Il risveglio culturale? Nell’eredità di De Sanctis

Di Enzo Terzi

Scrittore, educatore, politico, filosofo, letterato, critico, insegnante. Questo era Francesco Saverio De Sanctis di cui quest’anno ricorrono i duecento anni dalla nascita. Nato nel 1817 (il 28 febbraio ) e morto nel 1883 (il 29 dicembre), ha partecipato a quel periodo storico in cui venne costituito lo Stato Italiano.

Decenni turbolenti erano quelli: si poteva nascere austriaci e morire borboni, sposarsi in un comune sabaudo e vedersi rifiutata la pensione dai francesi, senza bisogno di muoversi da casa. Erano tuttavia decenni che dettero il loro contributo alla storia e alla politica quale esempio di quel fenomeno periodico che vede gli impulsi teorici trasformarsi in fatti, gli ideali divenire articoli costituzionali, leggi infine le speranze di tanti. Sono i decenni in cui tutto si muove e capovolge salvo le condizioni dei poveri ai quali cambia spesso soltanto l’oggetto delle loro invettive.

Non che gli anni miei siano in fondo stati (per adesso almeno) tanto diversi. Sono nato con il telefono in bachelite e la ruota numerata, con la cassetta della posta che si riempiva molto spesso di lettere che raccontavano storie, ho assistito allo sbarco sulla luna, all’avvento del web, ho visto uccidere presidenti quasi in diretta perché con me è nata anche la televisione e da quella ho appreso che il mondo per quanto grande, era il contenitore di infinitamente diverse meraviglie e di identiche malattie e nefandezze. L’epoca (italiana almeno) di De Sanctis fu quella in cui si gettarono le fondamenta per passare dal regionalismo alla nazione, la mia, quasi seguendo un invisibile filo conduttore, quella in cui ci siamo aperti al villaggio globale. Oggi,  nel tentativo di compiere un passo ulteriore che è quello di diventare cittadini del mondo, la spirale della storia sembra involvere e accartocciarsi ed il risultato – passeggero almeno in termini storici –  è la sensazione di sopravvivere in un’era di decadenza dove il titanico scontro tra la coscienza che vuole universalizzarsi e l’inadeguatezza civile e sociale a compiere questo ulteriore grande salto pare sopraffarci.

bustoDue secoli appena ci separano da quei passi, quelli del Risorgimento, ai quali De Sanctis partecipò da intellettuale e da politico, con alterne fortune certo (ma erano tempi imponderabili quelli). La differenza che si è plasmata in questi due secoli è l’aver sostituito, nel ruolo di motore, il denaro all’ideale. Se ancora ai tempi di De Sanctis erano gli uomini a gestire la storia, oggi lo sono gli oggetti o, almeno, il potere di averne. Non che il Risorgimento italiano fosse stata unicamente opera emerita di intellettuali e  di idealisti ma certo ebbero un ruolo rilevante, ed in molti pagarono pure almeno con il carcere se non con la vita. Oggi si paga e si muore talvolta, per questioni talmente meschine che si fa fatica a menzionarle. Anche in questa Italia ricca talvolta più di pretese che di sostanza.

A queste riflessioni mi porta proprio la figura di Francesco De Sanctis che fu, qualche decennio fa, uno di coloro che immancabilmente consultavo durante gli studi. Per quanto già considerato obsoleto ai miei tempi ed ampiamente snobbato dalla nuova intellighenzia, ciò che più attraeva nei suoi scritti (oltre all’indagine specificatamente letteraria) erano due concetti che se oggi venissero adeguatamente di nuovo vestiti, potrebbero costituire un valido vaccino contro la decadenza in cui siamo precipitati.
Il 18 febbraio 1848, a Napoli, un De Sanctis ancora da considerarsi semplice educatore di rampolli di buona famiglia, ebbe l’occasione di poter rivolgere un intervento ai giovani in presenza dell’allora Ministro dell’Istruzione del Regno. Da quel discorso si evince l’esortazione ai giovani affinché diventino protagonisti della propria vita e della storia, ammonendoli affinché perseverino in questo intento fino a che la pubblica opinione (intesa come il rispetto che ti può far guadagnare la storia) non renda loro giustizia: “Giovani […] importa che di sopra alle particolari opinioni stieno saldi alcuni princìpî a cui tutti ubbidiscano; il che è mestieri massimamente a’ giovani, troppo sensitivi, e troppo facili a ricever nell’animo ancor nuovo di ogni sorta impressioni. Voi esser dovete; voi siete una classe. Ché quando gli uomini diceano di doversi confidare ne’ giovani, quando diceano: – Viva è la fede ne’ giovani, e la patria è religione in loro, – quando attribuivano a voi un sentimento comune; essi vi hanno fatto una classe. Vi manterrete voi tali? Nol so: oggi ci ha molti interpetri dell’avvenire; io vi guardo con lo sguardo dubbioso. Nol so: dirò solo che tali voi sarete, quali vi farà l’opinione. L’opinione è onnipotente, e voi lo sapete. Ma tali vi farà l’opinione, quali voi meriterete di essere. L’opinione è la ragione stessa fatta dal popolo, e voi lo sapete”.

Certo in questa esortazione non si parla certo di “classe” in termini sociali ma di categoria di individui che si apprestano a cavalcare l’età delle decisioni e dei passi importanti. E tale esortazione, promossa nel 1848, anno di moti rivoluzionari, di teste calde, di anarchismi di tutte le sorte, il De Sanctis intendeva non tanto assopire gli animi quanto invitare a compiere anche gli atti più estremi con la coscienza di individui appartenenti ad un futuro che dovrà essere scritto e che, soprattutto, avrà bisogno di qualcuno che lo scriva. De Sanctis stesso non casualmente, partecipò proprio in quell’anno ad alcuni moti rivoluzionari e venne tolto dall’insegnamento ed imprigionato. Farà ritorno a Napoli nel 1860 quanto con la nascita del Regno d‘Italia caddero le accuse che pesavano sulla sua testa. Sono maturi i tempi per concepire la sua opera maggiore ovvero quella “Storia della letteratura italiana” che lascerà il segno a lungo. Una Storia rivoluzionaria in un mondo che si era rivoluzionato, dove tutto anche nell’ambiente delle arti andava di sana pianta riordinato senza tuttavia fare quella “piazza pulita” che avrebbe estirpato anche le radici identitarie della nostra cultura. Andava costruita per la prima volta una Storia della letteratura nazionale che avrebbe avuto il ruolo di riconoscere alla neonata nazione un passato in cui identificarsi.

Troppo pericolose erano tuttavia per De Sanctis le parole di radicali come il Settembrini: “Una storia della letteratura è come l’epilogo, l’ultima sintesi di un immenso lavoro di tutta intera una generazione sulle singole parti. […] Oggi tutto è rinnovato, da tutto sbuccia un nuovo mondo, filosofia, critica, arte, storia, filologia. Non ci è più alcuna pagina della nostra storia che resti intatta. […] L’antica sintesi è sciolta. Ricomincia il lavoro paziente dell’analisi, parte per parte. Quando una storia della letteratura sarà possibile? […] se la nuova generazione vuole dibutare e verificare, ottimamente, si mette sulla buona via; ripigli tutto lo scibile parte a parte e riempia le lacune, che ce n’è moltissime, ed apparecchi una condegna materia di storia. […] Una storia nazionale, che comprenda tutta la vita italiana nelle sue varie manifestazioni, è ancora un desiderio. Quello che abbiamo rimane a infinita distanza da questo ideale”. Il rischio era quello di compiere un repulisti che avrebbe probabilmente stravolto i contesti storici all’interno dei quali tanta letteratura aveva prosperato, a favore di una ossessiva necessità di identità nazionale che, al contrario, era solo sul nascere. De Sanctis credeva che prima si dovessero scrivere le monografie dei grandi scrittori e poi se ne addivenisse ad una sintesi. E ad un anno dalla comparsa del primo volume, ci narra Benedetto Croce, suo grande estimatore al punto che grazie a lui videro le stampe molti degli scritti dell’ancora giovane De Sanctis (Teoria e storia della letteratura italiana: lezioni tenute in Napoli dal 1839 al 1848, ricostruite sui quaderni della scuola da B.Croce, voll. 2, Bari, 1926), non era chiaro se se lo stesso avesse deciso di intraprendere il cammino di tale opera. Infine nel 1870 uscì il primo volume.

olycom - mascheroni -Sarà lo stesso De Sanctis che nei “Ricordi” parla della sua passione giovanile che certo non avrebbe giovato ad una Storia della Letteratura: “Il mio cervello era una fabbrica di teorie, e mutando il punto di partenza, capovolgevo la base,  dilettandomi di foggiar sistemi nuovi a mio comodo. Con giovanile audacia mi ponevo facilmente giudice tra gli autori, menando sferzate di qua e di là. Il mio studio era volto principalmente a ridurre le varie  esagerazioni nella giusta misura.[…]”. E per quanto la sua Storia non sia certo destinata a scopi puramente scolastici non dimentica che la scuola stessa “è presentimento della società”, luogo di formazione, luogo ove si plasmano le classi dirigenti. Questo amore per la scuola si riversa abbondantemente nella sua esposizione letteraria, fatto questo che, oltre tutto, rende molto comprensibile la sua lettura. Ma vi è un di più. Non rinnegando assolutamente il suo amore per la letteratura europea, intollerante di qualsiasi frontiera, si fa precursore di una identità culturale europea che fino ad allora l‘élite dell’intellighenzia italofona (e ancora non già italiana) negava, nascondendosi dietro assiomi formali ed estetici, regole “arcadiche e retoriche” che in realtà facevano scempio di tanti grandi. Sempre nei “Ricordi”, infatti, scrive : “Intorno a me si aggirava il rumore delle vecchie opinioni. L’unità d’azione, di tempo e di luogo era un assioma; l’Iliade era il modello immutabile di tutti i poemi possibili. C’erano regole fisse, dalle quali non era lecito scostarsi. Sotto il nome di principii correvano generalità applicabili a tutt’i casi, come certe ricette. La Divina Commedia non era un poema, l’Orlando furioso neppure: poesie divine sì, ma contro alle regole; e non sapevano raccapezzarsi sotto qual genere andassero allogate. C’era la gran lite degli episodi, e si pretendeva che la Divina Commedia fosse una serie di episodi, e non si leggevano che alcuni di essi, stimati più belli. Dante era poco meno che un barbaro. Poco si leggevano gli stranieri; Shakespeare passava addirittura per barbaro, e Lope de Vega un ciarlone. Rousseau e Voltaire erano nomi scomunicati. Ignoti quasi una gran parte degli scrittori del secolo decimottavo in poi. Poco si leggeva, meno si studiava, molte erano le chiacchiere. La nostra ignoranza degli scrittori stranieri dava proporzioni eccessive al merito degl’italiani. Alfieri era superiore a tutti i tragici, e Goldoni a tutti i comici, e la Basvilliana veniva comparata alla Divina Commedia: non si distingueva il mediocre dall’eccellente”.

Ecco dunque come i pericoli di ogni radicalismo avevano ed avrebbero potuto ancora portare a mancanza di equilibrio. “La nostra ignoranza degli scrittori stranieri dava proporzioni eccessive al merito degl’italiani”, dichiarazione questa che  spalanca le porte ad una revisione culturale ben più ampia di quella cui aspirava il Settembrini ed altri radicali che non riuscivano molto spesso a guardare la di là dei nuovi sacri confini. E sì che invero anche il Risorgimento al quale tutti fervidamente parteciparono non fu certo unicamente espressione di forze interne, anzi, al contrario. Come avremmo potuto avere la meglio su buona parte delle potenze straniere che governavano a pezzi lo stivale se non vi fosse stato un coinvolgimento almeno europeo?

letteraturaAl tempo, quella del De Sanctis fu una Storia controcorrente. Nel momento in cui si voleva appropriarsi pervicacemente di un nuovo (nuovo perché mai sperimentato) spirito nazionale, lui cercò di calmierare gli ardori definendo indispensabile un confronto (anch’esso fino ad allora mai perpetrato) con le tradizioni europee. Oggi, al contrario, sarebbe forse necessario ritrovare quel carattere nazionale che è indissolubilmente legato alla tradizione culturale per scrollarsi di dosso quella superficiale appartenenza europea che ci ha avvolto tanto da irridere e tacciare automaticamente di nazionalista (nel senso più restrittivo del termine) chiunque la discuta. Oggi si crede molto poco alle storie nazionali senza rendersi conto che ancora meno si crede a quelle ultranazionali perché fondamentalmente, non si è in grado di farlo; non vi è sufficiente cultura. E senza cultura non ci può essere storia da scrivere.

Non molte sono le alternative per uscire dalle epoche di decadenza, ancora una volta è la storia che ce lo dice. Una, la più certa, è quella del risveglio culturale e la visione delle identità nazionali non solo come specifici universi isolati ed isolanti quanto, invece, come tessere di quel mosaico che nella sua complessità rende valide e significanti le nostre radici oltre a rendere giustizia ai lasciti dei grandi imperi del passato che furono non tanto e non solo espressione di forza e di prevaricazione quanto terreno di scambi e di reciproco arricchimento tanto da essere ricordati come grandi civiltà.

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