di Enzo Terzi
Africa, Africa e ancora Africa. Africa per i conflitti che si susseguono incessantemente e che sembrano non avere mai fine. Africa per le centinaia di migliaia di cittadini che fuggono verso l’Europa. Africa perché a tutt’oggi rappresenta un Eldorado tutto da sfruttare. E poi ancora Africa, quella vista con gli occhi nostri e quella vista con gli occhi africani. E ulteriormente Africa, quella della quale ci permettiamo deciderne le sorti sia politiche che economiche e quella che preferisce che tutto questo accada. E quella poi che vorrebbe decidere da sola ma non ne trova la forza.
E sopra a questo continente che annaspa tra la ricerca di culture dimenticate, tra la necessità di nuove identità nazionali, tra la voglia di riconoscersi anche come continente, staziona come nube ancora carica di questioni irrisolte, di paure, di voglia di riscatto, di incubo non tramontato, di seme di vendetta, di scusa e giustificazione, il fardello pesante ed ingombrante della recente moderna colonizzazione.
E forse, tra tutte le facce che questa eredità porta con sé, quella di essere in qualche modo responsabile di ogni irrisolto problema, di ogni mancato progresso, è quella che forse più le si adatta.
Per bizzarra fortuna, gli eventi bellici mondiali di metà novecento ci hanno tolto quella stucchevole aria da conquistatori. Effetti collaterali dei disastri. Se gli stati europei non fossero divenuti dei miserabili squattrinati e degli impenitenti indebitati, molti stati africani sarebbero, ancora oggi, colonie a pieno titolo.
Tuttavia, la ricostruzione degli stati europei, la loro nuova ricrescita e l’inserimento nel consesso dei vincitori dell’ultimo conflitto mondiale ha fatto sì che la seconda metà del novecento riportasse lo squilibrio sia sociale che economico tra gli stessi ed i paesi africani – la cui indipendenza mediamente non va più indietro di cinquanta anni – a quello degli inizi del novecento stesso ricreando, in parte almeno, le condizioni per una nuova massiccia invasione.
L’apparenza tuttavia non avrebbe più permesso una palese nuova colonizzazione almeno da parte europea anche se poi, come nel recente 2011 non ci siamo fatti scrupolo alcuno in quel di Libia, tuttavia, la sempre più consistente necessità di materie prime non ha impedito che si facesse leva sulla assoluta frammentazione sociale africana che in molti paesi è ancora regolata da fragili compromessi tra comunità, cercando di inventare quelli che potremo chiamare i “conflitti intelligenti del XXI secolo”, ovvero quelle stragi che senza fine dagli anni ’70 insanguinano il continente e che, da casa, ci raccontiamo con quella ipocrisia che siamo riusciti a costruire con secoli e secoli di storia, come conflitti tra etnie locali, dovuti esclusivamente a faide inter-tribali. Disastri umanitari questi che ci hanno anche aiutato a dimenticare parole come “apartheid”, generata e resa operativa da inglesi ed olandesi, evolute tribù nord-europee.
L’Africa che è stata, in questo senso, una sorta di grande laboratorio di quello che, pochi anni dopo, abbiamo cercato di ripetere nel bacino mediorientale, con i risultati che tutti abbiamo oggi sotto gli occhi: migrazioni epocali da paesi che abbiamo pesantemente contribuito a mantenere in stato di effervescenza armata e continue minacce da parte di bande di esaltati scatenati, armati fino ai denti Made in Europe che possono alimentare quella forma di terrorismo, se non altro psicologico, che ci sta togliendo il sonno e capace, dunque, di rinnovarci la volontà di continuare a decidere della politica altrui in nome apparentemente della nostra sicurezza. In altre parole traiamo profitto alimentando le nostre paure, ovvero attuiamo la difesa disperata dei presunti nostri interessi spacciandoli come loro benessere. E l’Africa, ancor più del Medio Oriente dove il grande interesse è per il “solo” petrolio, a paragone è un autentico vaso di Pandora tante sono le ricchezze naturali che il paese ha lì, pronte per essere sfruttate.
Tre sono le direttrici attraverso le quali, da europei e quindi anche da italiani, abbiamo deciso di dirigersi alla nuova conquista del continente:
1. La massiccia vendita di armi in grado di alimentare, ora da una parte, ora dall’altra, i vari conflitti in virtù del vecchio adagio che dal caos si possono cogliere maggiori opportunità se non altro perché indebitando i vari signorotti o governi provvisori, in cambio si ottengono tutte quelle agevolazioni necessarie a sfruttare a basso costo. E di questo non se ne parla quasi mai, salvo in caso di “flagranze” per cui si è costretti da ammettere le responsabilità mai tali però da giustificare i veri dati che emergono: 18 miliardi di dollari vale il mercato degli armamenti nella “sola” Africa e di questo, circa il 6% è appannaggio italiano.
2. Per contro, a fini mediatici se non altro, si urla, accompagnati da tutte le fanfare possibili e da tutti i possibili colpi di grancassa, del grande impegno sostenuto dall’Europa per lo “sviluppo” africano. Ebbene, i rapporti tra Europa e Africa sono regolamentati essenzialmente dalla Convenzione di Cotonou (città dello stato del Benin), siglata il 23 giugno 2000 tra la UE e – facciamo attenzione – la ACP, acronimo che sta per paesi di Africa, Caraibi e Pacifico, il numero dei quali è, ad oggi, di 79. Quando pertanto si parla di aiuti europei ai paesi ACP, si pensi dunque ad aiuti spalmati su un territorio che è vasto quanto un terzo del pianeta. Il curioso non è tanto questo pretenzioso accorpamento geografico quanto alcuni dei principi cui la Convenzione tende, primo fra tutti (come si legge dal sito europeo), a : “… ridurre e, in definitiva, eliminare la povertà, in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile e di integrazione progressiva dei paesi ACP nell’economia mondiale …”. Con molta franchezza mi scappa da ridere (se anche qui non ci fosse da piangere) visto che, ad esempio, uno degli strumenti più utilizzati è quello delle missioni PSDC (Politica di Sicurezza e di Difesa Comune), in virtù delle quali – sempre si recita sul sito UE – “… l’UE assume un ruolo guida nelle operazioni di mantenimento della pace, nella prevenzione dei conflitti e nel rafforzamento della sicurezza internazionale a livello mondiale ….”. Le operazioni europee in atto sono 9 i cui obiettivi vi invito ad andare ad analizzare nei rispettivi siti: la EUFOR in Repubblica Centro-africana; la EUPOL RD Congo; la EUSEC RD Congo; la EUCAP NESTOR in Gibuti, Kenya, Somalia, Seychelles e Tanzania; la EUBAM in Libia il cui obiettivo mi preme sottolineare in quanto è “… è una missione civile è [il termine “civile” è una vera perla di ipocrisia] volta a sostenere le autorità libiche nel migliorare e sviluppare la sicurezza alle frontiere del paese. La missione rientra nell’approccio globale dell’UE a sostegno della ricostruzione post-conflitto in Libia ….”, lasciando a chi legge i commenti opportuni; la EUTM in Mali; la EUCAP Sahel in Niger e in Mali; la EU NAVFOR in Somalia e, sempre in Somalia, la EUTM.
3. Gli accordi commerciali, invece, vengono gestiti attraverso la APE (accordi di partenariato economico), il cui principale obiettivo è: “… il rafforzamento dell’integrazione regionale. Una priorità fondamentale è lo sviluppo delle economie grazie al rafforzamento della loro competitività – in particolare tramite la creazione di capacità per le imprese e gli esportatori dell’Africa occidentale…”. I lavori sugli accordi commerciali nei termini odierni hanno avuto inizio nel 2007 e nel 2014 sono approdati ad un primo documento ufficiale che sancisce come si sia individuata “una prospettiva a lungo termine di accesso in esenzione da dazi e contingenti al mercato dell’UE”, una volta ovviamente superati tutti i problemi in materia di sicurezza sanitaria, sicurezza per l’utilizzo, ecc. ecc. Campa cavallo …..
Questo lo stato ufficiale degli interventi europei che manifestano chiaramente come il vizietto di voler piegare ai propri interessi le sorti politiche dei paesi più deboli è oltremodo chiaro (rinnovo l’invito a chi legge affinché vada a controllare nei siti istituzionali della UE). In soldoni si parla oggi di interventi per circa 50 miliardi di euro da spalmarsi su tutti i paesi della ACP (e quindi non solo in Africa) nel periodo 2014-2020, ovvero poco più di 6 miliardi l’anno. Se per contro si osserva che il mercato delle armi vale circa 18 miliardi l’anno e che non tende a diminuire (le uniche industrie di armamenti, peraltro leggeri, sono in Niger ed in Sud Africa) si può comprendere come l’aspetto commerciale sia del tutto dipendente dal mantenimento in loco di certe condizioni politiche e governative, ovvero di caos e di signorotti avidi di potere.
Queste dunque le premesse alle quali va poi aggiunta la presenza, più volte messa in discussione sia per l’inefficacia, sia per la partigianeria, dell’ONU. Ma non basta. Il continente africano è invaso da migliaia di ONG che, a vario titolo, cercano di arginare i risultati di quelle condizioni terribili in cui versano molte popolazioni e molti territori, condizioni che abbiamo chiaramente contribuito a generare. Anche quello degli aiuti – ferma restando la buona, anzi ottima fede dei molti che vi si dedicano – è un mercato che fa muovere molti miliardi l’anno.
All’interno di questo quadro generale ecco che l’aspetto più squisitamente commerciale assume dei connotati controversi. Quando si parla di rapporti commerciali si parla di scambi che, in teoria, dovrebbero soddisfare entrambe le parti in causa: chi compra e chi vende. L’Africa non ha denari ma molto da vendere; il resto del mondo ha denaro per comprare e quindi lo fa. La crescita di questi paesi che sta giusto nel mezzo, è fatto secondario, anzi, fors’anche deprecabile, talvolta viene da domandarsi addirittura a chi potrebbe interessare visto il silenzio che lo contorna. In definitiva, più i paesi dovessero evolvere, maggiore sarebbe il prezzo di vendita. Nel frattempo, se verso l’Europa si dirigono centinaia di migliaia di disperati, verso l’Africa si dirigono i tecnici specializzati europei che, per contro, non trovano più mercato a casa propria e così le imprese il cui obiettivo è quello di portare tecnologia e quadri dirigenti, attingendo pertanto alla forza lavoro locale solo per la mano d’opera poco qualificata.
Il massimo sforzo in questo senso da alcuni decenni lo sta facendo la Cina che è diffusamente presente nel continente africano e che, in taluni casi è salita alla ribalta internazionale per alcuni investimenti apparentemente bizzarri come quello della costruzione di alcune vere e proprie città, per ora disabitate. E’ il caso, ad esempio, di Nova Cidade de Kalimba, in Angola, costituita da 750 complessi abitativi oltre che dalle necessarie infrastrutture ma ancora disabitata anche per gli alti costi degli appartamenti che gli acquirenti locali non possono sicuramente permettersi ma che, con un costo di “solo” 90.000 euro potrebbero facilmente riempirsi di cinesi che, tra l’altro, stanno progressivamente arrivando. E se l’operato europeo necessita sempre di una facciata politicamente corretta per cui alle operazioni commerciali più azzardate si accompagna una facciata di “aiuti”, il pragmatismo cinese non ha di questi fardelli.
L’intervento cinese in Africa risponde unicamente a tre criteri: sicurezza degli approvvigionamenti che vengono direttamente fatti arrivare dalla madrepatria, delocalizzazione, in modo da permettere un afflusso di cinesi sul continente e sbocchi commerciali, facilmente individuabili sia per quel “made in China” che sappiamo quanto possa flagellare i mercati occidentali per i suoi bassi prezzi e quindi appetibilissimo per i paesi più poveri, sia per la possibilità di rivendere poi al resto del mondo quanto prodotto in loco. Tutto secondo il principio di scambio: “infrastrutture in cambio di materie prime”, campagna questa lanciata poderosamente già dal 2007. Una colonizzazione, questa della Cina, apparentemente molto soft, che si sviluppa a grandi passi, di fatto partendo dallo scambio commerciale per arrivare poi al controllo politico grazie alla presenza economica e l’innesto di popolazione, mentre l’Europa si dibatte nel cercare di seguire il cammino contrario, ovvero prima controllare politicamente il territorio e poi di insediarvisi commercialmente. Intenti similari e percorsi opposti.
E l’Italia? La presenza italiana è – al di fuori della partecipazione alle iniziative comunitarie – estremamente ed inspiegabilmente, molto bassa. Anche nei rapporti diplomatici, potendo contare “soltanto” su 19 ambasciate in tutto il continente. E sì che non più di un secolo fa le velleità coloniali ci avevano permesso, quanto meno, di apprendere e conoscere le potenzialità di almeno una parte di questo continente. Verrebbe quasi da pensare che un latente senso di colpa blocchi il bel paese. Tuttavia, se riconosciamo che i massicci investimenti di altri paesi, anche europei, non sono frutto di dissennate scommesse, dobbiamo ammettere delle deficienze. Eppure, nonostante la sua posizione geografica che la vede come base naturale per essere testa di ponte tra Africa ed Europa, l’Italia stenta, tanto da presumere che non voglia. Certo non aiuta né la scarsa presenza diplomatica né l’assenza di banche italiane né il caotico presunto impegno di decine e decine di commissioni ed organismi che dovrebbero veicolare i rapporti tra imprese nostrane e domanda africana.
Ma nemmeno queste attenuanti soddisfano. In altre parole, prima ancora delle grandi imprese, non hanno creduto negli scambi con l’Africa né la politica né il sistema creditizio italiano (le banche italiane hanno unicamente delle rappresentanze nei paesi che guardano il Mediterraneo e qualcosa più a sud la BNL ma come gruppo BNP PARIBAS). Senza questo tessuto che costituisce la base di preparazione ad ogni investimento di un certo livello è ovvio che l’iniziativa lasciata unicamente in mano alle aziende è destinata a non essere competitiva con altri gruppi industriali ben supportati (vedi Francia e Germania, tanto per rimanere nell’ambito europeo). Se a ciò poi si aggiunge il fatto che l’esperienza coloniale italiana, se messa a paragone con quella di altri paesi non ha lasciato quelle tracce, come ad esempio l’adozione di una lingua, che possono rivelarsi di grande aiuto una volta superate le barrire storiche, ecco che la insoddisfacente presenza commerciale oggi è frutto di errate scommesse fatte nel passato.
D’altronde basta osservare qualche dato tra i tanti che emergono, per vedere come ad ogni più piccolo innesto nelle economie locali, si raggiungano risultati in brevissimo tempo, di tutto rispetto. E non necessariamente nei campi dell’energia o delle costruzioni dove si devono fare i conti con i colossi internazionali. Tutto ciò dovrebbe far riflettere visto che la capacità italiana potrebbe manifestarsi su comparti diversi, come quello dell’agricoltura (magari biologica, non quella delle multinazionali) o quello più generale dell’alimentazione o ancora della manifattura dove già, ad esempio, una discreta presenza nei paesi nordafricani è storica. Anche se tutti continuano e cercare a puntare su tecnologia, energia ed infrastrutture , mercati questi che, forse includendo solo parzialmente l’ultimo, proprio grazie alla mancata sinergia tra politica, credito ed imprese, non può vederci protagonisti come forse anche meriteremmo per la qualità.
In realtà il vero obiettivo su cui puntare è un altro. Lo stimolo viene dato dalle succitate città fantasma che sta costruendo la Cina. Ebbene se la Cina non nasconde ma anzi incentiva la volontà di riempirle di cinesi non tenendo in nessun conto una crescita della popolazione locale, di fatto, molte delle infrastrutture che stanno costruendo, come autostrade o stadi, andranno in qualche modo riempiti e, pertanto, sarà inderogabile far sì che il livello di benessere di queste popolazioni cresca per poter attivare l’economia interna. E’ puntando prima degli altri su questo obiettivo, che pur non essendo un segreto per nessuno, viene artatamente rallentato per poter nel frattempo depredare a basso costo, che si possono invece costruire le base di scambi soddisfacenti e, soprattutto, duraturi. Da questo principio dovrebbe partire proprio l’Italia che, di fatto, non avrebbe nessuna politica da abbandonare né alcun tessuto creditizio da convertire.
Dovrebbe forse attingere più alla propria capacità e fantasia imprenditoriale che non a clichés coloniali che sembrano giunti alla tappa precedente il capolinea. Ed il capolinea sarà quando le autostrade, i ponti, gli stadi, i grattacieli costruiti ed inaugurati, resteranno vuoti. Ed una ulteriore marcia in più potrebbe arrivare proprio dallo strettissimo contatto che l’Italia ha con queste popolazioni, in forza di quel disastro che è l’immigrazione oramai divenuta una straziante invasione, costituendo laboratori e fucine di progetti che possano, anche direttamente nel nostro paese, sia preparare nuove forme di cooperazione, sia formare professionalmente tanta di questa gente a far sì che le loro terre non restino, per un tempo indefinito, terre di conquista, ma diventino nazioni amiche con le quali commerciare, scambiare cultura, crescere, in osservanza di quella parte buona della globalizzazione che pare, invece, completamente dimenticata.