Vi racconto il suolo patrio, quell’humus strappato

di Claudio Antonelli

Al loro arrivo in Italia, i “disperati”, “migranti”, “extracomunitari”, “immigranti”, “immigrati”, “stranieri”, “profughi”, “rifugiati’, “clandestini”, “irregolari”, “illegali” si trovano sospinti in un limbo in cui rischiano di rimanere ancora per un bel po’. E ciò, secondo me, è da imputare, oltre che a questa confusione di termini, ai tempi biblici italiani; cui si sommano improvvisazione, faciloneria, buonismo fasullo, mancanza di regole, abusivismo cronico: fenomeni tipici del Belpaese.

È probabile quindi che il carattere provvisorio, aleatorio e fortunoso della loro avventura di migranti, finiti in Italia volendo forse andare altrove, accompagnerà ancora per un po’ questi nuovi residenti della penisola.

La qualifica di orfano di guerra, in Italia, dura fino alla morte dell’orfano anche se questi poi campa cent’anni. In maniera analoga, il nostro migrante rischia di rimanere migrante fino alla morte, che è da prevedere e da sperare sopravvenga molto tardi, vista la longevità media molto alta degli abitanti del Belpaese. Speriamo che nel frattempo l’africano-italiano riesca ad abbandonare la sua qualifica di disperato, sinonimo di migrante per i buonisti.

I miei ragionamenti intorno allo jus soli non saranno accettati da tutti perché io faccio appello a una nozione, intrisa di sentimento, che non ha più corso legale in Italia: la sacralità del suolo patrio. Lo stesso aggettivo patrio sembra evocare un mondo, ormai tramontato, alla De Amicis e alla Salvator Gotta, quando non suscita immagini di aggressioni armate, marce forzate, torture, invasioni, campi di sterminio. Eppure i sentimenti legati alla Patria sono sinceri e vitali per più d’uno. Lo sono anche per molti Quebecchesi, e lo sono per molti di noi italiani all’estero.

Il nostro altisonante inno nazionale proclama il carattere sacro del suolo patrio. Lo fa, sì, con una pomposità eccessiva. Ma cosa volete, negli inni nazionali il poeta s’innalza nei cieli rarefatti mentre noi rimaniamo su terra. Eppure, nel passato, le solenni, sofferte, eccessive parole di Fratelli d’Italia sono state prese sul serio sia da gente eccelsa sia da semplici cittadini. Tra questi ultimi io annovero i miei genitori, mio zio infoibato, e tanti altri di quelle terre della frontiera nord-orientale rimasti per sempre fedeli all’italianità.

Ma nell’ex Belpaese, il rapporto di molti col suolo patrio invece che essere un plasma di vita somiglia a una placenta rinsecchita. L’analfabetismo in materia di sensibilità nazionali e di rispetto delle identità collettive è rampante: vedi la serietà con cui è stato accolto lo strano fenomeno dell’ex comunista Matteo Salvini, già razzista nei confronti della nostra gente del Sud, tramutatosi nell’esponente di un nazionalismo all’italiana evocante i film western di Sergio Leone.

Io credo che i disorientamenti del popolo italiano siano una conseguenza della “morte della Patria” (vedi Galli della Loggia) verificatasi con la catastrofe militare nell’ultimo conflitto mondiale. Cui sono da aggiungere i frenetici appelli dei mondialisti per l’abbattimento dei muri, i lanci di fiori al Diverso (purché un diverso straniero) e il mantra sanfrancescano del “siamo tutti figli di Dio” e del “siamo tutti migranti”.

Slogan che forse sono la riformulazione democratica e progressista del “Chi se ne frega” di un tempo. Divenuto oggi, grazie anche all’ubriacatura mondialista, “Chi se ne frega della Patria!”, “Chi se ne frega dei fratelli d’Italia!”, “Viva gli altri!”

twitter@PrimadiTuttoIta

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