Ricorrono gli ottanta anni dalla morte di Luigi Pirandello, e un secolo dalla stesura di Uno, Nessuno e Centomila: anniversario questo non da ricordare necessariamente ma, quanto meno, tale da fornirci l’occasione di un ripasso (sono queste letture molto spesso legate agli anni di scuola) con l’intento di sancire come le opere sono grandi anche, e soprattutto, per il continuo rinnovarsi della loro contemporaneità.
Il titolo stesso di questo ultimo romanzo pirandelliano ci indirizza non solo a seguire una vicenda dai marcarti tratti psicologici se non addirittura psicoanalitici, ma ci accompagna a quella inevitabile conseguenza cui aveva portato l’esperienza verista, ovvero d’indagare tra le pieghe dei caratteri dell’essere individuo (eravamo negli anni venti del ‘900) in quel gioco di specchi che in cui si trascina l’eterno dilemma sulla credibilità della verità su cui già altri, in modo genericamente più popolare erano avevano posto, letterariamente, l’accento.
Il più celebre antesignano fu Jean de la Fontaine, autore francese del ‘600 che aveva, attraverso la metafora delle sue favole (peraltro in parte di tradizione esopica), posto l’attenzione sulla complessità dell’essere individui, complessità poi ben definita da Alphonse Karr (giornalista e scrittore francese dell’800) che, nel suo racconto “Voyage autour de mon jardin” (Viaggio intorno al mio giardino), espressamente scriveva: “Chaque homme possède trois caractères: Celui qu’il montre, celui qu’il a, celui qu’il croit avoir”, ovvero “ciascun uomo ha in sé tre caratteri: quello che mostra, quello che ha e quello che crede di avere”. Un tema dunque non nuovo che certo altri – in tempi ancora più lontani – avevano in qualche sorta avvicinato e che Pirandello ha poi definitivamente stigmatizzato indicandoci chiaramente come ciascuno in realtà sia: Uno perché ogni persona crede di essere un individuo unico con caratteristiche particolari; Centomila perché l’uomo ha, dietro la maschera, tante personalità quante sono le persone che ci giudicano; Nessuno perché, paradossalmente, se l’uomo ha 100.000 personalità invero non ne possiede nessuna, nel continuo cambiare non è capace di fermarsi nel suo vero “io”.
E’ l’indagine sul singolo che più familiarmente si può definire come l’indagine su ciascuno di noi. Chi non si è mai posto nel corso della vita la domanda circa il perché dagli altri viene visto in maniera diversa dal proprio sentire? Un’occasione mondana, una di lavoro o anche più concretamente la radice di un dissidio familiare celano spesso questo equivoco vitale che ci induce talvolta a tenere un certo comportamento nell’apparente sicurezza che sarà riconosciuto per come lo vorremmo facendoci cadere invece, spesso, in errore.
Pirandello non arriva a dedicare un intero lavoro – forse il più complesso – a questo tema, senza averci dato nei romanzi precedenti alcuni cenni indicatori di questo rapporto tra l’individuo e la propria verità: già in “Il fu Mattia Pascal” la pesante condizione che impone di essere ciò che la società vuole che si sia, rende arduo liberarsi da simili catene ed in “Così è se vi pare” (qui già il titolo fa l’occhiolino ad una indagine più mirata) il Signor Ponza – uno dei protagonisti – guardando la propria immagine allo specchio, come un alter ego, si chiede: “Eh caro! chi è il pazzo di noi due? Eh lo so: io dico tu! e tu col dito indichi me. Va là che, a tu per tu, ci conosciamo bene noi due. Il guaio è che, come ti vedo io, gli altri non ti vedono… Tu per gli altri diventi un fantasma! Eppure, vedi questi pazzi? senza badare al fantasma che portano con sé, in se stessi, vanno correndo, pieni di curiosità, dietro il fantasma altrui! e credono che sia una cosa diversa” (immagine questa che ricorda molto il racconto “L’horla” di Maupassant).
Vitangelo Moscarda, protagonista di “Uno, nessuno e centomila”, ci apre alla consapevolezza che in ciascuno di noi convive queste triade di entità (la si potrebbe quasi definire una laica trinità) e nel vano tentativo di far prevalere ora l’una ora l’altra o l’altra ancora finirà per diventare, ahimè, pazzo. Ma sarà proprio la follia che gli permetterà di scardinare quelle regole ferree che aveva invano tentato di addomesticare facendo conto sulla vana, umana possibilità di essere compresi. E’ la fine di ogni concetto oggettivo, la fine della verità unica. Le visioni comuni e le condivisioni sono incidenti casuali di percorso, episodiche comunanze di interesse.
Se dunque occorre una continua mediazione tra questi tre “io differenti” che ci compongono e ci completano è altresì vero che la convivenza sociale, sia essa relativa all’alveo familiare, alla piazza cittadina o all’appartenenza ad un Paese, richiede prepotentemente che altri valori emergano, si assumano l’onere di fare da calmiere, ci conducano ad una dialettica che non sia il perenne conflitto cui l’aveva ridotta Vitangelo Moscarda. E se tale convivenza interna a ciascuno di noi – per quanto vissuta spesso in modo non cosciente – sembra essere un processo talmente personale da precluderne l’accesso agli altri in quanto, come tali, rappresenterebbero una delle tre identità che ci compongono, in realtà, la capacità di addivenire alla catarsi, al cambiamento in una nuova forma di consapevolezza umana dove la verità non è né personale né statica ma elemento in continua evoluzione, è ipotizzabile solo se i dubbi dei “centomila” diventano fonte di accrescimento e di forza.
Farsi una ragione che in comune ai miliardi di umani che ci circondano c’è la stessa ricerca, può (e dovrebbe) portare a comprendere– se non altro inizialmente per una gretta forma di interesse personale – che l’esperienza altrui è fonte di aiuto. Una sorta, diremmo oggi, di brainstorming incidentale che seppur non arrivasse a quelle risposte che probabilmente vengono richieste solo dalla insicurezza personale di ciascuno o, quanto meno, dalla relatività che accompagna il nostro pensare (non esisterebbe il bello se non avessimo la cognizione del brutto), ci darebbe la consapevolezza che una universale e condivisa condizione merita che si guardi l’altro con il rispetto dovuto a chi condivide la stessa sorte e non come ad un nemico che ostacola il proprio personale microcosmo.
Pirandello stesso, attraverso le angosce di Vitangelo Moscarda ha ben dimostrato come concentrarsi pervicacemente sull’affermazione della propria e singola verità porti all’incomunicabilità e, per conseguenza, alla solitudine. Lascerà così i suoi personaggi giungere drammaticamente alla pazzia. Così farà non solo il Moscarda ma anche il nobile protagonista dell’Enrico IV. Ma esistono altre strade legate alla civiltà o, se non ad essa, legate ad una diversa lettura del presente.
La pazzia pirandelliana, infatti, è solo un avvertimento a ravvedersi e, rapportandosi a quel tempo (ma senza dubbio alcuno anche al nostro), una forma di contestazione: se devo essere ciò che la società mi impone preferisco la pazzia non come estrema ratio ma come condizione di protesta. E con essa la solitudine. Quella sottile nella quale ci chiudiamo volontariamente, senza clamore: in fondo non costa fatica alcuna ed anzi, in qualche modo, acquieta la coscienza. Quella delle serate passate ad una delle oramai innumerevoli tastiere che abbiamo adottato come compagnia. Tastiere che non suonano ma che, obbedienti, rispondono e trasmettono in ogni dove (chissà dove poi) ciò che una sempre più angusta visione del circostante, personale ed elaborata unicamente come spettatori e non come protagonisti, tentiamo di far assurgere a nuova verità. Sono le nuove illusioni, subdole e accattivanti, il cui regresso si mostra nella più largamente diffusa intolleranza a tutto, nell’accettazione della solidarietà “mordi e fuggi” che è surrogato di pronto soccorso e non programma articolato di ricongiungimento con umanità disastrate.
Così vincono ancora pirandellianamente i Centomila ai quali per un malcelato narcisismo (una su tutte si eleva la figura dell’influencer sui social) cerchiamo in fondo di piacere rincorrendo l’orgasmo virtuale che ogni realtà riesce a sublimare, compresa l’infinita solitudine in cui tutto e tutti non sono elementi di discussione e di confronto, ma entità asservite al compimento di questo nuovo mondo la cui sostenibilità apparente è droga che sostituisce la passione. Proprio Pirandello-Moscarda afferma: “Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi”.
Ma anche la continua ricerca di definizione della realtà è fatica, in fondo, sprecata: “La facoltà d’illuderci che la realtà d’oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall’altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d’oggi è destinata a scoprire l’illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita”.
Ciò che conta è dunque la strada che ognuno di noi costruisce per accogliere il progredire della vita: è imperativo scegliere se agire o aspettare post e messaggi che ci annuncino l’accaduto per quella forma di prudenza che abbiamo saputo portare al sublime stato della non ribellione e della rinuncia. O la si percorre o si osserva la corsa altrui. Non ci sono giorni né da leoni né da pecore, come Pirandello stesso ci ricorda: per essere eroi spesso basta l’attimo di una occasione, per vivere una vita in onestà (con se stessi e con gli altri) è molto più arduo e insidioso.
Quanto dunque, questo il nucleo della questione, ciò che intorno accade è responsabilità altrui dalla quale è sufficiente confrontarsi con un dissenso passivo e quanto invece la congerie dei compromessi che abbiamo accettato, soprattutto con noi stessi, è parte integrante di questa responsabilità?
Abbiamo, la storia ci insegna, riportato l’uomo al centro dell’universo, fors’anche con un generoso atto di presunzione. Ma se vi abbiamo riportato l’uomo, nella realtà è ciascuno di noi che è al centro dell’universo, anche solo per la piccola idea personale che ha di esso. “Quando tu riesci a non aver più un ideale, perché osservando la vita sembra un enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai; quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò l’abitudine, che non trovi, e l’occupazione, che sdegni – quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore – allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza casa, un uccello senza nido”.
Duole spesso riflettere sui propri comportamenti cercando in essi il seme della responsabilità non solo dei nostri fatti ma anche per quanto più estesamente ci accade d’intorno. Duole e affatica comprendere che ciascuno è sì influenzato dai centomila ma, a sua volta, ne è anche protagonista e come tale è condannato dalla vita ad essere attore e non pubblico anonimo.
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