di Francesco De Palo
Quattrocento milioni di pacchi di pasta all’anno venduti in centoventicinque paesi del mondo: sono i numeri della Divella Spa, che rappresenta un punto d’orgoglio non solo per il made in Italy ma anche per il sud dello stivale. Un risultato che l’azienda fondata nel 1890 ha corroborato con un lavoro certosino e costante, fatto di sacrifici e strategie, partendo da un piccolo comune agricolo della Puglia, Rutigliano.
Oggi il gruppo, guidato dal 74enne Francesco Divella, dà lavoro a trecentoventi persone, e i molini macinano ogni giorno 1200 tonnellate di grano duro, 400 tonnellate di grano tenero. L’amministratore delegato, che in passato è stato anche deputato di An nella XVI Legislatura, Presidente della Fiera del Levante e Presidente dell’Acquedotto Pugliese, in questa conversazione con Prima di Tutto Italiani racconta la sua esperienza, non solo dal punto di vista professionale ma anche sociale.
La pasta finalmente è diventato un prodotto globale e un piatto di pasta su quattro nel mondo è italiano. Si sente un ambasciatore del made in Italy?
Certamente. La Divella è presente in 125 stati come Canada e Sudamerica, fino alla Nuova Zelanda. Ci manca l’Africa sub sahariana perché vi è una concorrenza violenta da parte della Turchia, che è diventata il terzo produttore di pasta dopo le difficoltà per la sua adesione all’Ue. In quel paese vi sono anche produttori italiani che operano e hanno agevolazioni nell’export e forti dazi all’ingresso. Per cui noi non esportiamo lì.
Quanto vi preoccupano i nuovi dazi di Donald Trump?
Da ciò che si legge non dovrebbero toccare un prodotto come la pasta, mentre invece solo olio e formaggi, quindi per noi non sarebbe un problema. Gli americani praticano l’anti dumping quindi tassano nel momento in cui si portano attacchi, sotto forma di concorrenza sleale, al prodotto fatto su suolo Usa. E applicano una penale in caso di azioni di disturbo simili. Gli Stati Uniti sono un mercato sì importante ma non è il primo che importa la pasta italiana.
La Libia era un altro grosso importatore di pasta italiana.Adesso?
Dopo la crisi degli ultimi mesi non lo è più. E pensare che lo scorso febbraio avevamo inviato un containers in Libia, ma adesso si vedono le stesse congiunture di quando fu deposto Gheddafi. Ma penso anche al Venezuela, altro grande importatore: al momento è tutto fermo per il caos politico di Caracas. Mi auguro sempre che i cinesi, un miliardo e mezzo di cittadini, arrivino a consumare almeno un chilo di pasta a testa all’anno: a quel punto mi toccherebbe realizzare altri due pastifici.
E invece?
Invece la Cina utilizza sì pasta italiana ma solo sull’area di Honk Kong e verso il Giappone, altro grosso importatore. La cucina italiana a Tokyo ha registrato infatti un significativo boom, così come in Corea, Malesia, Indonesia: tutti paesi di forte importazione di pasta italiana con contratti biennali. Tra l’altro siamo l’unica nazione che ha una serie di formati tipici regionali, che ci portano ad organizzare la produzione di ben 115 formati: la cucina italiana è sostanzialmente a forte vocazione territoriale, con specificità diffuse e qualitative ormai riconosciute. La cucina pugliese, che io amo, è diversa dalle altre.
Siete il secondo gruppo in Italia per volumi di pasta venduta dietro Barilla, premiati anche all’estero come in occasione del Prix ottenuto per la pasta al curcuma. Un’evoluzione mirata?
E’stata un’esigenza del mercato soprattutto per la clientela femminile che ci portò a inventarci gli spaghetti al curcuma, che però non sono un prodotto globale, ma solo richiesto in Germania e Italia, due Paesi sensibili a queste innovazioni. Una piccola percentuale, difronte al fatto che la Divella produce e vende 400 milioni di pacchi all’anno, di cui il 65% in Italia e il 35% all’estero. Nonostante il lieve calo dei consumi italiani, passati a 24 chili annui a testa da 28, stiamo parlando sempre di numeri significativi, calcolando che è una media. Sicuramente al nord staremo sui 19 mentre al sud sui 30.
Quale la maggiore criticità dal punto di vista logistico?
Nel tacco d’Italia abbiamo uno svantaggio: in Puglia manca una portualità armonica. Bari è stracolmo per le crociere, Brindisi idem. A Taranto sono stati commessi molti errori: c’era una compagnia, la coreana Evergreen, che ha preferito traslocare in Grecia al Pireo. Da Presidente della Fiera del Levante ricordo come il costone balcanico si è trasformato nel tempo. Penso all’Albania, che oggi tutti mi dicono sia irriconoscibile per lo sviluppo accusato. Ai tempi del crollo della dittatura come succedaneo della pasta lì mangiavano le patate, mentre i più poveri si nutrivano anche di radici ed erbe. Oggi è tutto cambiato e carichiamo anche una nave al mese diretta nel paese delle aquile oltre che anche in Kosovo, Romania e Bulgaria con tutti i prodotti Divella.
Si sente accompagnato da un punto di vista istituzionale quando in giro per il mondo lei promuove non solo il suo brand ma anche il suo Paese?
In giro per il mondo di catene italiane di supermarket non ce ne sono: presenti invece francesi e tedeschi. Carrefour ad esempio è il player con più punti vendita in Cina. Una criticità che somma al fatto che l’Italia è uno stivale: se fosse stato un rettangolo, confinante con Francia e Austria, per noi sarebbe stato più semplice far partire le merci e io avrei giocato ad armi pari con Barilla. Invece per inviare un camion di merce in Germania devo sostenere spese su gomma per circa 600 euro in più rispetto a Barilla che si trova a Parma.
Dopo l’arrivo di Cosco China a Pireo cosa cambia per le imprese che si affacciano sul Mediterraneo?
Ciò che non ho mai compreso dell’Italia è perché sul Tirreno vi siano porti dalla Liguria sino a Gioia Tauro, mentre sulla dorsale Adriatica, che si collega al Mediterraneo, l’ultimo è Ancona. Per poter esportare siamo costretti a caricare i containers per l’estremo Oriente su piccole navi che scaricano al Pireo. Ciò comporta una quindicina di giorni di ritardo rispetto, ad esempio, a quando l’Evergreen era di stanza a Taranto. Noi abbiamo una sede in Australia e se aggiungiamo quei quindici giorni di ritardo ai venti giorni che già occorrono di navigazione, accumuliamo parecchio tempo in più per raggiungere Melbourne o Sydney: circa un mese. Noi del tacco d’Italia abbiamo una situazione sfavorevole. Il benessere diffuso non si può raggiungere solo con agricoltura e turismo, ma occorre una infrastrutturazione armonica e intelligente.
L’automazione esasperata coma ha cambiato un’impresa come la sua?
Quando sono entrato in fabbrica c’era il capo pastaio, solitamente di origine napoletana, che assaggiava personalmente la pasta e con i denti la saggiava. Adesso c’è una automazione spinta, perché la regolazione nella linea di essiccamento viene comandata dal computer che apre e chiude il calore a seconda dei dati e dei singoli formati. La prima automazione è intervenuta quando i pacchi non si sono più inseriti a mano nei cartoni. Visitando uno stabilimento all’avanguardia come la Divella si può notare che i lavoratori non svolgono funzioni manuali, ma seguono la linea per intervenire solo in caso di emergenza. Ora l’ultima evoluzione è rappresentata dai robot che stiamo collaudando in questi mesi che devono spostare materialmente la pedana con i pacchi di pasta, “leggendo” il codice infrasrossi apposto.
Più i pro o i contro?
Non credo che questo passaggio porterà ad una diminuzione di personale, ma certamente ad una grande richiesta di iper specializzati, come meccatronici ed elettromeccanici. Un tipo di manodopera che non è semplice trovare nel Mezzogiorno d’Italia, dove abbonda la manovalanza. In un’azienda come la anostra occorre una formazione super qualificata.
Delle merci in treno cosa pensa, potranno essere utili ad un business come il suo?
Con Natuzzi abbiamo fatto grandi battaglie in passato. Una di esse ci consentì di portare assieme i nostri containers in treno fino al porto di Napoli. Chiusa Natuzzi il discorso finì. Per cui oggi se io volessi inviare merci al porto di Salerno o Napoli dovrei spedirle su gomma e non su rotaia. Non è agevole.
Alla luce della sua decennale esperienza, quale il consiglio che si sente di dare a quegli italiani, anche di seconda generazione, che fanno impresa all’estero?
Questa fabbrica per me rappresenta una passione smisurata: è il punto di partenza, magari occorre anche il sostegno della propria famiglia. Ma senza passione non si può fare questo mestiere. Personalmente più di un lungo fine settimana di ferie non mi concedo, anche perché mi annoio. E poi le confesso un segreto: la mia vita è in questa fabbrica.