A cinque anni da quel 17 dicembre 2010 che avrebbe cambiato il Mediterraneo si può azzardare una riflessione, non tanto un bilancio, anche perché la rinnovata allerta rischia di confondere gli animi. Quella scintilla – il venditore ambulante, Mohamed Bouazizi che si dette fuoco, storia arcinota – racconta l’avvio di una rivolta anche se episodi simili c’erano stati: i tempi però erano maturi e oggi la Tunisia si conferma come l’unico paese del mondo arabo che ha compiuto un percorso di transizione verso la democrazia con un’autonomia e originalità che ha cercato, a fasi alterne, di recuperare la propria identità – quella di chiasmo tra popoli e religioni e di laboratorio di culture mediterranee – armonizzandola con il desiderio di un recupero della tradizione arabo-musulmano, tra qualche deragliamento e momenti di recupero.
“Incidenti” interni – due assassini politici e alcuni militari – a più riprese e due gravi attentati contro civili e turisti della scorsa stagione non hanno compromesso la volontà del popolo tunisino, tutto, di parte religiosa e non, di procedere verso una moderna democrazia: così è sembrato simbolicamente il 9 ottobre scorso con il conferimento del premio Nobel per la pace al cosiddetto Quartetto, importante perché esprime la vittoria della società civile e della cooperazione trasversale. Il lavoro delle tante associazioni restate nell’ombra, l’apporto dei movimenti femminili prima che femministi, rafforza il valore della rete e la presenza della Lega per i diritti dell’uomo, del sindacato dei lavoratori UGTT, della Confederazione dell’Industria e del Commercio e dell’Associazione degli avvocati sciolta negli anni del regime, rispecchiano gli slogan della rivolta hurrïah, karāmah e demokratïah: libertà di espressione e pensiero; dignità quale possibilità di accesso al mercato del lavoro da cittadino e non da suddito del partito unico e separazione tra il potere politico e giudiziario. Il percorso non è concluso ma in fieri e procede come ogni relazione umana tra alti e bassi. Su questo scenario incombe la minaccia del terrorismo che per la Tunisia è la rabbia di coloro che vedono la possibilità di un paese a maggioranza arabo-musulmana accogliente verso le istanze della modernità, democrazia, ed economia di mercato.
Il tasto dolente è il lavoro: la crisi congiunturale e l’impaurimento europeo, l’incapacità o forse l’inadeguatezza della politica interna al riguardo, hanno colpito fortemente il paese e soprattutto giovani. È così che la povertà rischia di diventare miseria, con il prevalere della solitudine, della rabbia e della fine della speranza. Nel disagio sociale interno dove anche i valori vacillano fa breccia il lato mafioso del terrorismo con fenomeni analoghi a quelli di certe zone del nostro paese, soprattutto in questi ultimi mesi. Su questa componente si può e si deve intervenire.
Il dramma dell’arruolamento dei terroristi soprattutto tra i giovanissimi è anche la garanzia della possibilità della cura: di un’infatuazione malata per il superuomo travestito da divino perché è indubbio che il popolo tunisino cerca una guida forte, rimasto orfano di un padrone non ancora sostituito da un padre autentico. E in questo interregno si annida il rischio di ogni pianta ancora acerba e non svezzata totalmente. Nella storia d’altronde all’indomani delle crisi, mai solamente economiche, si verifica puntualmente un tale delirio. La Tunisia è convinta – correttamente a mio parere – che non si tratti di una guerra ma di una forma globale di terrorismo che colpisce non uno o più bersagli ma tutti coloro che non si schierano da quella parte e quindi, paradossalmente, che unisce tutti gli altri. Una grande prova ed occasione per l’umanità di ritrovarsi. Da non perdere.
* Scrittrice, autrice di “Chiacchiere, datteri e thé. Tunisi, viaggio in una società che cambia” (Albeggi)