Mala tempora currunt. Come al solito perché non si vuole osservare, discutere e prendere spunto dalle altrui esperienze. E se anche nei confronti della storia ci si può sempre appellare al fatto che le condizioni sono cambiate e che dunque esperienze di secoli addietro non possono più essere accettabili né accettate, dimentichiamo il fatto che, seppur mutatis mutandis, certi problemi sono stati da altri già stati affrontati con conseguenti legiferazioni e norme comportamentali che, periodicamente vengono aggiornate e, pertanto, già questo fatto potrebbe offrire quanto meno spunto di riflessione.
Una simile premessa che potrebbe essere valida per una moltitudine di argomenti è oggi dedicata a due avvenimenti: il recentissimo protocollo che il Viminale ha emanato in tema di immigrazione invitando gli operatori a siglarlo ed il centenario dell’Immigration Act (spesso conosciuto come Literacy Act) approvato del Congresso statunitense nel 1917.
Ciò che lega questi due atti ufficiali è la presenza di grandi migrazioni di persone. Oggi come allora. Ma se il parallelo con gli Stati Uniti oggi potesse ad alcuni risultare difficile da digerire per l’ancora discutibile inizio della nuova presidenza Trump, si potrebbe ricordare l’Immigration Act del 1910 e tanti altri emendamenti precedenti e successivi del libertario e democratico Canada contro il quale nessuna spada oggi oserebbe alzarsi.
Eppure questi paesi devono la loro storia moderna (ovvero quella conosciuta, ufficiale e riconosciuta) a generazioni dI immigrati che, da tali, si sono trasformati in controllori, severi, anzi severissimi, degli emigrati di oggi e di ieri privilegiando prima di tutto, il loro diritto di decidere se farli permanere o meno all’interno del proprio paese. E se ancora non bastasse si potrebbe ricordare l’Immigration Restriction Act del 1901 emanato in Australia, altro paese che a tutt’oggi fa parte della lista delle mete preferite per le emigrazioni.
E la lista delle leggi sempre più restrittive e non necessariamente rispettose che questi paesi hanno emanato fin dalla metà dell’800 è lunga e le conseguenze per migliaia di persone sono state, nei decenni, molto dolorose. Oggi sono paesi spesso invidiati vuoi per la qualità di vita, vuoi per le opportunità, vuoi per la libertà, ma c’è una condizione che li accomuna: tutto si può tentare, ma alle loro condizioni.
E le condizioni che offrono oggi all’immigrazione sono il frutto di una oramai secolare esperienza che ha evidentemente imposto loro di dare delle regole. Belle o brutte che siano, piacevoli o meno, discutibili quanto si vuole, ma eventi di tale portata non possono essere gestiti unicamente con la compassione o la buona volontà. E le regole valgono sia per gli immigrati che per i rifugiati.
Una denominazione è comune a tutti questi processi: la disgrazia degli emigranti. Quale che essa sia. Conseguenza di guerra, di povertà, di persecuzione politica e/o religiosa, più semplice (ma non meno tragica) mancanza di lavoro. Queste cause li accomunano tutti e, fra loro, tutti quegli italiani che nei secoli scorsi, ed oggi in parte ancora, si sono preparati la loro valigia di cartone o in similpelle, hanno gettato il cappello in aria e sono andati alla ricerca di possibilità. Perché quelle si vanno cercando: le possibilità di potersi concedere una vita migliore.
E porre delle regole non vuol dire ostacolarli ma, al contrario, informandoli su quanto li attende, mostrare loro rispetto. E non è questa una procedura che vige solo oltre gli oceani. Se si vuole il visto di soggiorno nella “candida” Olanda oggi si deve superare il test di lingua olandese e di conoscenza della vita pratica nel paese. Chi non lo supera, non solo prende un’ammenda di 1250 euro ma non ottiene il permesso e da lì al divenire illegale o essere espulso il passo è breve (il risultato di inizio 2017 indica che siano 6.000 i promossi su 53.000 richiedenti, fate pure il paragone con il numero di persone con le quali si trovano a che fare paesi come l’Italia e la Grecia che non hanno, al contrario dell’Olanda il “numero chiuso”).
Ma gli Olandesi (potremo citare altri esempi in Europa) in effetti non hanno fatto altro che iniziare ad applicare una parte di quanto gli stati prima menzionati richiedono da oltre un secolo. Ma non basta, perché per soggiornare in questi stati occorrono precise garanzie che l’immigrato non diventi un onere sociale. E questo non è uno sbarramento vessatorio quanto, unicamente, una garanzia che chi entra, essendo necessariamente in possesso di richiesta di lavoro o abbia garanzie equivalenti, potrà non solo più facilmente inserirsi nella società in cui desidera (in qualche modo) integrarsi ma, oltre tutto, potrà contribuire al sostentamento dell’apparato di servizi che lo Stato ospitante offre.
E guai a farsi scadere i visti sui permessi i soggiorno: immediatamente si è illegali, si perde ogni beneficio e/o servizio garantito, se presi si è immediatamente espulsi o relegati ad una pericolosa clandestinità. Senza se e senza ma.
Altra storia è ovviamente quella della vita da clandestino in un Paese; quella è talvolta una scelta dolorosa e talvolta atto inconsulto che non possono che non può che essere considerato elemento consequenziale se si vuole affrontare l’argomento in termini di soluzioni da praticarsi. Questo dovrebbe essere un fenomeno marginale in Paesi dove esistono e si rispettano regole e leggi. E’ di tutta evidenza che se si permette l’entrata e poi non la si accompagna da norme, questo fenomeno in breve esplode.
Talvolta si ha l’impressione che quanto avviene in Italia sia una questione proprio unicamente “italiana”. Mai nella storia si è assistito a Paesi incapaci per così lungo tempo di legiferare in merito a situazioni di così vasta portata. Tutti quelli che nell’arco della storia hanno affrontato il problema, hanno cercato di regolamentarlo. E giudicare e soprattutto giudicare a vanvera quanto è stato fatto dagli altri Paesi, dal momento che poi, questi “altri Paesi” continuano ad essere in testa nelle scelte anche degli emigrati italiani di oggi, non è proprio così facile come si può credere.
Non si giudica né si può giudicare con la pancia o, almeno, non solo con quella. Non reggono d’altronde più neanche le varie teorie del complotto che si avvicendano periodicamente alla ribalta: né l’Italia, né la Grecia d’altronde, hanno (obtorto collo) accettato di fare da porti franchi in cambio di presunte agevolazioni di bilancio.
La loro condizione di paesi frontalieri né ha decretato il ruolo, ma se questi paesi avessero avuto norme ad acta o avessero in questo senso negli anni legiferato, l’Italia in particolare, che ha visto vertiginosamente crescere gli afflussi dai primi anni ’90 con l’esodo albanese, forse le cose oggi si sarebbero da sole ridimensionate. Non vale la regola della connivenza fra istituzioni e racket dell’immigrazione né altre simili ipotesi quali quelle che hanno portato al recente documento del Viminale.
Queste sono solo, eventualmente, conseguenze di un vuoto normativo e legislativo. Provate ad avvicinarvi con un barcone alle coste di Stati Uniti, di Canada, di Australia, dell’Olanda, della Germania o dell’Inghilterra o della Francia pure che già ha i suoi ben grandi irrisolti problemi con gli immigrati dalle ex colonie. Provate. Provate anche a piedi e vedrete come le frontiere di Austria e di Francia non sembreranno più quelle di Shengen ma assomiglieranno più al Muro di Berlino. Più cattiveria? No, solo più regole e norme. Cognizione della propria capacità di accoglienza.
E se si diffondesse la voce che anche in Italia e Grecia ci sono regole, diminuirebbe l’afflusso e ogni interesse vero o presunto, legato a questi eventi, verrebbe meno. Certo se all’inizio di questi flussi ci fosse stata già una organizzazione sarebbe stato più semplice, oggi il rifiuto di un barcone di povera gente è faccenda ben più complessa. Ma la questione andrà comunque risolta, nei fatti e non nei principi, né dei “buonisti” né dei “razzisti” ammesso che tali schieramenti abbiano un qualche significato.
Facciamo un passo indietro. Nel 1917 il Congresso statunitense vietava l’ingresso a chi non avesse un minimo di alfabetizzazione in lingua inglese, a chi non era in buone condizioni fisiche (non solo malattie ma anche menomazioni), a chi intendesse prostituirsi, a chi era anarchico e via e via a chi era portatore di altri impedimenti (oltre 30 erano le condizioni da rispettare per essere ammessi), il cui accertamento prevedeva il reimbarco immediato. Va ricordato che la questione non era frutto di un mero questionare nei salotti della politica, quanto lo specchio di una volontà di buona parte del paese. Erano trenta anni che oramai tentavano la fortuna in quel paese decine e decine di migliaia di “disgraziati” provenienti in buona parte dai Paesi dell’E stremo oriente (non a caso nei loro confronti fu ben più stretto il giro di vite) e, per conseguenza, ciò che iniziava a mostrare segni di cedimento era il concetto di “americanizzazione”.
Chi entrava doveva mostrare di avere le carte in regola per diventare un fedele e leale americano, altrimenti, fuori. Furono le imprese che, principalmente, si erano fatte sostenitrici e promotrici di tale selezione. Perché di una selezione, dagli sfondi anche razziali (non dimentichiamo la già preesistente situazione del popolo afro-americano) si trattava. Lo scoppio della prima guerra mondiale inasprì ancora di più il problema e si giunse alle leggi del 1921 e del 1924 che regolamentavano le quote di ingresso che giunsero ad un massimo di 357.000 persone all’anno, in preferenza dell’Europa occidentale e del Nord.
Occorrerà arrivare al 1965 per vedere una nuova legislazione dopo che, durante ed a seguito del secondo conflitto mondiale, i timori di “inquinamento politico” e di infiltrazione di spie avevano permesso il compiersi di autentici disastri come quelli delle navi di fuggitivi ebrei che vennero rimandate indietro garantendo agli occupanti la fine che – ahimé – tutti conosciamo (le politiche di salvataggio degli ebrei iniziarono da parte degli Stati Uniti solo nel gennaio 1944). Simbolico a questo proposito il caso della nave St. Louis celebrata nel film “il viaggio dei dannati”.
Non da meno, nel corso della storia, si è mostrata la tenenza canadese. Già nel citato atto del 1910 il governo ostacolò con fermezza l’immigrazione di afro-americani che cercavano di fuggire dagli Stati Uniti dove per loro la vita non era certo delle più facili. Tale ostacolo, esercitato dal personale di frontiera con estrema energia, era avvallato dal fatto che il governo di Sir Wilfred Laurier utilizzò come scusante la presunta conclamata inadattabilità di tale popolazione al clima canadese; in altre parole una sofistica forma di razzismo. La fine della prima guerra mondiale portò al divieto assoluto di accettare immigrati da ogni e qualsiasi nazione (e non solo quelli provenienti da paesi precedentemente nemici) e fu solo poi successivamente, nel 1922, che le porte furono nuovamente aperte ma solo ai cittadini appartenenti al Commonwealth, ovvero ai paesi di ciò che restava dell’impero britannico di cui anche il Canada faceva parte.
L’afflusso poi dei cinesi nel paese assunse i toni della farsa: in forza delle restrizioni ancora più severe nei confronti di questo popolo che aveva una forte tendenza all’emigrazione è stato stimato che nel periodo tra il 1923 ed il 1946 soltanto 15 (quindici!) cinesi ottennero il permesso di soggiorno da parte del governo canadese. Bisognerà attendere gli anni ’60 per vedere un cambiamento di rotta nelle politiche di immigrazione del Paese, non più fondate su razza o provenienza ma sulla qualità del lavoro che avrebbe potuto svolgere chi arrivava. E’del 1967 l’istituzione di un “libro bianco” che prevedeva un sistema in cui i potenziali immigrati venivano valutati a punti in categorie specifiche: istruzione, competenze professionali, prospettive di occupazione, età, competenza inglese e francese e carattere personale.
Razza e paese di provenienza non avevano più alcun peso. Al Canada si deve comunque il primo atto legislativo (1976) che definisce la differenza tra rifugiato ed immigrato, fatto questo che aprirà le porte negli anni ottanta al riconoscimento di una multi etnicità del paese. Ciò non impedisce il fatto che in Canada, oggi come ieri, si entra – o meglio vi si permane – solo alle condizioni canadesi e solo rispettando le leggi del paese.
E infine il cammino dell’Australia che debuttò nel 1901 con l’atto citato che prevedeva un severo esame, soprattutto linguistico (quindi erano per definizione esclusi gli analfabeti) da svolgersi mediamente dopo un anno dall’ingresso, in varie lingue e dunque non solo l’inglese, tanto che si arrivò ad alcuni casi addirittura grotteschi in quanto l’esame poteva essere compiuto nelle più svariate lingue di una lunga ed approvata lista; di fatto tra il 1902 e il 1909 solo 59 persone sulle 1359 che si presentarono, superarono il test. Quest’ultimo è stato abolito solo nel 1958. E pensare che l’Australia iniziò la sua storia bianca come colonia penale. Arriviamo al periodo delle due guerre mondiali durante il quale, anche qui, severe misure restrittive vennero poste nei confronti di coloro che avevano la nazionalità “nemica”, compresi gli italiani presenti che tuttavia subirono un buon trattamento.
Le volontà anti immigratorie tuttavia subirono un duro colpo dopo la seconda guerra mondiale poiché ci si rese conto che la scarsa popolazione aveva reso pericolosamente vulnerabile il paese nei confronti di possibili attacchi, come era successo con i giapponesi che arrivarono vicini all’invasione. Fu tuttavia solo a partire dal 1949 che venne incoraggiata l’immigrazione dall’Europa; l’Australia ammise un gran numero di immigrati provenienti per lo più dall’Italia, dalla Grecia e dalla Jugoslavia per la realizzazione di importanti opere infrastrutturali e per iniziare a ripopolare il paese. Senza dimenticare che, al pari degli afro-americani negli Stati Uniti, la questione aborigena era lungi dall’essere risolta. Il 1966 fu l’anno della grande svolta. Il paese iniziava a sentirsi non solo forte ma anche preparato a ricevere una immigrazione più massiccia che avrebbe potuto ben contribuire al suo sviluppo: sarebbero state accettate persone qualificate sulla base della loro idoneità come coloni, la loro capacità di integrarsi facilmente e il possesso delle qualifiche positivamente utili in Australia. Fu una crescita che ancora oggi non conosce sosta.
Nel 1994 furono redatti i regolamenti che oggi sono tuttora in vigore esaurientemente sotto il controllo del Dipartimento per l’Immigrazione che a sua volta è controllato dalla Magistrates Federal Court e dal Tribunale Federale.
In sintesi, in amara sintesi: non siamo l’unico paese che ha o abbia avuto a che fare con problemi di accoglienza incentivata o meno. Perché dunque da noi regna il caos e quelle che contano sono le esternazioni della Presidenta Boldrini o del Segretario Salvini e non leggi, norme e regolamentazioni? Forse aveva proprio ragione Carosone: tu v’u vuò fa l’americano, Mmericano! Mmericano. Ma sì nato in Italy.