Pur senza addentrarsi in litigiose differenze tra “confederazione” e “federazione” di Stati, appare evidente come le uniche due aggregazioni che oggi, politicamente e giuridicamente, possono costituire elemento di paragone con questa Europa che sempre più sarebbe da apostrofarsi come “coacervo” o “accozzaglia”, sono gli Stati Uniti d’America e la Svizzera, altresì detta Confederazione Elvetica. Non vi sono al momento, al mondo, altri punti di riferimento.
Rovistando tra le documentazioni storiche, si reperta come sia gli Stati Uniti che la Confederazione Elvetica hanno mosso i primi passi redigendo un “patto eterno confederale”; in Svizzera nel 1291 tra i tre cantoni di Uri, Svitto e Untervaldo (homines vallis Uranie universitasque vallis de Switz ac communitas hominum Intramontanorum Vallis Inferioris); negli Stati Uniti nel 1777 quando vennero ratificati gli “Articoli della Confederazione e della Eterna Unione” (Articles of Confederation and Perpetual Union) tra le 13 ex-colonie britanniche fondatrici, articoli che poi costituirono la base della Costituzione completata nel 1787. Grande ambizione vi era in quell’appellativo di “eterno”.
Rifiutando gli appellativi già collaudati di Federazione o di Confederazione, la neonata (a confronto) aggregazione europea ha scelto quello più libero di “Unione”, volendo ad esso attribuire da una parte il significato di una alleanza, nella fattispecie commerciale, dall’altra lasciando così quel maggiore ed obbligato spazio che è stato necessario concedere a paesi che avrebbero dovuto far convergere il proprio DNA in una entità capace di compiere quell’enorme miracolo di indurre traiettorie storiche e politiche molto spesso divergenti, in un unico fascio di rette parallele e tendenti al medesimo infinito di benessere. Senza indugiare poi sul primo di questi appellativi che fu quello di “Comunità Economica” e volendo qui derubricare a prodromo l’ancor precedente MEC (Mercato Europeo Comune).
Con questa propulsione verso il benessere comune si misero all’opera coloro che alla storia sono passati come “padri fondatori” avendo – loro sì – il grande stimolo nell’essere un gruppo di sopravvissuti agli olocausti bellici della prima e seconda guerra mondiale e che pertanto, nell’auspicare unione di intenti, cercavano non solo di esorcizzare il pericolo di altre ecatombi ravvisando nelle anguste frontiere nazionali anche il germe di possibili e nefaste ricadute (senza poi pensare ai “pagherò” contratti con chi ci aveva tolto dai guai) ma, forti dell’esperienza vissuta, intravedevano negli sfolgoranti principi di pace, libertà e cooperazione, la base per un nuovo corso della storia.
Il resto è da tutti non solo conosciuto ma anche vissuto, anche se non parimenti compreso, accettato, metabolizzato. In buona sostanza la grande e lunga storia che contraddistingue ciascuno degli unionisti europei sembra più oggi elemento di divisione che non bagaglio di esperienza da mettere nel comun calderone per tentare di codificare quel radioso (se non eterno) futuro di benessere a cui non gli atti scritti (a differenza degli esempi sopra citati) ma almeno le parole, si era compreso potessero e dovessero far da riferimento.
Ed i radiosi anni ’60, colmi di speranza, costituirono terreno fertile e adatto a far sì che il germe europeista potesse essere piantato, annaffiato, vezzeggiato, coccolato. E fu scelta la più facile ed ovvia strada da seguire. In un continente da ricostruire furono inevitabilmente gli scambi commerciali ad essere oggetto dei primi accordi senza che, parimenti, iniziasse un vero ed ufficiale dibattito sulle possibili convergenze politiche, culturali e sociali tanto che, alle prime elezioni (le prime a suffragio universale beninteso) del Parlamento Europeo nel 1979, non un solo decimo della popolazione chiamata a votare vi si recò con cognizione di causa, ma lo stesso organismo fu eletto in base ad una delle propagande politiche più menzognere del secolo (almeno in Italia), sbattuto in un salone con un ordine del giorno tutto da inventare. Oggi stesso è molto più facile sentire parlare di rappresentanti che vanno a difendere gli interessi nazionali che non di rappresentanti che lavorano per una legislazione unitaria (quante volte i titoli dei giornali esordiscono con “il deputato europeo ….. è riuscito a far valere a Bruxelles le ragioni dell’Italia [o di altri paesi] in merito a …”).
Il più grande successo dell’Unione indiscutibilmente è la Bce e probabilmente, citando non pochi comici nostrani, è il caso di dire: “e con questo ho detto tutto”. Chiara dimostrazione dunque che gli sforzi fatti sono stati tutti tesi all’individuazione di possibili meccanismi finanziari che potessero funzionare comunitariamente (ne siamo sicuri?) a supporto dell’economia, nell’assoluta latitanza di ulteriori obiettivi comuni anche se proprio in materia economica resta, ancora oggi, da conciliarsi il grande ed ormai emblematico mistero della norma sulle quote latte (1984), antesignana di una lunghissima serie di analoghe perle normative che avrebbero dovuto rendere chiaro come fossero solo una lotta per la conservazione dei singoli interessi nazionali (altro che comunitari!) oltre che scellerato esempio della contingentazione della produzione al fine del mantenimento dei prezzi di mercato. Ciò non bastasse, in tutti questi anni, non è stato nemmeno attuato un percorso di protezione del mercato europeo sulle cui sorti anzi, pende quotidianamente qualche irrisolta controversia. Oggi ad esempio da una parte si dibatte sulla ratifica del famigerato Ttip e contro l’invasione ancora massiccia dei copiatori del mondo (leggi Cina) e, dall’altra, si continua a consumare l’estenuante lotta tra Dop, Doc, Docg ed altri orpelli legislativi che cercano non tanto di promuovere una sostenibile espansione, quanto di salvaguardare gli ultimi stracci di produzioni – spesso di eccellenza – lasciate allo sbando e comunque con il risultato di azzannarsi sul mercato interno dell’Unione, incapaci di offrire una organizzata offerta al resto del mondo.
Tornando alla cronistoria occorre registrare che in questo ordinato dissesto che comunque generò ed alimentò il proliferare delle speculazioni finanziarie al punto che oramai oggi è la finanza che guida in toto l’economia ecco che, per colpa di un ristretto ma potente branco di esaltati si giunse al 2008 ed alla crisi che tutti stiamo ancora vivendo.
L’Unione mostra definitivamente il proprio volto, palesa tutti i propri limiti, si iniziano a scoprire gli inganni, le beffe. Perde anche massicciamente la propria popolarità al punto che oggi, se escludiamo l’artificioso e fasullo meccanismo del Quantitative Easing (i cui effetti già si stanno manifestando in tutto meno che verso quello che doveva esserne l’obiettivo principale, ovvero una generale iniezione di liquidità nelle banche e quindi un abbassamento dei deficit statali, fatto questo rivenduto alle popolazioni come rilancio dell’economia), su tutto il resto vi è bagarre. Quotidianamente si apprende come ogni paese stia tentando di erigere le proprie personali barriere (anche fisiche) a difesa del proprio territorio, della propria economia (o di quello che ne resta). Si cerca di bloccare il flusso migratorio nello spazio delle frontiere altrui (dal Montenegro all’Inghilterra chi non ha adottato provvedimenti restrittivi scagli pure la prima pietra), si dà ossessivamente caccia al debitore senza concedergli tregua alcuna e asfissiando le possibilità che questi possa riemergere, ci si propone in politica estera come novelli paladini, salvo poi combinare certi pasticci come quello libico, per non parlar di Siria, di sanzioni alla Russia ed altre amenità . Nel contempo, nel tentativo di aumentare la massa muscolare e non già l’intelletto, si assiste, dal 2004 ad oggi, quindi negli ultimi dieci anni, al raddoppio dei Paesi aderenti, passando dai 15 ai 28 stati membri attuali, Paesi con i quali, sia consentito ammetterlo senza che questo nasconda alcun tipo di giudizio nei confronti degli stessi, le uniche possibili strade comuni ipotizzabili, sono quelle finanziarie e – anche se tutto da dimostrare – geopolitiche (salvo farci emigrare qualche altra azienda italiana per il minor costo del lavoro oltre a qualche migliaio di call center). Ma la unione se è solo quantitativa, non fa la forza, anzi, rende ancora più caotica l’aggregazione.
Facciamo dunque un passo indietro e stigmatizziamo alcuni concetti cercando di indagare sul grande equivoco. Il grande equivoco consiste nel fatto che per i più, l’Unione Europea dovrebbe essere una rivisitazione degli Stati Uniti o della Svizzera, ovvero un insieme di Stati che decidono di condividere leggi, non a caso è stata dotata di un Parlamento e non di un Cda. No. L’Unione Europea ha chiaramente dimostrato di essere un’entità che si nutre di accordi economico-finanziari costituita da paesi che non hanno, al momento, alcuna intenzione di condividere un possibile futuro su altri temi, quali che siano, temi nei confronti dei quali regna il caos più assoluto. Nel frattempo ci siamo svenduti quasi tutti la sovranità nazionale (intesa come indipendenza monetaria) rendendo quindi estremamente complessa ogni e qualsiasi diversa scelta il singolo stato volesse mai effettuare. In altre parole ci siamo legati mani e piedi, partecipando tutti attivamente – l’ignoranza ai piani alti non è da contemplarsi, mai – alle montature perpetrate al momento della nascita dell’Euro, nascita costellata di falsificazioni e di inganni sui quali spiccano le tormentate adesioni sia di Italia che di Grecia.
Uno dei nostri “grandi” prematuramente scomparso ebbe ad intitolare un suo film: “Credevo fosse amore invece era un calesse”. Credo in molti siamo ancora a cercare di assimilare questa realtà. Come dunque restare meravigliati se alle grandi sfide di questi ultimi anni l’Unione Europea si è dimostrata un campione di inadeguatezza? E forse la domanda va in qualche sorta rivoltata ed è più opportuno domandarsi: in virtù di quale legge o norma comunitaria si pretende che la Unione Europea sia capace di far fronte a certe collettive situazioni ben lungi dall’essere risolte? Con quali strumenti, visto che altro non è se non un’unione di interessi finanziari e, come tali, del tutto svincolati da ogni altra sollecitazione che non sia l’aumento del profitto per chi già ne fa (il profitto non lo si cede né lo si condivide, per principio)?
I grandi problemi comuni come l’immigrazione e la gestione dei profughi, la politica estera , la crescente disoccupazione specie giovanile, l’indebitamento degli Stati, per prendere solo alcuni esempi, sono già da soli esemplificativi della grande confusione che regna. Le decisioni collegiali, molto spesso subordinate ad interessi specifici ora dell’una, ora dell’altra Nazione, altro non sono che la dimostrazione di come la salute finanziaria dei singoli sia il parametro che veicola le scelte operate. Altri parametri sono del tutto secondari. Non si potrebbe, ad esempio, spiegare come la voce di una Olanda che conta 7 milioni di abitanti, sia ben più ascoltata di quella italiana che potrebbe essere urlata da circa 70 milioni di anime, se non attenendosi esclusivamente a dati monetari. Ma l’Unione, quale necessiterebbe oggi e quale in fondo (branco di creduloni!) ci auspicavamo di aver contribuito a far crescere, pur non avendo bisogno di una eccelsa dichiarazione di principi né di “patti eterni” sullo stile elvetico o statunitense, senza dubbio necessita di una base più ampia di comuni intenti che non un progetto finanziario che nel proprio Dna porta in sé la necessità di avere paesi ricchi e paesi poveri per poter prosperare. Ben lo sa la Grecia e con essa dovrebbero oramai saperlo tutti: per partecipare ad un consesso di forze finanziarie occorre essere forti. La propria debolezza serve solo ad aumentare la forza altrui ed il debito che ne consegue si paga calpestando ogni istanza sociale. Questa non è Unione ma un rapporto banca-cliente in difficoltà.
Tuttavia, un misero e piccolo seme di un processo di integrazione che non passasse unicamente attraverso le maglie dell’omologazione finanziaria in realtà questa Unione Europea l’aveva piantato ed è quel piccolo gioiello dell’Area Schengen (1993) che dà non solo nella forma ma anche nei fatti, l’idea di una allargata libertà, anche personale. Oggi, a fronte dei conti che la miopia e l’inattività politica ci presentano, la sua permanenza viene messa fortemente in discussione (anche se nel caso specifico si potrebbe parlare di puro e semplice conflitto di interessi tra paesi ricettori dei flussi migratori e non …). Dovesse l’Area Schengen subire anche la più piccola limitazione, sarebbe il segno incontrovertibile che questa Europa ha finito il proprio ciclo con l’ennesima dimostrazione che tutto ciò che diventa “instabilità non autorizzata”, tale cioè da sovvertire l’attuale disequilibrio che al contrario è perfettamente controllato dai centri finanziari (perché sono loro stessi che lo alimentano), deve essere cancellato, costi pure la libertà.
Chi dunque domanda un’altra Europa, finalmente Europa, sappia che al percorso che avremmo dovuto iniziare a seguire insieme ai padri fondatori ci sarebbe oggi da aggiungere il doloroso fardello di doversi svincolare dalle maglie di una gestione finanziaria alla quale tutto o quasi abbiamo già delegato. Non a caso chi più fortemente minaccia di svincolarsi sono quei Paesi che non hanno adottato l’euro. Per gli altri sarebbe un doppio enorme sacrificio che le odierne società dei diritti (e dei pochi, anzi pochissimi doveri) ben difficilmente sarebbero in grado di sopportare. La Grecia, per poco non aveva trovato il grande coraggio di cimentarsi in quello che sarebbe stato un passo epocale e la fine della Unione Europea. Ed al netto di certe esternazioni ultime dell’eclettico Varoufakis al quale occorre – come agli altri d’altronde – fare la debita tara, secondo il quale solo il ricatto “di Berlino” ha impedito l’uscita greca dall’euro, certamente chiunque voglia provarci dovrà, con Berlino, farci i conti comunque.
Ma il male, si ricordi, non è l’Europa. L’Europa è lo specchio di ciò che siamo come per tutte le invenzioni dell’uomo.