Ci risiamo. Un’azienda straniera “scala” il prosciutto San Daniele e ne conquista la maggioranza. C’è chi esulta, come i tifosi tout court della grandi alleanze, delle roboanti fusioni che impediscono la chiusura. Noi francamente non credo abbiamo nulla da festeggiare, perché, vedete, è proprio lì, celato dietro calcoli alfanumerici e strategie dell’alta finanza che si trova il nodo. Un nodo che, da impercettibile, si sta stringendo sempre di più al collo dell’Italia.
Se il nostro sistema paese non è più competitivo (o forse non lo è mai realmente stato) non è colpa né dei grandi o piccoli marchi, né dei lavoratori. Ma di un modo sbagliato con cui si sta gestendo il processo di globalizzazione. Se il ritorno ai dazi solleva qualche perplessità, altrettanto fanno scelte folli come quelle che hanno spianato la strada ai cinesi in Toscana, con conseguente morte del tessile a Prato.
Ribadisco: non è una battaglia contro qualcuno, ma contro strategie controproducenti che, anziché fare gli interessi delle aziende italiane, hanno scioccamente aperto, senza regole, ad un mondo per il semplice gusto di farlo. Perché fa radical chic, perché è trendy essere per il sushi e non per la polenta. Con i frutti, amarissimi, che oggi cogliamo. Il prosciutto San Daniele non può finire in mani straniere: è una battaglia di principio.
E’italiano; è l’orgoglio dell’agroalimentare italiano; è il vessillo assieme a tanti altri prototti di eccellenza che realizziamo solo noi di un modo di intendere l’alimentazione e il gusto; è l’identificativo dello Stivale a tavola. E’ solo nostro.
Twitter@robertomenia