Si parte da Shakespeare e si giunge alle fiction in terra di Sicilia, passando per una formazione lunga e articolata, con nomi significativi del panorama cinematografico mondiale. Hong-hu Ada è un’attrice nata in Italia e cresciuta in Usa da padre giapponese e da madre italiana. Laureata in Scienze Politiche, è conosciuta per i suoi ruoli da protagonista nei film “Mary” e “Go Go Tales” di Abel Ferrara, “Il figlio più piccolo” e “Il papà di Giovanna” di Pupi Avati , “L’era glaciale 4” e “The Key and the answer” regia di S. A. Nacucchi dove è la coprotagonista Taras, solo per citarne alcuni. In questi giorni è impegnata nelle riprese della nuova serie della fiction “Squadra Antimafia 8”, dove è un personaggio di punta. Due gli spunti che fanno di questa artista completa, spigliata e intensa, un’interlocutrice impegnata: il binomio “no alla paura e no alla velocità del mondo 2.0” in cui ci troviamo. La paura, dice, è il freno a mano che ci porta a non esprimerci completamente. E la velocità del 2.0 è quella cosa che mette in secondo piano l’anima e i sentimenti.
Nonno di Haiti, padre orientale, madre mediterranea. Ti manca solo il polo nord: quanto ti senti italiana?
Alcuni amici, scherzando, mi dicono che la mia vita trasposta su una cartina geografica, è pari ad un giro di 360 gradi esatti, partendo dal Giappone per giungere poi in Italia. Nel cuore sono italiana, nella testa essendo cresciuta otre oceano mi sento americana per una ragione molto semplice: gli Usa sono un luogo dove il business non fa marcia indietro, con un modo di lavorare completamente diverso rispetto a quello italiano. Razionalità e concretezza: le cose si dicono una sola volta. Mentre qui da voi gli spazi sono molto più allargati e imprecisi, penso soprattutto al livello organizzativo.
E il cuore tricolore quanto influisce?
Molto, mia madre è italiana e abbraccia molte tradizioni da quelle artistiche a quelle culturali. Mi vengono in mente i profumi, i sapori, il mare, il clima dell’Italia. Sono elementi che, quando si vive per lungo tempo all’estero come mi è capitato nell’infanzia e nell’adolescenza, poi mancano inesorabilmente e si apprezzano. Dell’Italia però mi manca un’altra cosa: la grande tradizione artistica cinematografica. Penso a registi come Monicelli, Visconti, De Sica e il grande Fellini: lo dico con malinconia e dispiacere, in quanto mi sarebbe tanto piaciuto lavorare con il “maestro”. Sono riusciti a dipingere Roma in modo magico, per questo non bisogna dimenticare che l’Italia è ricordata all’estero, in particolare negli Stati Uniti, proprio per il grande cinema del passato. Le Notti di Cabiria, Otto e mezzo, La Dolce Vita, e anche per la tradizione musicale di cui mi viene in mente in nome di Puccini.
A che proposito?
Quando ero a scuola negli Usa e studiavo il gospel, mi parlavano proprio di Puccini. In modo scherzoso dico che il compositore nato a Lucca, sulla carta, è un italo-giapponese come me, perché è stato un grandissimo operista italiano che ha volto lo sguardo ad oriente come dimostra Madama Butterfly, che si innamora di un marinaio americano. Per cui Puccini, già ad inizio Novecento, era un precursore guardando all’oriente con profonda dolcezza ed ammirazione, voglioso di scoprire nuove dinamiche musicali.
Hai iniziato ad avvicinarti al teatro con Shakespeare, Milton e Keats all’età di 6 anni per poi ottenere piccoli ruoli in diversi film in USA all’età di 18: lì hai scoperto la vocazione per la recitazione?
Sì e nel mio caso quella vocazione proviene dal teatro, in particolar modo dalla tradizione teatrale inglese. Mia nonna materna è soprano lirico come me e mi ha dato i primi insegnamenti. Quasi parallelamente è giunto l’amore anche per la recitazione che si è concretizzato principalmente nel teatro sino al compimento dei 18 anni. Leggere Shakespeare, Milton e Keats mi è servito molto in futuro, quando ho recitato al Covent Garden di Londra come la protagonista Cordelia nella produzione teatrale di William Shakespeare “Re Lear“.
Sei cantautrice, compositrice e cantante, suoni anche il pianoforte e il koto, un particolare strumento giapponese: quanto la musica ti ha aiutata nella recitazione come commistione fra arti?
Negli anni della mia formazione americana ho toccato con mano che lì non c’è una separazione tra musica e cinema. I miei professori, i reverendi che mi hanno insegnato il gospel “nero”, mi ripetevano sempre che tra il pentagramma e il copione al cinema non c’è alcuna differenza, ma è solo un passaggio di emozioni dalle note alle battute. Infatti nella mia carriera musicale ho inciso sei dischi che sono stai pubblicati dalle varie etichette discografiche, dove nelle mie canzoni si può chiaramente notare questa unione tra melodia e colonna sonora cinematografica. Nelle scuole statunitensi quando si studia canto si devono sostenere anche esami di recitazione che sono propedeutici. Quindi per me musica e cinema è un legame inscindibile, un trade union fondato su una base di emozioni e formazioni. Negli Usa è comune a molti artisti, come Kevin Kostner, attore e musicista, o Jennifer Lopez, passando per Barbra Streisand.
Ma l’Italia è nel tuo destino, con la partecipazione in “Go Go Tales” girato proprio a Roma ed anche a New York. Qual è il tuo rapporto con l’Italia e con i luoghi simbolo dell’italianità?
E’un incontro magico quello con l’Italia, un paese che da sempre ha toccato il mio cuore: ciò mi ha aiutato anche all’estero. Forse destino, forse no. Sta di fatto che questo paese mi ha delineata sentimentalmente.
Hai vissuto prima a Miami e successivamente, per brevi periodi, in Ohio, a Boston e a New York, parli sei lingue, ma tra le tante mete la Sicilia perché ti ha favorevolmente colpita?
Sono stata a Catania e la Sicilia è terra del vulcano, non va dimenticato, quindi è terra di fuoco, un punto geografico dove si canalizzano le energie, anche quelle fra loro contrastanti. E che poi trovano un punto d’unione così come avviene in Giappone, intorno al monte Fuji dove ci sono 27 laghi di origine vulcanica: una vegetazione diversa che non esiste in nessuna altra parte del mondo. Profumi e sapori diversi: ho trovato questa analogia in Sicilia, con il clima, la gente, la cucina, che sono tipiche dei quel luogo e solo di quello. Un gioco, energetico e climatico, che non può essere sottovalutato. Anche l’acqua è diversa e non ha pari in altre spiagge. E’la ragione per cui trovo questa regione italiana per molti aspetti simile al Giappone.
Giappone fa rima con filosofia, zen, cura dell’anima: quale il tuo approccio alla cultura orientale?
Molto forte perché ho abbracciato tutto ciò sin da bimba: lo zen, la pace interiore, l’equilibrio e la non invidia. Un bagaglio molto utile perché questo mondo è fatto di invidia, competizione e cattiveria.
Ti sei diplomata alla New York Film Academy e subito lanciata come Giulietta nella produzione di “Romeo e Giulietta” a Broadway, per poi aggiudicarti il ruolo di Varja nel “Giardino dei ciliegi” di A. Cechov. Ma l’incontro con gli “italiani” Ferrara e Avati che sapore ha avuto?
Pupi come tutti i bolognesi ha un grande cuore ed è stato un po’uno dei miei “papà artistici”. Ha creduto in me anticipando i tempi, nel senso che è stato uno dei primi registi a vedermi in questa veste forte. Nel Papà di Giovanna ero l’unica partigiana donna che uccide, una figura rara in quei tempi. Un ruolo doppio, se vogliamo anche magnetico per quei tempi, oggi magari è più semplice. In seguito altri registi, fino a Squadra Antimafia 8, hanno seguito quella traccia dove si richiedeva una grande personalità.
Come accaduto nel 2011, quando sei stata la protagonista del film western “Shuna, il Legend” di Emiliano Ferrera. Hai imparato a cavalcare senza sella, è vero?
Sì. Fino ad oggi nessuno mi ha vista dentro una commedia romantica, dove mi innamoro o mi sposo. Tutti mi hanno inquadrata come soldato-guerriero. Una sorta di amazzone come Taras, la principessa che sceglie di combattere e non governare. O come nel western che hai citato, ambientato in New Mexico nel 1890 e che racconta la storia della indio Comanche, una ragazza appartenente ad una tribù di indigeni, che sono stati perseguitati per il controllo del loro territorio. L’unico sopravvissuto era appunto la giovane Shuna che interpreto e che giura vendetta ai responsabili di genocidio della sua tribù e rinunciando ad avere un amore. In “Squadra Antimafia 8” sono una sorta di Lara Croft siciliana, che va controcorrente e contro le regole. Quindi è probabilmente la mia fisicità ad ispirare tutto questo.
So che hai tre sogni nel cassetto. Quali?
Mi piacerebbe fare un film più al femminile in futuro. Magari diretta da tre registi italiani che sono di chiara fama internazionale: Giuseppe Tornatore, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino. Mentre all’estero mi piacerebbe lavorare con Christopher Nolan. I tre che ho citato sono registi che non hanno paura e questo va apprezzato. Sono delle vere e proprie eccellenze nel mondo e devono essere premiate.
Proprio la paura è quell’elemento che funge un po’ da freno a mano, anche nelle nuove generazioni?
E’il sentimento che, assieme alla velocità, sta bloccando il mondo intero e che potrebbe annientarlo se non sarà fermato. La paura di fare e quell’andare troppo veloci sono oggi i nostri nemici, al pari del non fermarsi ad ammirare le bellezze del mondo o del non sapere come porgersi al prossimo. La tecnologia va gestita: senza dubbio ci fornisce grossi vantaggi dal punto di vista medico, tecnico e pratico. Ma noi siamo fatti anche di anima, io lo ricordo quotidianamente. Voi giornalisti dovreste ricordalo in modo particolare perché siete le sentinelle della società e avete il dovere/obbligo di informare, istruire e sensibilizzare.
twitter@PrimadituttoIta