanno la capacità di trasmettersi come un’eco, segnando in modo indelebile il percorso delle vite individuali e, prima o poi, c’è qualcuno che ‘paga il prezzo’ del distacco iniziale. Ci sono oriundi che vengono in Italia talvolta come terza o quarta generazione, con brandelli di memoria collettiva, senza più conoscenza della lingua italiana, spesso persa alla seconda generazione, a cercare radici, a innamorarsi di un italiano, a studiare l’arte italiana, a tentare di riacchiappare qualcosa di perduto e al tempo stesso percepito come indispensabile per andare avanti nella loro vita. Anche questo, nella sua forma più alta e complessa, è Italianità.
Coraggio, sacrifici, sogni e conquiste: questi gli stimoli che hanno portato 27 milioni di connazionali al grande balzo. Che quadro emerge dal Dizionario?
Un quadro straordinariamente ricco, sfaccettato, e solidissimo. Fatto di tante storie individuali che hanno contribuito a scrivere la Storia. E’un mosaico in cui si incrociano, come dice lei, coraggio, orgoglio, sogni e conquiste, insieme a indiscussi talenti, dignità e creatività, fondamentali che ho voluto raccontare nel Dizionario Enciclopedico. Come la storia di Amadeo Pietro Giannini, che nel 1904, con altri italo-americani, apre la prima sede della Bank of Italy, dimezzando il tasso d’interesse e rendendo più vantaggioso il cambio per le rimesse degli emigrati, da cui ha origine la Bank of America; o Manuel Belgrano, le cui campagne militari sono state decisive per l’indipendenza dell’Argentina dalla dominazione spagnola; e Frank Sinatra, Martin Scorsese, Enrico Fermi, Joe Di Maggio, Francis Ford Coppola, Mario Cuomo, Bill De Blasio, Rudolph Giuliani, Giuseppe Petrosino, Fiorello la Guardia, Mirko Tremaglia, Alfred Zampa, e tanti altri, dal passato al presente.
Non solo nomi famosi, ma anche tante storie “normali”…
Il quadro è composto anche da milioni di italiani che, pur non essendo noti, in ogni angolo del mondo hanno dato il meglio di sé testimoniando con la loro operosità tutto il portato valoriale dell’identità italiana, penso per tutti alla vicenda umana di Guido Cardillo, al suo sogno di una vita, all’abnegazione e al coinvolgimento di tutta la comunità di origine e di destinazione, in Pennsylvania: è grazie a lui e alla sua tenacia se oggi a Spigno Saturnia, in provincia di Latina, esiste il Monumento degli Emigranti Spignesi nel Mondo. E non posso non ricordare le tante, troppe tragedie in cui, lavorando per una vita migliore, hanno perso la vita i nostri connazionali: Marcinelle, Monongah, Mattmark. E le tragedie del mare, i naufragi. A tutt’oggi non si ha ancora la certezza di quanti furono i piroscafi affondati e, sebbene il tema sia stato spesso trascurato, sappiamo che fu la prassi consolidata delle grandi compagnie a determinare l’occultamento delle tragedie, spesso dovute a sciatteria, a errori umani o all’ingordigia di armatori che usavano per il trasporto degli emigranti vecchie carrette ormai a rischio. Corsi e ricorsi storici.
Alimentazione, cinema, cultura: gli italiani cosa portavano nella loro personale valigia di ricordi e affetti?
Innanzitutto la propria identità, che nell’altrove, nell’asimmetria dei contesti di arrivo, avrebbero subito dovuto mettere in discussione nella costruzione di nuove mappe interiori, sociali e culturali. Nei loro malconci fagotti c’era il lutto migratorio, dovuto al senso di perdita, di separazione, di rinuncia dolorosa alla propria patria per un progetto di vita in altri Paesi. Uno stato dell’essere che oscillava tra permanente ricordo nostalgico e risentimento verso la propria terra-madre (matrigna?) che aveva obbligato all’emigrazione. In quelle valigie, divenute archetipo di una diaspora, c’era la speranza del ritorno, del viaggio del ritorno, fosse anche l’ultimo: quello definitivo per tornare a morire in patria. Ma c’erano anche i mestieri, le competenze lavorative specifiche e specialistiche che noi italiani abbiamo esportato in numerose aree del mondo, competenze grazie alle quali ci siamo distinti, e che naturalmente nel Dizionario ho voluto illustrare con una panoramica a tipizzazione regionale e locale: i boscaioli, tagliapietre, mosaicisti e tessitrici del Friuli e Venezia Giulia; i soffiatori di vetro, arrotini e salumai dal Trentino; i gelatieri dal Veneto; le balie da tutte le regioni del Nord d’Italia e dalla Lucchesia; dall’Umbria la specializzazione nella lavorazione delle colture floreali per la fabbricazione dei profumi; dal comasco, già nell’Ottocento, partivano per l’Inghilterra gli esperti nella produzione di strumenti ad alta precisione come barometri, occhiali e orologi, e i pescatori da Molfetta, in Puglia; i coltivatori di viti dalle zone piemontesi e venete ma non solo; i cavatori di marmo dalla Versilia. Nella loro valigia, insieme al carico di nostalgia per lo strappo, i nostri connazionali portavano le talee di vite inserite in una patata per mantenere l’umidità durante il viaggio migratorio: una pratica che ha permesso di ricostruire in paesi sconosciuti e stranianti le atmosfere familiari dal “sapore” italiano. E culti devozionali, ricette, toponimi che duplicavano il nome delle località di origine per il desiderio-bisogno di rinnovare e ricordare la terra natale: quante Palermo, Roma e Venezia abbiamo nel mondo!
Un secolo dopo le immagini di Ellis Island il vecchio continente ancora protagonista con nuovi viaggi dei nostri neo laureati. Con quali differenze?
A causa della infinita crisi economica, che ha umiliato i sogni e la dignità di molti italiani – giovani e non – siamo tornati ad essere Paese di emigrazione. Sono flussi in costante crescita che rinviano a una nuova curvatura dello spazio della mobilità umana. Partire, fare esperienza all’estero può certo rappresentare un campo di possibilità e di autorealizzazione. Ma dovrebbe sempre essere una scelta. Invece spesso è capitale umano che, nella mancata valorizzazione dentro i confini, così come in passato, è costretto ad andare via e che difficilmente ritornerà. Si stima che siano oltre 100 mila le persone che ogni anno lasciano l’Italia per cercare opportunità all’estero, ed è un fenomeno che rischia di rallentare il progresso culturale, tecnologico ed economico del nostro Paese. Una delle maggiori innovazioni che riguardano le nuove emigrazioni sono transiti verso altri Paesi a finalità di nuovi impieghi: laureati e dottorandi nei campi della tecnologia, personale medico, ricercatori, insegnanti, traduttori. E ammonta a oltre 1,2 miliardi di euro annui la stima della perdita di potenziali top scientist italiani che, se fermato, potrebbe portare a un aumento del PIL pari a 20 miliardi di euro; a 4 miliardi negli ultimi venti anni invece ammonta la perdita in valore economico dei brevetti. Sono cifre che devono farci riflettere. Altrove, in molti Paesi europei, negli Stati Uniti o in Canada, invece, i nostri giovani talenti possono ancora realizzare i propri, legittimi, sogni di crescita. Nella perdurante mancanza di ‘visione’ che caratterizza le prassi italiane.
Non solo punto di partenza, ma anche tragico punto di arrivo. L’Italia si fa meta di rifugiati e immigrati in fuga dalle guerre. Cosa non funziona alla voce organizzazione e policies?
C’è una vasta letteratura sugli atteggiamenti di ancestrale quanto ingiustificato rifiuto della diversità di cui è portatore lo ‘straniero’, lo ‘sconosciuto’, l’ ‘Altro’. Lo abbiamo esperito noi italiani quando, stigmatizzati per stereotipi e pregiudizi, emigravamo tra Otto e Novecento. Forme di razzismo di tipo socio-culturale difficili da contrastare che propongono una visione dell’umanità suddivisa in gruppi distinti, in cui sembra impossibile l’incontro, una matura società interculturale. E’un approccio di tipo etnocentrico che sorvola sul carattere storico, dinamico, plastico e processuale degli universi culturali, un approccio che non rivela, e spesso non cerca, sguardi amplianti. Sono i paradossi e i contraccolpi della globalizzazione, della mondializzazione che comprime le categorie dello spazio-tempo, dove le differenze culturali hanno vissuto e vivono una nuova stagione, in ragione del fortissimo avvicinamento delle culture ‘altre’ alla cultura occidentale, tramite una fortissima mobilità di gruppi e popoli che apre a nuove complesse relazioni fra patrie di provenienza e patrie ospitanti. La storia dell’umanità dovrebbe ricordarci che la mobilità umana in transito sul pianeta ne è elemento costante e costitutivo, al di là delle nostre paure, degli allarmismi e dei confini che poniamo prima di considerare le istanze dell’Uomo, della persona. Cosa non funziona? Nell’eclissi di Memoria sul nostro passato di emigranti, sulle discriminazioni e le dolorose emarginazioni che abbiamo subìto, nel vuoto di chiavi di lettura per interpretare i fenomeni in corso – cui concorre anche un certo giornalismo sensazionalistico che elude il necessario approfondimento contestualizzante – sarebbe forse auspicabile ricordare, in primis, che Lampedusa, l’Italia, sono geograficamente l’avamposto dell’Europa. E che quindi le questioni migratorie verso una più consapevole, dignitosa e strutturata accoglienza, non interpellano solo il nostro Paese. E’un discorso che proprio in queste settimane sta esprimendo tutta la necessità e l’urgenza – anche etica – di rivedere, tutti insieme, la prospettiva europea in chiave meno econometrica e più umanistica. Al centro della questione si pone lo statuto dei valori. E’la Storia, con il suo divenire, che ce lo chiede.
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