Un passo avanti lo faremo quando cesseremo di confrontarci con un mondo ideale, le cui regole sono date dal diritto internazionale, in cui gli Stati non battono moneta ma la regolamentano in armonia, né sparano, perché siamo nell’era della globalizzazione in cui le frontiere non dividono ma affratellano. In cui gli lavorano gli uni per gli altri perché insomma ci sentiamo tutti europei. In cui noi italiani siamo amati da tutti per definizione perché siamo brava gente. Nel frattempo i diavoli di ieri diventano i paladini di oggi. La determinazione, da molti definita fascista, di poche settimane orsono, diventa provvidenziale decisionismo e, soprattutto, azione.
E così Vladimir Putin, zar delle Russie rimaste, diventa il novello Orlando, molto poco cavalleresco ma certamente sicario efficiente. E così dichiara la sua guerra allo Stato Islamico e ci fa vedere come, senza tanto tergiversare, si possa andare efficacemente per le spicce. In pieno stile russo. Un evento questo del tutto incidentale, un’operazione che avrà un suo prezzo da pagare ma che oggi vale tanto oro quanto pesa ed ottiene l’apprezzamento ed il riconoscimento di molta Europa. Ma non è gratuita. Ed il primo prezzo da pagare è stato lo spostamento del teatro di guerra: schiacciata nei suoi territori l’idra dell’Isis ci porta la guerra in casa, sapendo di trovare qui ventri molli e impreparati.
Per contro noi, italiani brava gente, non solo cerchiamo di assorbire l’urto delle migrazioni (insieme alla Grecia), oggi reso ancora più terribile dalla certezza (beato chi ne dubitava per gli evangelici benefits) che tra le decine di migliaia che arrivano si nascondAssadano anche i cattivi ma, oltre tutto, neanche ci indigniamo di fronte alle ipotesi avanzate dall’Olanda (per voce del proprio ministro degli Esteri, Bert Koenders) di una area Schengen limitata che ci vedrebbe esclusi insieme agli altri Paesi che guardano il Mediterraneo ovvero quei paesi destinati geograficamente ad assorbire il primo impatto dell’invasione migratoria. Alla faccia del “ci sentiamo tutti europei”, oltre che essere Charlie, Paris, ecc. ecc.
Ma noi resistiamo e continuiamo ad essere “italiani, brava gente”. Così Putin che fino ad oggi ha riempito le prime pagine dei giornali italiani per la sua intolleranza agli omosessuali, per gli attacchi contro la “libertà” in Crimea ed Ucraina, per il suo appoggio al regime del cattivo Bashir ( n.d.r.), non solo si mostra forte in Patria dove il consenso nei suoi confronti è ancora molto vasto (posizione che nessun leader europeo può vantare) ma riesce con una sola mossa a farci dimenticare tutte queste sue intolleranze alla nostra nuova patina di civiltà e, addirittura, non solo a diventare simbolo e modello da seguire (financo conquistando consensi sulla sempre ipercritica rete internet) ma togliendosi pure la soddisfazione di cantarcele chiare e tonde come in occasione dell’ultimo G20 ad Antalya dove, per chi non avesse prestato attenzione, ci ha tranquillamente ricordato che chi semina pioggia raccoglie tempesta, facendo nomi e cognomi, beninteso.
Ma in questo momento tutto ciò appare secondario; ci ammazzano in casa e quindi benvenuto sia chiunque se ne va a debellare la presunta origine del male. Avremmo accettato anche una invasione cinese. Noi. Un poco meno avremmo accettato gli americani (e lo sanno) visto che è dal 2001 con la prima guerra in Iraq che francamente non fanno che combinar casini e poi andarsene lasciandoci alle prese con situazioni irrisolte, almeno ufficialmente, oltre, fatto non secondario, a chiamarci di continuo in presunte coalizioni.
Vldimir fa da solo, si prende le sue belle responsabilità e non sta a tentennare. Vladimir tutto questo lo sa bene lo sa bene e forse, nel vedere lo sfacelo progressivo di una Nato incapace di reagire, gongola. Ma d’altronde visti i problemi di tenuta dell’Europa, ben difficile ci si può attendere che la Nato stessa sia capace di reagire. Così crescono le sue quotazioni che al borsino dei personaggi influenti e potenti, acquistano valore giorno dopo giorno. Noi, intanto, da buoni civili europei, intendiamo rispondere con la cultura (processo encomiabile ma pluriennale se non plurigenerazionale, un poco in contraddizione con l’urgenza del momento), fatto questo che tuttavia non ci impedisce di vantare – almeno per quanto riguarda l’italica industria – all’occhiello dell’export, un fatturato per la vendita di armi di circa 3 miliardi l’anno.
Ne sia testimonianza la recente intervista a Mauro Moretti, amministratore delegato di Finmeccanica che ci ha svelato come il vendere armi a paesi come Arabia Saudita che fa parte delle coalizioni occidentali non solo sia legale ma anche benedetto dagli Stati Uniti e che se poi da lì, come un colabrodo, le stesse armi passano in mano sbagliata (leggi Isis) non è affar nostro. Come dire che la responsabilità aziendale e direi anche la lungimiranza, hanno le gambe molto, molto corte. Anche se l’odore che sento, in verità, è quello di una sonora presa per i fondelli.
Non ci possono privare delle nostre abitudini e della nostra identità si sente recitare come un mantra in questi giorni. Beh, forse sull’abitudine di esportare certa mercanzia il mantra potrebbe fare una deroga. Così come sulla connivenza del mercato finanziario che a pieno regime – da che mondo è mondo peraltro – sui conflitti ci guadagna (le armi le vende anche la Russia questo è certo ma è altrettanto certo che non soffre di ipocrisia occidentale).
Ma anche Vladimir – Putin beninteso – non fa tutto questo per spirito francescano nei confronti dei poveri (di idee almeno), anzi, stabilisce un netto distinguo tra le opere terrene e quelle divine, dichiarando che “perdonare i terroristi è lavoro di Dio, il mio è quello di portarli al suo cospetto”, parafrasando qui una, peraltro falsa, dichiarazione che fu, al tempo della prima guerra in Irak, attribuita al generale Norman Schwarzkopf: “ I believe that forgiving them [Al Qaeda] is God’s function. Our job is simply to arrange the meeting”. E così non solo bombarda in Siria infischiandosene dei ribelli cattivi e di quelli – ultima questa fra le invenzioni di una Europa che invece di agire perde tempo a dare definizioni – “moderati” ma, oltre tutto, al contrario di Turchia e Francia, è l’unico ad avere il diritto di sorvolare quelle zone avendone avuta l’autorizzazione dall’attuale governo. Gli altri sono tutti abusivi e quindi in contrasto con quel diritto internazionale che invece sempre più vorremmo difendere visto che stavolta, ci farebbe comodo.
Nel frattempo fratello Barak (Obama ndr.) fa sentire anche lui la sua voce dichiarando anch’egli che non ci priveranno della nostra identità (che la sua e la nostra siano le stesse nutro severi dubbi, comunque sotto il cappello dell’occidentalità c’è posto per molti) e che li estirperemo come si fa con la gramigna nei campi. L’avevano già detto onestamente da Washington negli ultimi quindici anni non poche volte e questo non depone a suo favore. In più, sia chiaro, gli rode e non poco che, se mai Assad dovesse rimanere al potere, il debito che quest’ultimo ha contratto con Putin non potrebbe che risolversi, finalmente per loro, con una bella presenza della flotta russa nel mediterraneo visto che sicuramente, nel conto da pagare ci sarà, tra l’altro, l’agibilità totale e stabile dei porti di Latakia e Tartus, ristabilendo quindi quella presenza persa dall’ormai lontano periodo egiziano ai tempi di Nasser. E a Barak gli rode. Tanto. E non solo a lui. Ma noi in questo momento gli daremmo pure Taranto e Bari se ce li chiedesse.
In Europa nel frattempo spenderemo i prossimi mesi, se non anni, a cercare di contenere la paura (umana e legittima) velocizzando quel meccanismo di disgregazione già innescato dalla crisi economica (forse e forse no, ma riprenderanno i controlli anche alle frontiere che, messi insieme a certi muri già innalzati hanno un solo significato).
Vladimir tuttavia per il momento continuerà a far crescere le quotazioni sue e del suo paese che già su fronti decisamente più pacifici sta diventando crocevia obbligato. Si parla qui di energia ed in particolare del gas; il Turkish Stream rappresenta la possibilità di trasportare e quindi di vendere all’Europa 47 miliardi di metri cubi l’anno (una indagine della Izvestia rivela che il gas russo costa ai paesi acquirenti mediamente 0,40 euro al metro cubo. Una operazione dunque da circa 19 miliardi di euro l’anno). E se oltre tutto il “presunto” gas presente nel Mediterraneo e soprattutto nell’Egeo sarà disponibile in tempi biblici, una buona parte dell’Europa dipenderà in maniera sempre maggiore energeticamente dalla Russia visto anche il disastro combinato recentemente in Libia e, comunque, il prossimo esaurirsi dell’inquinante petrolio.
E laddove l’iniziativa russa potesse ancora essere guardata con sospetto per gli ancora permanenti pregiudizi ereditati dalla guerra fredda nonché dalla presenza sempre più traballante degli Stati Uniti (che negli ultimi anni non hanno saputo che esportarci una indicibile crisi finanziaria oltre a mettere sul tavolino nefandi accordi quale il TTIP), ecco che dal 2016 sarà operativa, con sede centrale a Shangai, la New Development Bank BRICS, ovvero la banca di sviluppo dei paesi dall’economia emergente, i BRICS appunto, dove la “R” sta per Russia (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Banca questa che tra fondi di garanzia e di investimento potrà contare su 100 miliardi di dollari.
Ecco dunque, laddove mancasse, un fiore all’occhiello nel mondo della finanza internazionale, mondo che come tutti sappiamo può permettersi di non considerare minimamente elementi etici o morali laddove si volesse attribuire a tale ricchezza una provenienza talvolta “sconveniente”.
E come se non bastasse ecco come da alcuni anni il turismo russo sia tra i più apprezzati, specialmente in Europa, le cui capitali fanno a gara ad accaparrarsi la presenza dei ricchi Ivan gonfi di denaro nonostante che nel 2014 il rublo avesse subito una pesante svalutazione (i dati ufficiali della Banca d’Italia del 2013 parlano di oltre 1 miliardo di euro spesi da turisti russi nella sola Italia). Senza dimenticare poi come l’Europa importi già dalla Russia, annualmente, beni per oltre 200 miliardi di euro secondo stime che datano sempre 2013. Per quanto riguarda l’Italia, oltre agli scambi commerciali, occorre non perdere di vista il fatto che la Gancia è interamente russa, così è russa la quota di maggioranza di Wind Telecomunicazioni e delle Acciaierie Lucchini spa; così è russo il 5% di Unicredit, così il controllo della raffineria di Priolo e poi per effetto del meccanismo delle aziende controllate, la Saipem fino ad arrivare ad un totale di oltre 90 grandi aziende italiane che dipendono dai capitali russi tra cui il 21% delle raffinerie Saras della famiglia Moratti. E chissà quante ancora sfuggite a questa sintetica ma emblematica lista che, per riguardo, lasciamo nei dettagli agli economisti ed agli analisti finanziari.
A ciò vanno aggiunte le partecipazioni eccellenti come ad esempio la fusione tra Rusal e Sual (entrambe russe) con la svizzera Glencore che ha creato nel 2007 il leader mondiale nell’alluminio. Ma anche questa lenta e, per adesso, inesorabile penetrazione nel nostro tessuto industriale in questo momento passa inosservata. D’altronde l’industria è sempre più finanza e come tale conta chi ha da investire e niente di più. Con buona pace del made in Italy o di quello che ne è rimasto visto che, anche senza i russi, non poche sono fino ad oggi le aziende che hanno, esprimendosi con un termine gentile, “delocalizzato” , ovvero, sua sponte, se ne sono andate altrove.
E i recenti avvenimenti non aiutano una riflessione su questo fenomeno. Se sommiamo invece la sempre maggiore presenza di investitori russi in Italia ed in Europa, l’allestimento imminente del gasdotto, la riconosciuta valenza finanziaria mondiale attraverso le iniziative dei BRICS ed in ultimo la recente operazione di aiuto nei confronti del terrorismo dell’ISIS unitamente al fatto di averci, relativamente a quest’ultima questione, colto in flagrante corresponsabilità, ecco che la Russia ed in particolare il suo zar Putin andranno da oggi visti con un occhio diverso, non necessariamente più accondiscendente a priori ma senza dubbio più critico e chissà, forse anche riconoscente. E ne andrà, inoltre tratta una lezione.
Non è questo il momento di valutare se l’azione bellica sia o meno la più idonea, certo è quella che storicamente sappiamo meglio condurre e se anche il dubbio che potesse essere quanto meno obsoleta o inefficace ha fatto sì che restassimo a guardare fin tanto che non siamo stati invasi da disperati e – ahimé – da malintenzionati, certo non avremmo potuto continuare a lungo in questa inazione mettendo accanto alle scarpe chiodate di Putin le nostre, inchiodate tanto da non fare un passo. E se poi le spese militari russe si accompagnano ad una situazione sociale costellata di servizi fatiscenti, la cosa – stavolta – poco ci tange.
Accanto a questo si possono poi fare tutte le possibile e raffinate valutazioni sui legami e gli imbrogli dei vari servizi segreti dei nostri paesi, sulle loro presunte e complottistiche operazioni che più di una volta nel passato ci hanno lasciato basiti. O potremo pure fare tutte le auguste valutazioni storico–politiche possibili per arrivare poi a scoprire che dall’inizio del ‘900 il petrolio di quelle regioni ci serviva ed abbiamo fatto di tutto per mantenerlo sotto il nostro controllo senza guardare tanto per il sottile. Milioni e milioni sono i morti in quelle zone non per mano ma sicuramente per arma occidentale (fra tutte la guerra tra Iran ed Irak negli anni ’80, costata oltre 1 milione di morti e sulla quale pesa il celebre scandalo Irangate). L’ultimo controverso paladino inglese che percorse il Medio-oriente fu forse l’ormai leggendario Lawrence d’Arabia (al secolo Il tenente colonnello Thomas Edward Lawrence) che vide prosaicamente crollare la sua riunificazione araba con l’accordo di Sykes-Picot che nel 1916 sancì una divisione delle influenze francesi ed inglesi in tutto il Medio-Oriente. Da allora non abbiamo mai mancato di essere presenti e di modificare secondo i nostri interessi le sorti di quella zona del mondo. Quale che sia stato il motivo per cui lo abbiamo fatto, di fatto così è stato.
Oggi, nei panni degli augusti mercanti, agiati, dalle mani curate, nel nido che reputavamo protetto, nel modo più tragico scopriamo che la nostra società è divisa tra chi non sapeva, chi crede che sic et simpliciter si possano mettere fiori nei cannoni altrui, chi propone di togliere dalla soffitta la fidata Durlindana, chi reputa decisamente sconveniente e indecoroso quanto sta accadendo e che ognuno se ne debba stare a casa propria, chi aspetta fiducioso le decisioni di Bruxelles perché non è affar suo, chi per ora non dice nulla ma comincerà a dare di matto quando dovrà presentare i documenti e farsi perquisire anche per entrare al supermercato, chi aiuta i profughi sulle coste di Lesvos e chi non ha più il coraggio di invitare il vicino mediorientale a prendere un caffè e chi, ostentando una calma olimpica, ci guadagna.
La realtà è che tra la gente comune nessuno ci credeva e, ad oggi, c’è ancora chi insiste dicendo che la colpa è della Francia e dei suoi passati, anche recenti, di interventismo e di colonialismo. Putin, santo subito – si sente da più parti affermare – visto che in questo momento ci rimane più simpatico del settimo cavalleria solo perché, del tutto incidentalmente, sta dando corpo alle rivendicazioni. Oggi si legge sui giornali che l’unica differenza rimasta tra Barak e Vladimir è quella relativa alla permanenza di Assad. In altre parole, tanto per cambiare, sono altri che decidono per noi. A noi per adesso la paura e dopo il conto da pagare. Dollari o rubli che siano, poco cambierà.