Di Enzo Terzi
Cadono inesorabili gli anniversari, i centenari e, via dicendo, tutte le date che inducono alla commemorazione o, se non altro al ricordo e, talvolta, alla scoperta di personaggi che, seppur passati alla storia nel silenzio assoluto, in realtà hanno, nel corso della loro vita, talvolta inconsapevoli se non della convinzione dei propri principi, offerto dedizione e impegno al compiersi di eventi straordinari.
E’ il caso questo di Vincenzo Giordano Orsini, nato il 14 gennaio 1817 (ecco dunque il bicentenario), ufficiale dell’esercito borbonico, poi garibaldino e ancora mazziniano, esule in Turchia (dove qui pure guadagnò i gradi di ufficiale) e infine Sindaco di Napoli. Tutto ciò in quel periodo dal 1848 al 1866 che narra di quei fondamentali avvenimenti che portarono all’Unità d’Italia. La storia non può annoverarlo tra i massimi protagonisti, pur tuttavia per la sua attività molteplice, quale intellettuale, quale ufficiale combattente e poi come politico, incarna esattamente la figura del rivoluzionario ottocentesco: figlio di buona famiglia, critico ed attratto dalle notizie francesi (seppur sopite nella restaurazione) e da quello spirito libertario (e anche massonico) perseguito da Mazzini, sicuro che i tempi fossero maturi per grandi sommovimenti e sedotto da quei concetti quali unità e libertà che si confondevano e si compenetravano l’un l’altro, giovanilmente abbagliato dal fascino del segreto carbonaro e dal profumo del rischio, offrì tutto di sé ad una causa che poi, amaramente e dolorosamente, vide concretizzarsi in tutt’altra fatta da quella immaginata e tanto perseguita. A testimonianza del silenzio che avvolge la sua figura, chiare e tonde sono le parole di Leonardo Sciascia che in “Pirandello e la Sicilia”, a proposito delle celebrazioni del 1960, narra: “Nessuno, nello sperpero di celebrazioni (e, naturalmente, di quattrini) che c’è stato in questo 1960, si è ricordato di Vincenzo Giordano Orsini e di Sambuca. L’amministrazione comunale di Milano ha creduto anzi opportuno cambiare una via Vincenzo Giordano Orsini in viale delle Legioni Romane. La “capitale morale” d’Italia ancora sogna le quadrate legioni. Eppure la colonna Orsini fu un poco “il naso Cleopatra” dell’impresa garibaldina: il perno su cui la ruota della fortuna garibaldina girò; il momento in cui l’ardimento personale del colonnello Orsini e la virtù del silenzio del popolo siciliano giocarono e vinsero le sorti dell’impresa (questa virtù dei siciliani che è anche difetto e remora, meglio nota come omertà).
Era stata quella di Sambuca la vicenda che sbloccò le colonne garibaldine facendole uscire dal blocco oramai stretto che gli austriaci di von Mechel (giunti in aiuto ai borbonici dopo espressa e mercanteggiata richiesta) avevano stretto nei pressi di Palermo. Credendo gli stessi che la piccola colonna comandata da Orsini fosse invece il grosso dell’esercito garibaldino, si accanirono contro di essa lasciando così che i mille potessero uscire dalla trappola e dilagare. Nel suo piccolo fu un’azione, questa, che risultò determinante per la campagna garibaldina. Ed onore al merito va reso, nella fattispecie, agli abitanti di Sambuca che, senza tener conto del rischio di eventuali rappresaglie austriache, accolsero il malridotto manipolo dell’Orsini.
Non erano queste le prime azioni sul campo del nostro Orsini. Già nel 1848 aveva iniziato a far parte di quella élite siciliana che vedeva di buon occhio le nuove istanze libertarie; imprigionato in quel frangente in qualità di “simpatizzante” fu poi liberato e prese parte ai moti palermitani guidando l’assalto al forte di Castelllammare. L’improvvisata organizzazione dei ribelli lo portò presto a rivestire cariche militari importanti tanto che divenne in breve comandante della divisione di Catania e Messina, difendendo strenuamente quest’ultima dall’attacco del Filangeri (generale napoleonico che al tempo aiutava Giaocchino Murat a ricomporre il Regno delle due Sicilie con l’isola dissidente e rivoltosa).
Costretto a soccombere l’Orsini, come molti altri ufficiali e rampolli dell’élite meridionale, fuggì dall’Italia e si rifugiò in Turchia dove anche lì si distinse in qualità di ufficiale dell’esercito (cosa peraltro rara in un esercito estremamente conservatore come quello turco) in occasione delle vicende di Crimea. Riuscì a tornare in Italia nel 1859, giusto per arruolarsi tra i Mille di Garibaldi con i quali, appunto si distinse nell’episodio ricordato da Sciascia. Promosso generale, fu nominato responsabile del Dicastero della Guerra. Combatté a Milazzo e poi nuovamente in quella Messina che aveva strenuamente difeso e salì, con i suoi, fino a Napoli dove infine si trasferì definitivamente. Nelle pause tra le tre guerre dell’indipendenza italiana ebbe modo di far valere il proprio valore politico ed intellettuale senza tuttavia far mancare la propria esperienza nei momenti difficili della estenuante guerra di riunificazione tanto da partecipare, ancora fervente rivoluzionario, alla campagna del 1866 contro lo Stato pontificio. Si ritirò infine nella Napoli che aveva eletto a propria terra, partecipando attivamente alla sua rinascita con la partecipazione ad attività sia assistenziali che scientifico-culturali. Ne divenne infine Sindaco impegnandosi a fondo per cercare di limitare quelli che definì “gli enormi danni causati al Mezzogiorno”.
Nasceva e cresceva infatti l’amarezza e la delusione per quanto vedeva realizzarsi all’indomani della raggiunta Unità. Un’amarezza che sembrava trasformare tutto quanto aveva fatto e creduto in un enorme fallimento, anche personale, sentendosene di fatto quasi corresponsabile. Più che le sue, saranno le parole stesse di Garibaldi che incarneranno i sentimenti di profonda delusione: “… Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio …”.
Con queste parole, a lungo reputate unicamente espressione velenosa di chi ben altri riconoscimenti s’attendeva, si apre infatti una lunga questione circa le sorti subite dal Mezzogiorno tutto a seguito dell’Unità Italiana.Orsini con il suo incessante operare a favore di ideali che vedevano nell’unità un mezzo e non un semplice fine, incarna tutte le contraddizioni e le irrisolte questioni che accompagnarono un così stravolgente evento e che in realtà tutt’oggi viene cavalcato non solo da comuni luoghi popolari ma – quel che è peggio – da frange politiche che ancora riescono ad attingere a vecchi risentimenti.
Resta peraltro indubbio che l’espressione “questione meridionale” venne coniata già nel 1877 dal deputato lombardo Antonio Billia, in riferimento alle condizioni di quelle terre. E’ altrettanto indubbio che nell’immediato dopo-unità il generale Cialdini, inviato sabaudo, usò il pugno di ferro nel reprimere i moti ribelli (in gran parte promossi e finanziati da nostalgici borbonici) ed è altrettanto vero che nella prima metà del novecento la sinistra italiana cavalcò profondamente questa grande ed irrisolta questione. Ne siano testimonianza le parole di Antonio Gramsci: “Lo Stato italiano, ovvero sabaudo, è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri, che gli scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di Briganti”, pur non mettendo mai minimamente in dubbio la validità e l’efficacia dell’Unità del Paese.
E come lui così buona parte della intellighenzia di sinistra di allora che mai denigrò pur ponendo l’accento su fatti gravi e realmente accaduti. Ma in questa irrisolta lettura storica si infrange lo spirito rivoluzionario di Vincenzo Orsini. Nella sua estrema convinzione che unità volesse significare nuova equità sociale, nuova ripartizione dei diritti tra gli strati della popolazione, nuovi patti sociali. Non avvennero e se l’impressione fu quella di aver sostituito un una dittatura con un’altra, in realtà le condizioni di divisione sociale di prima si addomesticarono ai nuovi padroni e sopravvissero e prosperarono come e più di prima. I principi non esiliati continuarono a fare i principi; dopotutto al Regno delle due Sicilie si sostituiva il Regno Sabaudo e poco sarebbe cambiato.
Il problema sarebbe stato invece quello spirito garibaldino che aveva dato l’impressione e la speranza di una nascita di un ceto borghese fino ad allora, almeno al sud, pressoché inesistente e ciò avrebbe sovvertito secolari consuetudini. E’ sufficiente in fondo leggersi “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa per aver un chiaro quadro della situazione. I “briganti” cosiddetti e celebrati soprattutto dalla cinematografia italiana, sarebbero comunque comparsi, avrebbero comunque fatto la stessa amarissima fine quale che fosse risultato il vincitore. Solo Garibaldi, forse, tentando di esportare le esperienze sudamericane avrebbe potuto intraprenderne la strada ma fu, inevitabilmente, usato e bloccato. E come poter pensare che di punto in bianco i rampolli delle élite di mezza Italia potessero effettivamente cedere il proprio ruolo di colta e spesso agiata intellighenzia? Non sarebbe stata necessaria soltanto una riunificazione ma anche una rivoluzione ma come farla quando ancora non esiste né un popolo né un paese ma soltanto masse disperate di poveri ignoranti che avrebbero potuto legarsi soltanto per una rabbia comune? Su questo presunto livore di un sud vilipeso nei confronti di un nord conquistatore si è continuato a discuterne e, soprattutto a specularvi sopra.
Anche e dopo che taluni fatti, quali ad esempio le elezioni del 1946 per la Repubblica parvero sconfessare, una volta di più, tale inclinazione: tutte le circoscrizioni del Sud garantirono alla Monarchia la maggioranza (Napoli 78,9%, Lecce 75,3%, Salerno 72,9%, Benevento 69,9%, Catania 68,2%, Bari 61,5%, Palermo 61%, Cagliari 60,9%, Catanzaro 60,3%, Potenza 59,4%, L’Aquila 53,2%), vanificando nei numeri un luogo comune che pure il periodo fascista aveva notevolmente affievolito. La questione dagli anni cinquanta in poi è divenuta unicamente oggetto di partigianerie politiche che tutto hanno fatto meno che chiarire o, ancor meglio, mettere una pietra sopra su un passato che riemergendo ad ogni piè sospinto in queste distorte forme, non fa che rallentare processi non tanto di integrazione – laddove qualcuno ancora ne voglia invocare il mancato completamento – quanto di coscienza collettiva in funzione di crescita sociale ed economica ma, e soprattutto, culturale.
Ma quelli di Orsini erano tempi diversi ed a tanta dedizione sia concessa anche l’amarissima delusione. Non altrettanto mi sentirei disposto a concederla oggi a chi ancora trova in un atteggiamento anti-risorgimentale fonte di ispirazione. Si sta forse ancora cercando di dimostrare che la cosiddetta arretratezza del sud odierno (per coloro che ancora vogliono sostenerla) – ricordo che siamo nel 2017 – è ancora frutto di accadimenti che risalgono oramai a più di un secolo e mezzo? Si pensa che tale accanimento possa in qualche modo sovvertire ciò che è stato e possa fornire nuove basi per il futuro politico e sociale del Paese?
Se questo regionalistico piano socio-politico dovesse essere adottato, credo che ben poche sarebbero le regioni che potrebbero starsene zitte senza presentare la propria lista di lamentele. A chi poi? Ai nostri padri o ai nostri nonni? In un momento dove le difficoltà di un operaio veneto non sono certo diverse neanche di una virgola da quelle di un artigiano di Gela o le angosce di un garagista di Vercelli non sono dissimili da quelle di un fioraio di Lecce non vedo francamente a chi convenga fomentare certe forme di superficiale regionalismo se non, così come fu fatto con quei disgraziati chiamati briganti, per additare falsi colpevoli per reali misfatti. Certo che se volumi quale “Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero Meridionali”(Piemme, 2010) diventa bestseller e vende oltre 250.000 copie, mi sorgono dubbi. Non che lo stesso libro, criticato tra l’altro ampiamente da storici proprio di quelle regioni, possa dire il vero, quanto perché il seguito evidentemente avuto la dice lunga sulla ancora incapacità generalizzata di guardare oltre il proprio naso.
Ma se nel frattempo uscisse un libro sulle sofferenze del Triveneto dal risorgimento ad oggi, il risultato sarebbe lo stesso. Duole che tutti gli Orsini della nostra storia siano stati dimenticati, spesso a vantaggio di altri, senza dubbio ben più immeritevoli, solo più innocui alla scrittura della storia. Orsini era e rimane un personaggio scomodo, capace di sparare cannonate vere e discutere di scienza, politica ed anche di ideali, oltre che, probabilmente di libertà (quella di allora che aveva tutto un sapore diverso da quella che oggi molto spesso si scambia con il “diritto a fare ciò che ci pare”) e, probabilmente anche di coscienza. Con i limiti della sua provenienza élitaria: ma forse non ne avevano di limiti i “Briganti”? Non ne aveva di limiti il gattopardesco Principe di Salina e con esso i Borboni, i Savoia oppure Carl von Rothschild e il Ministero delle Finanze borbonico retto da Luigi de’ Medici di Ottajano che resero la Banca Rothschild l’istituto di credito dominante a Napoli? (già allora guarda un po’).
Ad Orsini, oltre qualche busto in pietra o marmo che sia, fu dato il nome di una imbarcazione da guerra, una torpediniera della Classe Sirtori che autoaffondò, fatta esplodere dal proprio equipaggio, prima che cadesse, svolto il proprio dovere, in mani nemiche. L’Italia ringrazia.