Quando, trent’anni fa, Giorgio Almirante e Pino Romualdi lasciarono questa terra a distanza di un giorno l’uno dall’altro s’udì forte, accanto al pianto della comunità missina, il gracchiare di diversi corvi. «Con la morte dei due capi storici, se ne va anche il Msi», vaticinarono con sicumera gli opinionisti più accreditati della grande stampa di “regime”, come allora chiamavamo i “giornaloni” .
Mai previsione fu più sbagliata, mai “profezia” più bugiarda: esattamente sei anni dopo, gli eredi politici dei due leader missini erano al governo del Paese e guidavano un partito che, rispetto alle elezioni precedenti, aveva quasi triplicato i voti. Certo, la destra italiana che nel biennio 1993-1994 diventava una delle prime forze politiche nazionali, fu favorita da una serie di eccezionali circostanze storiche: dal crollo dei grandi partiti della Prima Repubblica sotto i colpi delle inchieste giudiziarie alla caduta del Muro di Berlino, tutti fatti che liberarono milioni di italiani dalle gabbie mentali della guerra fredda. E va sottolineato anche il ruolo determinante svolto dal giovane leader del Msi, Gianfranco Fini, l’erede di Almirante, che seppe intercettare rilevanti correnti di consenso, diventando in quegli anni (e rimanendo a lungo) uno degli uomini politici italiani più popolari.
Non c’è dubbio però che la smentita dei corvi e l’ascesa della destra negli anni Novanta fu anche il frutto della grande seminagione di idee e valori che quei due grandi uomini della destra seppero fornire nell’arco di oltre 40 anni di attività politica, fin da quando, nel 1946, fondarono quel piccolo partito di reduci della Repubblica sociale, cioè gli sconfitti della guerra civile, riuscendo a tenerlo unito in decenni di dure battaglie politiche e a radicarlo, anno dopo anno, nella società italiana.
Ma da dove proveniva la forza dei due padri fondatori della destra italiana? Perché la loro eredità si rivelò tanto feconda? Diciamo, in estrema sintesi, che Almirante e Romualdi erano entrambi, pur con notevoli differenze tra loro, una miscela potente di idealità e realismo, di radicamento culturale e pragmatismo, di consapevolezza storica e di attenzione al presente.
La forza di Almirante era nella sua straordinaria capacità di coniugare tradizione e modernità. Sapeva, il leder missino, che non bastava declamare i solidi princìpi in cui credeva (Stato, Nazione, Lavoro) per ottenere il consenso. Occorreva qualcosa di più: sfruttare fino in fondo le grandi possibilità di comunicazione offerte dalla società di massa. E Almirante riuscì, cosa rara negli uomini politici di una volta, a “bucare” il video e a diventare “personaggio” mediatico.
La grande qualità di Almirante era anche un’altra: quella di capire che il Msi doveva andare oltre la testimonianza storica e ideale. La comunità missina doveva essere anche portatrice di un’alternativa di sistema. Dalla protesta, bisognava passare alla proposta, come recitava lo slogan del congresso del Msi-Dn del 1984.
E non a caso l’idea di “Nuova Repubblica”, lanciata da Almirante nel 1979, fece del Msi il partito che per primo reclamò la necessità di una riforma costituzionale.
La forza di Romualdi era, da parte sua, la capacità di guardare lontano unita, come anche nel caso di Almirante, dal vigore della sua testimonianza umana e politica. Tra i fondatori del Msi, era quello che aveva ricoperto l’incarico più alto nella Rsi: era il vicesegretario del Partito Fascista Repubblicano, sopra di lui c’erano solo Pavolini e Mussolini. Per tale motivo, nell’immediato dopoguerra conobbe il carcere e la latitanza. Uno come lui, aveva ben poche speranze di vita politica nell’Italia antifascista. Eppure Romualdi riuscì a “immaginare” il Msi.
Riuscì a capire che i reduci della Rsi, i vinti della guerra civile, potevano costituirsi in comunità politica senza rinunciare ai propri valori e ai propri ideali. Capì che era interesse di tutti, anche dei partiti egemoni, che quel mondo umano uscisse dai suoi nascondigli e partecipare alla vita politica nazionale. La condizione era però che non si costituisse un nuovo “partito fascista”, ma un partito diverso, che si richiamasse agli ideali del passato senza però pretendere di “restaurare” un mondo che non c’era più. Lo slogan del primo congresso del Msi (Napoli 1948), “non rinnegare, non restaurare” , fu da Pino Romualdi intuito e applicato per primo.
E Romualdi andò ben oltre gli slogan, immaginando che potesse esserci futuro solo per una destra modernizzatrice e solidamente collocata in Occidente. Con Almirante, più legato invece alla vocazione sociale del Msi, Romualdi stabilì un rapporto dialettico, sempre però nella reciproca stima e nell’adesione ai valori di fondo del partito.
Il caso vuole, oggi, che il trentennale della morte dei due leader arrivi in un momento difficile per la destra italiana. Tale circostanza può essere l’occasione per una serena e approfondita analisi storico-politica, premessa necessaria per “reinventare” nuovamente la destra.
E reinventarla al di fuori della nostalgia. Non c’è niente di peggio, per una comunità politica, che abbandonare la storia per rifugiarsi nel bozzolo dorato del mito.
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