Di Paolo Falliro
L’irrilevanza italica nello scacchiere internazionale dell’ultimo ventennio, di per sé pericolosa in quanto priva di una visione strutturale, si sta sommando or ora ad un appiattimento verso due players come Cina e Turchia che nelle rispettive macro aree, ma con chirurgiche proiezioni nel Mare Nostrum, affondano con una strategia altamente invasiva.
La postura di Ankara sul gas rappresenta un rischio e non un vantaggio per l’Italia, perché ci mette sotto lo schiaffo di Erdogan in Libia, dove l’Eni rappresenza un’eccellenza che meriterebbe un governo all’altezza, ovvero dotato di una progettualità congeniale alle qualità della sua azienda. Gli sforzi compiuti nell’ultimo lustro sulla Libia da parte dei governi italiani si sono rivelati debolissimi, e lo dimostrano i risultati che sono giunti dopo ad esempio la Conferenza in Sicilia dall’allora ministro Alfano, come appunto l’inserimento di Ankara in un quadrante dove invece Roma aveva tutte le carte in tavola per giocare un ruolo (che non gioca e non giocherà).

Con Pechino la contingenza è sotto gli occhi di tutti: il mancato rifiuto ufficiale italiano del 5G cinese, che ha provocato forti tensioni con Washington, è un ulteriore segno di questa deriva (senza dimenticare gli accordi firmati da Bergoglio).
Situazione che impatta anche sulle nostre infrastrutture: il progetto della Via della Seta sta interessando il porto di Taranto. Ecco che dopo la presenza cinese al Pireo con Cosco, il “molo” jonico è entrato nel cono di interesse, militare prima che civile, della Cina.
Uno scenario su cui si abbatte la sordità della Farnesina, che ha imboccato una strada complessa e altamente rischiosa, in un momento di per sé già arzigogolato, caratterizzato dalla crisi sanitaria che ha sconquassato le economie del mondo.
Nel luglio scorso dal tavolo Ue con Ursula von der Leyen e David Sassoli, Angela Merkel era emerso l’inizio 2021 come data per l’avvio del Recovery Fund. Molteplici sono le voci che vorrebbero la manovra rinviata, con altri problemi di “ossigeno” per le imprese di tutta Europa.
Attenzione però a non sottovalutare il binomio pandemia-geopolitica. A chi non farebbero comodo in questo momento nuove risorse dettate da processi di privatizzazione? Il nodo però verte sulla mente che ne decide modi e tempi.
Pensare di inglobare in un processo di privatizzazione utilities strategiche come porti, infrastrutture digitali e tecnologiche significa mettere a rischio la nostra sicurezza nazionale. E’questo un punto su cui non dovrebbe esserci dibattito.
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