Dal Cinquino al wifi: 60 anni di 500 per raccontare l’Italia

Ugo Tognazzidi Enzo Terzi

Correva l’anno 1974 ed alla fine di un mese di luglio che senza timore della più piccola smentita è stato – per adesso almeno – il mese più bello della mia vita, terminati quegli esami di maturità che portavano con sé quel senso di stralunato appagamento che coglie allorquando si è certi di aver guadagnato i requisiti adatti a poter decidere di sé e per sé, al contrario di quanto fosse lecito attendersi, come molti altri, decisi che l’otium non sarebbe stato appropriato.

Colmo di sacro entusiasmo potevo alfine inseguire mete fino ad allora considerate irraggiungibili, obiettivi che mai avrebbero ottenuto la paterna autorizzazione e che adesso, invece, nessuno al mondo avrebbe potuto negare. Con un amico – si trovavano facilmente gli amici allora che l’entusiasmo era il motore delle cose – la decisione fu presa rapidamente: Parigi. Un mese intero. Tempo reputato minimo indispensabile per immergersi in quella cultura ed in quell’immaginario che aveva riempito le nostre biblioteche e il nostro spirito avido di bellezza.

Tempo reputato massimo possibile per la pochezza sostanziale, spesso inquietante, che albergava nelle nostre tasche. Ma gli dèi, tutti indistintamente, erano con noi. Arrivò dunque inattesa ed impensabile una Cinquecento in regalo. Fu il padre del mio compagno d’avventura che se ne disfaceva e mai reputammo più saggia simile decisione. Una Cinquecento (Nuova 500) F, già attempata d’una decina d’anni, bianca, perfetta, anche se all’esame di un qualsiasi pedante, avrebbe potuto mostrare qualche deficienza. Tutto fu deciso con quella tempestività e chiarezza che oggi con estrema facilità potremmo qualificare come avventatezza, ma l’onnipotenza da cui eravamo stati folgorati per la “maturità” in tasca, non ammetteva la minima perplessità in merito a quella che si presentava come la madre di tutte le avventure.

Era il 25 di luglio ed in un granaio adiacente la casa colonica proprietà di una compagna di studi, celammo agli occhi del mondo il nostro gioiello. Sarebbe tornato alla luce dopo due giorni e due notti di intenso lavoro, completamente verde. Un verde intenso, di quelli che solo i castagni nella loro maturità possono mostrare, di quelli che soltanto certa luce mattutina può far brillare, di quelli che preludono al riposo severo, alla quiete assoluta sospesa tra l’Arcadia e gli Appalachi a testimonianza di come la nostra sete potesse abbeverarsi alle fonti più lontane.

Fu tuttavia un moto dell’animo più goliardico e – in verità – più pragmatico, quello che ci portò a ribattezzare il nostro destriero: il rospo. D’altronde il “verde persiana” con il quale ne avevamo mascherato l’originaria beltà ci pareva troppo pascoliano ed un seppur tenue aggancio alla Batracomiomachia, dove pure avremmo dovuto assumerci il ruolo dei topi, fu all’unanimità ritenuto più consono ed efficace. Scarrafonescamente bella di tutto il nostro entusiasmo, fu lasciata ad essiccare per ben due settimane che mai furono più lunghe, fino al quel 10 di agosto che il tramonto ci vide impavidi e folli disegnare e macinare la nostra personale francigena via attraverso Genova e Mentone.

Una freccia che avrebbe lasciato un segno e che tanto avrebbe inorgoglito la cricca di Boccioni. 100 km divorati ad ogni ora che ci avvicinavano al nostro appuntamento con la storia carichi di un tenda, poche suppellettili, qualche sommario capo d’abbigliamento, una montagna dei libri preferiti, che “il rospo” con noncuranza traghettava verso la gloria. Fu nel buio pesto delle colline di Provenza, a notte inoltrata, che si aprirono le cateratte del cielo e fummo inondati da una epocale benedizione che ci costrinse, complice anche la fame dei giusti, ad una sosta. Stoica fu la sopportazione del riposo notturno sui sedili, ma niente avrebbe potuto prepararci al mattino. “Il rospo” oltraggiato, dilavato, divinamente percosso era un sogno di incerta origine stupefacente, un’enorme acerba ammannita, la cosa più psichedelica che mai si era palesata, fino ad allora, in Europa. Chiazze bianche e lunghe lacrime verdi ne facevano un vegetale del futuro, figlio di un’era post-apocalittica, cimitero di passate civiltà che pure scintillava nuovo e antico, reperto di altri mondi. Fu in quel momento che passammo alla storia pur senza aver fatto i conti con la stessa.

Erano gli anni del post ’68, in Italia pure anni di piombo. Ma passammo alla storia, eccome se passammo, come coloro che in 24 giorni furono fermati da pattuglie di vigili, poliziotti, guardie forestali, guardie di finanza e finanche guardie penitenziarie non meno di una volta al giorno, di qua ed al di là delle Alpi. Passammo come coloro a cui fu smontato anche lo spinterogeno durante una delle quotidiane perquisizioni del mezzo e talvolta pure delle persone. A nulla valsero i Durrermatt, gli Erasmo, gli Ionesco, le cartoline di Max Ernst, neanche Joyce riuscì a commuovere, né Breton, né, come speravamo, Sartre, Camus o infine Montale, che avevamo con noi in bella vista. “Il rospo”, imperterrito, subì tutte le torture, spesso spogliato pure del sedile posteriore che metteva così in mostra una impudica grossa ferita rugginosa. Tutto si concluse sulla via del ritorno: eravamo a Vercelli ricordo, dove il piombo degli anni ben si addiceva agli sguardi severi e preoccupati dei poliziotti di un blocco stradale. Increduli per non aver trovato nulla se non due giovanotti un poco “fuori ordinanza”, dopo 3 ore, null’altro repertando, decisero che almeno un’ammenda per avere la ruota di scorta sgonfia se l’erano guadagnata. E così fu. “Il rospo” aveva segnato la storia, la sua e la nostra. Ci rimase fedele compagno per anni ed anni ancora fino a che, come a tutto ciò che è un poco umano, qualcosa si fermò. Per sempre.

Per i nostri diciotto anni di giovani figli di modeste famiglie era stata un’avventura indimenticabile. Non solo la libertà ma il possesso di una meravigliosa Cinquecento ch’era in realtà un universo in miniatura. Semplice, efficiente, riparabile giusto con un cacciavite ed una pinza, servizievole, di scarso consumo, con quei meravigliosi vetrini laterali triangolari che rendevano inutile ogni più sofisticato impianto di aria condizionata, scontrosa fino a che non si era imparato come gradisse la doppietta per scalare di marcia. Doveva nascere una comunione multisensoriale e poi, sarebbe stato amore per sempre. Era un’auto che aveva una storia e senza celarne l’orgoglio, aveva i sui buoni modi per farla pesare ai novellini. E se per noi fu viatico alla felicità ma anche alla consapevolezza, per tanti, nel nostro paese e non solo, era stata coronamento di un sogno di ben maggiore portata.

TopolinoLa sua storia in verità nasce molto tempo addietro con prototipi già disegnati prima degli anni venti e poi con l’impulso di Mussolini he nel 1930 conferì agli Agnelli l’incarico di ovviare alla “inderogabile necessità” (così pare si sia espresso) di fornire agli italiani un mezzo di trasporto alla portata di tutti.

Già, oltreoceano, c’era stato il grande esempio della Ford T che non solo venne prodotta in oltre 15 milioni di esemplari ma dette anche l’inizio alla produzione su catena di montaggio tanto che, negli anni migliori, ne usciva di fabbrica una ogni 93 minuti.

Forse il duce a quella stava pensando ma, fatto sta, che in Europa arrivò per primo a concepire una vettura popolare. L’avrebbe seguito, pochi anni dopo, l’Adolfo tedesco, onestamente con tutt’altra efficienza al punto che la mitica Volkswagen (da Volk =popolo, wagen= carrello, carrozza) uscì dalle case dell’omonima casa nel 1938 ad un prezzo di 990 marchi, destinata ad operai che al tempo guadagnavano 110-130 marchi al mese. La vis polemica impone di raccontare che i progetti non risultarono poi una novità in quanto a vario titolo vennero saccheggiati quelli della Tatra (casa cecoslovacca) tanto che solo nel 1961 la battaglia giudiziaria con la Volkswagen si è conclusa con l’esborso di parecchi milioni da parte di quest’ultima. La storia recente ci dirà poi che il lupo perde il pelo ma non il vizio.

Nel frattempo la Cinquecento così come richiesta da Mussolini non arrivava. I problemi erano tecnici e filosofici, e ad un prototipo ne seguiva un altro in un viavai di ingegneri assunti e licenziati. Alfine nel 1936 nacque la 500 A, ovvero la Topolino il cui costo tuttavia, ben lontano dal contenersi nelle 5.000 lire richieste dal duce, si aggirava sulle 8.900, prezzo questo che era oltre venti volte superiore al salario di un operaio contro le circa dieci volte cui corrispondeva il prezzo del tedesco maggiolino. Era già qualcosa tuttavia e la vettura ebbe comunque il suo successo non solo per l’impiego civile per il quale ne uscirono versioni furgonate e familiari atte a tutti gli usi, compresa una meravigliosa giardinetta corredata di anglosassoni doghe di legno e che, a Firenze ad esempio dov’ero, colorate con un sobrio verde ed il tetto nero, fungevano spesso da taxi. La guerra imminente chiese anch’essa la sua buona parte di modelli dedicati e così ne uscirono tutte le versioni più bizzarre ed improbabilmente carrozzate.

Fu il dopoguerra tuttavia che vide la consacrazione della Cinquecento, di quella almeno che molti ricordano, che in tanti hanno usato e che almeno una volta hanno guidato. Subì uno smacco in verità perché prima di quella che verrà poi battezzata come Nuova Fiat 500, usci, nel 1952 la 600: più robusta la carrozzeria, decisamente più potente il motore specialmente a pieno carico e in salita, era l’ideale per famiglie che potevano iniziare a fare qualche pensiero sul futuro che era da inventare certo ma che pareva potesse garantire certe speranze. Alfine, e siamo già nel 1957, la Nuova 500 uscì, figlia degli abbozzi disegnati di un impiegato tedesco della Fiat a da allora non ci fu più storia. Era il modello F, al quale seguì poi praticamente tutto l’alfabeto tanto fu il successo divenuto planetario. E finalmente riuscì a riposare in pace anche la salma del duce: 465.000 il prezzo base pari a circa 14-15 salari di un operaio.

E poi c’era la SAVA, la finanziaria della Fiat attraverso la quale era possibile acquistare le auto a rate. Insomma a pizza, sole e mare ecco aggiungersi la Cinquecento, nuovo simbolo nostrano. L’Italia divenne finalmente un’Italia unita. Da Palermo a Pordenone, da Torino a Reggio Calabria la Cinquecento ci uniformava tutti in quest’amore, in questo simbolo prestigioso che in fondo se non di tutti era certamente alla portata dei più. E che dire poi delle griffatissime pubblicità che vedevano improbabili signore rivestite d’alta moda, uscire da quelle piccole bomboniere davanti a sfondi blasonati di mezzo mondo.

gassman500E poi la consacrazione finale dovuta, forse agli inizi anche involontariamente, del cinema: a partire dagli anni ’60 la 500 (e per un buon decennio anche la 600) fu protagonista indiscussa del filone neorealista italiano e da Sordi a De Sica, da Gassman a Manfredi, da Tognazzi tutti, anche a più riprese, ne fecero uso in pellicola. E questa tradizione è proseguita fino ad oggi, al non poi troppo vecchio “Radio Freccia” di Ligabue, è stata poi protagonista con Enrico Montesano in “Culo e camicia” ed è infine – doveroso così anche il ricordo ad un grande recentemente scomparso – stato il veicolo talvolta dell’indimenticabile Fantozzi, al secolo Paolo Villaggio.

Siamo nel 2017 e da poco è stato festeggiato il due milionesimo esemplare della attuale Fiat 500 riadattata nel 2007. Non è cambiata soltanto la tecnologia, il gusto estetico, la logica motoristica. Bella ancora, accattivante, affronta con piena dignità il confronto oramai globale con le vetture della sua categoria e riesce a distinguersi. Ciò che è cambiato è il modo di vendita, il linguaggio della stessa, sia negli spot che nelle schede tecniche o pseudo tali.

Oggi non è più un’utilitaria ma una “citycar”. Il vecchio cruscotto, oggi forse più carino e fornito di accessori gode di un “display touchscreen” che asserve al sistema “infotainment Uconnect” e via e via con una lista interminabile di “anglosassonismi americanizzati” che me la fanno sentire tutt’altro che mia, lontana da quella umana confidenza che potevo aver concesso al Cinquino di allora. Senza pensare al fatto che in caso di guasto, oggi si sostituisce e non si ripara, figli come siamo di questo enorme laboratorio di elettronica Ikea dove l’obsolescenza programmata è necessaria per mantenere i posti di lavoro e dove una volta poteva bastare un minimo d’ingegno e giusto un cacciavite, oggi serve solo Mastercard.

Costa, il nuovo modello, nei suoi vari allestimenti, da circa 14.000 a circa 17.000 euro. Recuperando dalla memoria quei soloni che hanno definito quella di oggi come la “generazione degli 800 euro”, il rapporto medio tra salario ed acquisto è tornato quello della vecchia Topolino: 1 x 20 salari. Ma questo è di relativo interesse. Oggi il possesso dell’auto non è un obiettivo di serenità familiare né indice di benessere come poteva esserlo nel 1957. Oggi per l’auto così come per molti degli altri accessori dei quali pare non si possa fare a meno, valgono altri parametri ed altre forme di valutazione. Eppure con tutte le considerazioni possibili in merito alla bontà dell’oggi, dell’evoluzione e del progresso, resta indubbio che prima le cose erano fatte per durare, oggi questo parametro non è più in cima alla lista delle virtù.

Anzi. Per contro, la capacità di aver adeguato e rinnovato un modello di vettura per ben 60 anni e averlo tenuto ancora sulle più alte vette di vendita è segno di intelligenza, creatività, buon gusto ed anche qualità e per quanto l’ultima 500 venga costruita a Detroit o chissà dove e sia dotata di tanti di quei marchingegni che ben poco hanno di nostrano, fa sempre piacere avere questo filo conduttore che appassiona oggi come ieri, avere un simbolo da condividere almeno nel nome e godersi innocentemente un pizzico di italianità.

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