Tanti auguri Europa, ecco cosa festeggiare e cosa cambiare

eurocrisidi Enzo Terzi 

Il 9 maggio dicesi sia la Giornata dell’Europa in un avvicendarsi di date molto autoreferenziale, deciso dai vertici delle organizzazioni europee.

Fino al 1964 infatti tale giornata era celebrata il 5 di maggio, a ricordo del giorno in cui  venne fondato il Consiglio d’Europa, in piedi dal 1949, frutto del Trattato di Londra ed emanazione dell’ormai idealmente lontanissimo congresso dell’Aja del 1948, riunione questa alla quale presero parte personaggi quali Konrad Adenauer, Winston Churchill, Walter Hallstein, Harold Macmillan, François Mitterrand, Paul-Henri Spaak, Albert Coppé e Altiero Spinelli, padri fondatori in vita, irrequiete anime senza riposo dopo la morte.

Forse, rendendosi conto che non era il caso di riproporre de facto annualmente lor signori quale simbolo per la giornata europea  (in molti abbiamo creduto, ingenuamente sic!,  ad un vago accenno di vergogna)  la Comunità Economica Europea, dopo un periodo di onestà vacante,  nel 1985 decide di riproporre la celebrazione indicendola per il 9 di maggio di ogni anno.

Non è a tutti palese – come spesso succede a noi popolo del “consuma e getta” – cosa abbia indicato la scelta di questa nuova giornata. Ed ancora una volta, la curiosità di andare ad indagare sulle ragioni dei simboli, non tradisce.

Ebbene con questa nuova data si vuole ricordare il 9 maggio 1950, giorno in cui a Parigi, l’allora ministro degli Esteri Francese, Robert Schuman, declamò quello che viene considerato il primo discorso politico inneggiante all’unione economica dell’Europa. Come tale, viene considerato il primo passo verso l’integrazione europea. Poco meno di un anno dopo, il 18 aprile 1951 nasce, almeno sulla carta, la Ceca acronimo della dimenticata Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, con lo scopo di metter in comune la produzione di Belgio, Francia, Germania Occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi.

Tale Comunità, o meglio, il discorso che la ispirò, chiarisce le premesse in modo inequivocabile. Non si trattava unicamente di rafforzare ed “ottimizzare” (diremmo oggi) una particolare ed importante produzione, quanto di scongiurare quello che fu, in quella sede, definito uno dei principali ostacoli alla pace nel continente. Così si recita: “L’unione delle nazioni esige l’eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania: l’azione intrapresa deve concernere in prima linea la Francia e la Germania. […]La fusione della produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime”. In parole povere care Francia e Germania, affinché con il carbone e l’acciaio non continuiate di nascosto a costruirvi cannoni e bombarde, mettete insieme la vostra produzione così, non solo smettete di darvele ad ogni piè sospinto ma, e soprattutto, evitate di coinvolgere nelle vostre beghe il resto del continente. Non a caso, subito dopo, Schuman prosegue: “La solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà si che una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile”. In pratica vi controllate a vicenda.

Unfinished European Union Flag puzzle

L’offerta era ovviamente aperta tutti i paesi che avrebbero desiderato parteciparvi: l’Italia di Alcide De Gasperi vide in questa ipotesi di Comunità una speranza per risollevare la disastrata economia italiana, il Regno Unito, pur stremato dal conflitto, con una lungimiranza che proveniva dall’aver per secoli gestito uno dei più grandi imperi del mondo, ovviamente non aveva nessuna intenzione di andare ad unirsi né a coloro che aveva bombardato fino a pochi anni prima né ad un insieme di altri paesi che stentatamente cercavano di uscire dall’assistenzialismo del piano Marshall.

L’appello di Schumann era in ogni caso lungimirante e per stimolare gli animi, infatti, incalza: “Sarà così effettuata, rapidamente e con mezzi semplici, la fusione di interessi necessari all’instaurazione di una comunità economica e si introdurrà il fermento di una comunità più profonda tra paesi lungamente contrapposti da sanguinose scissioni”. E se per caso ci si fosse posti la necessità di avere altre e più ampie motivazioni che non fosse il solo ed unico obiettivo di tenere a bada tedeschi e francesi ecco che ci rassicura: “L’Europa potrà, con mezzi superiori, perseguire la realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano”. Peccato che la descrizione dei restanti “compiti essenziali” sia stata dimenticata.

Segue l’appello di Schuman, dettagliando i termini di questa fusione dal vago sapore futurista e, per rendere malleabili anche i più riottosi dà indicazione di quello che sarà l’elemento fondante della Burocrazia Europea (che come sappiamo non allevia quelle nazionali ma anzi le aggrava di amene difficoltà). Prelude infatti alla costituzione di una “Alta Autorità”: “L’Alta Autorità comune, incaricata del funzionamento dell’intero regime, sarà composta di personalità indipendenti designate su base paritaria dai governi; un presidente sarà scelto di comune accordo dai governi; le sue decisioni saranno esecutive in Francia, Germania e negli altri paesi aderenti. Disposizioni appropriate assicureranno i necessari mezzi di ricorso contro le decisioni dell’Alta Autorità. Un rappresentante delle Nazioni Unite presso detta autorità sarà incaricato di preparare due volte l’anno una relazione pubblica per l’Onu, nella quale renderà conto del funzionamento del nuovo organismo, in particolare per quanto riguarda la salvaguardia dei suoi fini pacifici. L’istituzione dell’Alta Autorità non pregiudica in nulla il regime di proprietà delle imprese. Nell’esercizio del suo compito, l’Alta Autorità comune terrà conto dei poteri conferiti all’autorità internazionale della Ruhr e degli obblighi di qualsiasi natura imposti alla Germania, finché tali obblighi sussisteranno”. Così Robert Schuman, anch’egli come il suo augusto quasi omonimo (aveva una “n” in più nel cognome), se la scrisse e ce la suonò in quel 5 maggio 1950 dove l’incubo di un nuovo conflitto era visto peggio di una epidemia di peste nera.

Il 27 febbraio 1953, due mesi prima che venisse attivata la Ceca, venne siglato a Londra il Abkommen über deutsche Auslandsschulden e Londoner Schuldenabkommen, ovvero l’accordo in base al quale il debito contratto dalla Germania per i danni causati nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale, vennero decurtati circa del 50%. Dopo tale decurtazione la Germania ha finito di pagare il 3 ottobre 2010, ovvero a distanza di 57 anni dall’accordo stesso, come riporta con onestà che va riconosciuta, ad esempio il magazine Stern: “Bei der Wiedervereinigung summierten sich die Zinsrückstände […] auf 239,4 Millionen D-Mark. Diese Ansprüche wurden fortan abgegolten – über Fundierungsschuldverschreibungen mit einer Laufzeit von 20 Jahren – bis zum 3. Oktober 2010.Nur soviel wird kundgetan: Nach 92 Jahren ist am 3. Oktober das Kapitel Erster Weltkrieg nun auch endgültig finanziell abgeschlossen. Die letzte Rate aus der Kriegsschuld wurde getilgt” (Con la riunificazione, gli arretrati di interesse sono stati pari a 239,4 milioni di marchi tedeschi. Questi debiti sono stati pagati dalla società  attraverso le “obbligazioni di consolidamento” con scadenza a 20 anni – fino al 3 ottobre 2010.  Alla fine si può confermare: dopo 92 anni, il capitolo del debito della prima guerra mondiale, il 3 ottobre si è finanziariamente concluso. L’ultima rata del debito di guerra è stato rimborsato). Questo piccolo paragrafo, apparentemente fuorviante vuole fissare invece l’attenzione su una data proveniente da fonte tedesca: “dopo 92 anni”, datazione questa che tornerà utile nel corso della riflessione.

Torniamo dunque al nostro “simbolo” del 9 maggio nel tentativo di trovare un legame che non sia quello effimero, superficiale e facilone dell’essere prodromo alla unione Europea. In realtà se veramente si fossero avverati  quegli scenari che Schuman faceva intravedere come lontani ma possibili, potremmo oggi parlare di miracolo.  Al contrario viene da pensare che non solo su argomenti estranei al controllo (perché in realtà di tale si trattava) del carbone e dell’acciaio, l’attuale Comunità europea non riesce a dividere alcunché ma anche in temi industriali, quella che doveva essere una unione per la forza si è trasformata – con il contributo di ragioni esterne all’Europa stessa – in una accesa competizione e concorrenza. In breve (e qui mi ripeto avendolo sottolineato in altro intervento), si realizza il contrario di quanto avvenuto negli Stati Uniti d’America, esempio se non altro di federazione tra Stati che funziona egregiamente tanto da imporsi agli occhi del mondo (anche troppo, ma questa non è colpa loro).

schaeubleCome unico terreno condivisibile nel 1950  – ma solo perché avrebbe potuto rappresentare un deterrente per certi ardori bellici –  la gestione di carbone e acciaio senza nessun altro principio o intento se non una smania di prevenzione da condividere, è stato il pilastro su cui abbiamo cercato sia di dare dimora  alle utopie dei cavalieri dell’Aja, sia di sorreggere tutta la fantasmagorica sovrastruttura  che negli anni abbiamo implementato fino ad oggi. E sì che sia il fresco ricordo del conflitto, sia le ottimali condizioni che – volenti o meno – si verificarono al momento in cui vi fu un intero continente da ricostruire, avrebbero potuto far nascere ben più solidi terreni di incontro. Ma così evidentemente non era. Senza pensare poi alla inquietante affermazione (indiscutibilmente francese) che continuava a segnalare come fonte di risorsa e di approvvigionamento il continente africano, secondo una logica coloniale che, con quanto sta succedendo oggi, come ultima delle conseguenze di tali politiche imperialeggianti, dovrebbero forse  indurre a cercare simboli più convenienti per la giornata europea. A meno che questa – sic! – non sia la nostra veritiera natura.

In sintesi, il simbolo per la nostra giornata europea ci ricorda come  nei fatti l’Europa nacque facendo una commistione tra necessità economiche e finanziarie e paura, e l’accordo della Ceca soddisfaceva entrambe queste esigenze.  Senza dubbio tra gli effetti collaterali vi era la volontà, soprattutto francese, di togliersi di dosso “l’aiuto americano” che stava iniziando a costar salato. Il prezzo da pagare, sempre e soprattutto per la Francia, fu quello di aderire alle richieste statunitensi di non reprimere la Germania ancora una volta con un debito impossibile, memori che il nazismo aveva attecchito in una nazione stanca ed impoverita dalle condizioni impostegli per riparare ai danni fatti con la Prima Guerra Mondiale. E così fu: a febbraio 1953 il debito tedesco venne dimezzato e due mesi dopo mosse i primi passi la Ceca che avrebbe dovuto fare di due secolari e giurati nemici, due amiconi per la pelle.

Oggi, 2016, “festeggiamo” il 9 maggio con un’Europa che più che mai è sul punto di implodere: la situazione greca (qui voglio ricordare i 92 anni che affermano i tedeschi di aver impiegato a restituire un debito oltre tutto dimezzato, visto che il Sig. Schaeuble continua a fare orecchi da mercante); la situazione spagnola che da mesi oramai senza guida politica si avvicina ad una tornata elettorale che potrebbe riservare curiose sorprese, senza dimenticare le istanze separatiste che fanno quasi venir da ridere (da un lato il loro governo vuole pensare “europeo” ed in piazza se le danno di santa ragione per tornare alle condizioni di quattro secoli fa); sulla situazione italiana stendiamo un velo pietoso.

Symbolbild zum drohenden Brexit nach der von David Cameron angestrebten Volksabstimmung in Großbritannien zum Verbleib in der EU Europäische n Union: erodierende Flagge der EU und Facebook Dislike mit Daumen nach unten und Union Jack Symbol image to threat after the from David Cameron desired Referendum in UK to Remaining in the EU European n Union Eroding Flag the EU and Facebook dislike with Thumb after below and Union Jack

Ci siamo adottati lo slogan del “muoia Sansone con tutti i filistei” ed a quello ci aggrappiamo sapendo che un nostro dichiarato default travolgerebbe quel poco che resta; ultimo ma non ultimo, il dilemma britannico. La perfida albione sta giocando con molta flemma in questo periodo preparatorio al voto. Intanto elegge un sindaco pakistano-integrato a Londra volendo prendere anche sdegnosamente le distanze dal resto dell’Europa che alza muri e muretti e facendo capire che non si può certo insegnare a chi ha avuto un impero per mezzo millennio (per l’appunto l’ultimo, non come quello romano  che risale a duemila anni fa o quello bizantino, altrettanto vecchiardo) come ci si deve muovere in termini di integrazione. Dall’altro si evitano alleanze troppo dichiarate sia con i falchi berlinesi e rapaci affini (olandesi e via discorrendo), sia con gli allegri mediterranei, abborraccioni e senza stile. La City nel frattempo, unico fondamento che potrebbe avere da perdere in una eventuale separazione, si sta preparando mentre, per dare giusto in pasto qualcosa alla pubblica richiesta di sangue, si scopre una marachella panamense del primo ministro, cosa questa che se non fosse per il non ancora sopito senso “prude” tutto anglosassone, neanche avrebbe potuto occupare i trafiletti in ventesima pagina dei quotidiani regionali. Pragmatismo: questa è la parola d’ordine, la stessa con cui dall’isola si è governato su mezzo mondo. E questa è qualità che non si apprende a scuola, ma con secoli di esperienza.

Quale corollario a queste situazioni più appariscenti vi è, come dicevo, il fiorire di muri, muriccioli, staccionate e siepi, tutto perché il ripristino della linea Maginot o di tratti della cortina di ferro sono troppo onerosi. Come tampone a questa indecenza se ne commette un’altra, peccando mortalmente di ignavia, insulsaggine e incapacità: si promettono 6 miliardi alla Turchia  affinché ci blocchi l’esodo. Molto astutamente (d’altronde anche qui la Sublime Porta potrebbe dare non poche lezioni di fine tessitura delle trame politiche), il turco monarca ha fino ad oggi ben instradato i disgraziati siriani, prima spolpandoli  fino all’ultimo spicciolo (mi raccontavano amici di Smirne di quanto fosse fiorito il mercato di gommoni, salvagente e motori di seconda mano ….) e poi indirizzandoli verso il miraggio di una Europa unita, civile, ricca, preparata e solidale, ma in quantità tali che a Vienna, con ancora vivo nella memoria l’assedio turco del 1683, hanno iniziato a parlare di erigere difese, mentre i più impulsivi e grezzi balcanici, hanno tirato su fili spinati e cavalli di Frisia oltre a dar giù di randellate su tutte le schiene a portata di mano. Pecunia non olet e così pur turandoci naso, bocca, occhi ed orecchie, abbiamo elargito la terribile promessa di pagar il turco mastino, così come d’altronde facciamo dal 1948 pagando altri mastini sempre in quella terribile zona, divenuta una unica frontiera tra il blasonato occidente ed il rozzo islam, là dove ancora le teste si tagliano con le spade e i coltelli e non come da noi che la gente la si ammazza o la si induce al suicidio con  i soldi, la mancanza di  lavoro e la banca che ti prende la casa, cercando oltre tutto di farti passare per scemo.

Buona festa a tutti. A me il 9 maggio piace più ricordare la figura di Thomas Blood che, nel 1671, travestito da ecclesiastico, tentò di rubare la Corona d’Inghilterra dalla Torre di Londra. Pare sia stato catturato immediatamente perché troppo ubriaco per correre con il bottino. Verrà in seguito condannato a morte e quindi “misteriosamente” perdonato e inviato in esilio da Re Carlo II. Posso almeno sorriderne senza timore.

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