di Enzo Terzi
Nel numero precedente di “Prima di tutto italiani” (febbraio 2017), raccontando di Francesco De Sanctis e proponendo una sorta di paragone tra la sua epoca, quella risorgimentale (e post-risorgimentale), e la nostra, ebbi così ad esprimermi: “Se ancora ai tempi di De Sanctis erano gli uomini a gestire la storia, oggi lo sono gli oggetti o, almeno, il potere di averne”.
Talvolta la casualità delle cose umane propone episodi che, seppur da lasciarsi alla responsabilità del caso, quanto meno fanno sorridere. Ebbene, nel tentativo questo mese, di tracciare qualche spunto di riflessione dalla figura di Federico Caffè, insigne economista italiano di cui quest’anno si compie il trentennio dalla scomparsa, mi trovo, tra le citazioni a lui attribuite, questa frase: “Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili”. (vedi MicroMega, febbraio 2013)
Pronto dunque a formulare il più sacro dei giuramenti che di assoluta concomitanza casuale si sia trattato, resto affascinato nel rendermi conto che Caffè aveva, in Italia, non più di quaranta anni fa, ampiamente teorizzato e sostenuto un sistema economico che tenesse conto, appunto, non tanto dei numeri (leggi “della moneta”), quanto dell’uomo (leggi “popolazione”).
Come per la maggior parte degli economisti (o almeno di taluni, come ad esempio Alessandro Roncaglia o Bruno Amoroso), di Caffè se ne conosce poco o nulla – almeno noi che apparteniamo al grande gruppo di coloro che in altre faccende si sono fino ad oggi affaccendati. Ora perché l’economia è divenuta più di altre una materia ostica, ora perché i media degli ultimi decenni hanno presentato (per scelte editoriali) alla ribalta popolare unicamente personaggi che ci hanno stordito con rappresentazioni del nostro crescente impoverimento in modo talmente criptico che è parso, spesso, di aggiungere al danno la beffa del sentirsi ignoranti, ora perché quasi mai si è sentito parlare di uomini e donne ma solo di mercato. E per mercato – beninteso – si intenda quello monetario, ovvero un mondo dal quale il 95% delle popolazioni è escluso se non per le conseguenze, per lo più nefaste.
Scoprire l’opera di Federico Caffè, pur senza addentrarsi nei meandri oscuri di una materia e di una terminologia che richiederebbero un tempo e una predisposizione d’animo non concedibili in questa sede, è stato confortante e al contempo deprimente. Confortante perché nel cercare di cogliere lo spirito umanista che era alla base della sua economia sostenibile si riaccende la possibilità di capire che esistono alternative a quanto sta accadendo alla qualità della nostra vita, deprimente perché ad esclusione del seppur nutrito gruppo di suoi sostenitori post-mortem, non se ne sa assolutamente niente ed anzi, vi è da credere che ne se ne tenga debitamente occultato il pensiero, relegandolo al piccolo mondo degli storici dell’economia e dei ricercatori. Non si tratta di celebrare la “verità” di Caffè né di accettarne un metodo che già oggi, a distanza di pochi decenni dalla sua enunciazione, sarebbe da rivedere, quanto di cogliere lo spirito profondo – che lui tiene sempre presente nelle sue formulazioni – di coesistenza tra l’economia e il benessere sociale al quale la stessa deve tendere per definizione o, quanto meno, per ricaduta.
Professore di Economia alla Sapienza di Roma oltre che incaricato presso il Governo e la Banca d’Italia, Caffè viene universalmente ricordato come persona fervente sostenitrice dello Stato al quale attribuiva il ruolo fondamentale di essere strumento indispensabile per la coesione e la crescita sociale. Scomodo per la sua avversione al neoliberismo sempre più sfrenato che stava già dagli inizi degli anni ’80 fagocitando il sistema economico dei paesi (e in particolare quelli che, come l’Italia, avevano già un pesante debito pubblico), affermava che il “mercato” era una invenzione, era il sistema che gli oligopoli si erano inventati; non a caso nei suoi Scritti Quotidiani, scriveva: “Ma, in verità, senza affrontare livelli più approfonditi di indagine, il semplice buon senso dovrebbe far comprendere che, in un mondo e in una economia di oligopoli, la borsa non può che esserne il riflesso. Cercarvi, quindi, un vigore e una funzionalità di tipo concorrenziale costituisce una contraddizione in termini”. Non accettava le imposizioni dei vari organismi internazionali come il Fondo Monetario e la Commissione Europea. Affermava che la politica economica doveva controllare i mercati per evitare che le risorse finanziarie venissero destinate più ad attività speculative (il mercato degli oligopoli) più che non a quelle produttive.
Nell’universo economico viene ricordato come un consapevole seguace dell’economista inglese Keynes, colui che sostenne, rivoluzionando i canoni dell’economia classica, che lo Stato doveva necessariamente intervenire nella politica monetaria e di bilancio quando in un sistema capitalistico non veniva garantita la piena occupazione, in particolare nei momenti di crisi.
Anche Caffè sostenne pervicacemente che la protezione sociale doveva essere garantita dallo Stato. La sua formula, ahimè, in taluni passaggi oggi fa quasi sorridere perché in estrema sintesi ipotizzava, tra l’altro, una maggiore tassazione della ricchezza a vantaggio dei ceti più deboli. I modelli di intervento della politica nella sfera sociale – affermava ripetutamente – devono essere al servizio della persona.
E per fugare dubbi che potrebbero venire nel leggere tali parole va altresì ricordato che Caffè rifiutò l’appartenenza ad ogni e qualsiasi schieramento politico (impedendosi così anche una carriera parlamentare) ed a ben poco può servire ritenerlo vicino alla sinistra o alla destra quanto meno per come, le stesse – laddove esistano ancora – ci appaiono oggi. Ebbe il buon senso di rifiutare tutti e di accettare tutti i pareri. Scriveva su l’Ora, su Il Messaggero e su Il Manifesto, dai suoi corsi sono usciti tanti dei volti dell’economia italiana ed internazionale. Tra di loro vorrei menzionarne due perché mi sembrano rappresentativi e fondamentalmente di opposta tendenza: Mario Draghi, attuale presidente della Banca Centrale Europea e Bruno Amoroso (deceduto nel gennaio di questo 2017) noto come non solo l’allievo che più ebbe a stringere rapporti con Caffè anche dopo il periodo universitario tanto da diventarne una sorta di agiografo ma anche perché, in qualità di docente di economia all’Università di Roskilde in Danimarca dal 1972 al 2007, ha proseguito nelle teorie del proprio mentore. Di entrambi questi nomi vorrei ricordare recenti episodi legati alla figura di Federico Caffè.
Mario Draghi, in occasione della celebrazione tenuta a Roma per il centenario dalla nascita di Caffè (Aula Magna della Scuola di Economia e Studi Aziendali «Federico Caffè», Roma, 12 novembre 2014), così si pronunciò: “…cosa fare per porre rimedio alle disuguaglianze ma anche alle inefficienze: questa era la politica economica di Federico Caffè, questa è oggi la Politica Economica nella sua definizione più alta. […] È con questa eredità di pensiero che ci confrontiamo ed è con essa che oggi desidero condividere con voi l’azione che la BCE ha intrapreso per rispondere alla crisi nella quale l’area dell’euro e specialmente l’Italia versano, da ormai molti anni. […]La BCE ha reagito alla crisi su tre fronti.
Per quanto riguarda la politica monetaria cosiddetta convenzionale, ha abbassato il livello dei tassi di interesse dal 1,5% nel novembre 2011 al 0,05% oggi. Ha ridotto il tasso pagato dalle banche per i loro depositi presso la stessa BCE da 75 punti base nel novembre 2011 a -0,20 oggi. Ha attivato inoltre già alla fine del 2011 linee di credito per il sistema bancario per 1 trilione di euro, per una durata di 3 anni che non ha precedenti. […]Ma gran parte delle misure intraprese può avere effetto sull’economia reale solo attraverso le banche, che nell’area dell’euro intermediano circa l’80% del credito. Solo se esse trasmettono a famiglie e imprese le condizioni straordinariamente espansive sia in termini di tasso di interesse, sia di durata, sia di quantità disponibile che la BCE offre loro, la politica monetaria risulta pienamente efficace nella sua azione di stimolo. Perché ciò avvenga occorre non solo che vi sia domanda di credito da parte di clienti in grado di restituirlo, ma che le banche stesse siano sane…”.
1 trilione di euro!!! Le banche sane!!!Il prof. Caffè avrebbe non poche domande; ciò che è chiaro è che per Draghi la soluzione passa attraverso il sistema monetario e quello delle banche, senza soffermarsi ad indagarne la proprietà che, occorre ricordare, è oggi squisitamente privata. Il sistema politico e con esso lo Stato, di fatto non hanno più potere alcuno.
Di tutt’altro avviso il prof. Amoroso che in un’intervista del 2012 (qui rintracciabile: http://www.sinistrainrete.info/europa/2317-bruno-amoroso-crisi-mondiale-e-crisi-delleuro.html): “Le politiche attuate dall’UE e dalla Banca Centrale Europea preparano la nuova ondata di speculazioni che stanno di fatto foraggiando e dando soldi alle grandi banche, e cioè ai centri della finanza speculativa, e facendo riacquistare ai cittadini europei i titoli spazzatura per reimmetterli poi in circolazione. […]Di “realistico”, oggi, c’è solo il default che stanno organizzando e, di conseguenza, la dissoluzione dell’euro e del progetto europeo nel suo complesso. Il problema è se si può preparare un’alternativa e quale debba essere. Su questo ci sono tre proposte. […]La seconda, quella più diffusa tra gli economisti e di buon senso, propone un ritorno al sistema monetario europeo di dieci anni fa, cioè prima dell’euro, con 27 valute nazionali legate da un patto di cooperazione con margini di variazione del +/- 15 % (come avviene oggi nel rapporto tra l’euro e la moneta nazionale danese) e criteri di flessibilità (tipo quelli esistenti oggi con la Svezia). […] Questo sistema, simile al vecchio Serpente Monetario Europeo, andrebbe accompagnato dalla costituzione di un Fondo di Solidarietà tra gli Stati che preveda il versamento di quote da parte di paesi con eccesso di surplus o di deficit per sostenere la ripresa dei sistemi produttivi nei paesi più deboli e svantaggiati. La vitalità del sistema europeo andrebbe ristabilita riportando la BCE a un semplice ruolo di coordinamento delle politiche monetarie degli Stati per conto della Commissione Europea, e le Banche Nazionali dovrebbero essere sciolte e riportate a funzioni amministrative all’interno dei ministeri del Tesoro dei singoli Stati. Questo significa togliere a questi istituti ogni autonomia dai sistemi politici e dalle politiche economiche dalle quali devono, ovviamente, dipendere. Ridare autonomia alla politica dal sistema finanziario significa anche rendere possibile la ripresa dello spirito e ruolo etico della pubblica amministrazione al servizio dei cittadini. L’eliminazione dei corruttori renderà possibile la scomparsa dei corrotti della politica e delle istituzioni…”.
Fedele alle teorie di Caffè, fondamentale, in specie per le vicende italiane ultime scorse, l’assunto in base al quale “Ridare autonomia alla politica dal sistema finanziario significa anche rendere possibile la ripresa dello spirito e ruolo etico della pubblica amministrazione al servizio dei cittadini”. Uno dei temi che tanto premevano a Caffè è che oramai (ed eravamo solo agli inizi degli anni ’80) si finanziava non per produrre ma per speculare. Questo meccanismo che si è aggravato fino ai giorni nostri ha completamente svuotato di ogni etica non solo il sistema economico ma anche la politica e, soprattutto la società dove oramai la lotta più feroce è tra le classi meno abbienti. E’ questa la logica del “praticabile immediato” che avvantaggia unicamente chi può speculare. E’ il rifiuto del “possibile complesso” che invece scardina i sistemi cercando di ricomporre principi di equità ed anche di solidarietà.
Il “praticabile immediato” è la soluzione veloce che si traduce poi in misure di austerità che ricadono inevitabilmente sulle fasce più deboli della società, fasce sempre più larghe, senza che contestualmente, non venga avviato alcun cambiamento perché di risorse non ce ne sono. Il finanziamento o rifinanziamento copre speculazioni non andate a buon fine e non si distribuisce nel tessuto sociale su cui, per conseguenza, va a gravarsi un sempre maggior debito. Non si trasforma in lavoro e in dignità. Non si trasforma in equità fiscale. Il “possibile complesso” è lo svincolo della politica dalla finanza, è l’eliminazione del potere dei numeri sull’uomo, è l’utopia di Caffè che preferiva chiudere le Borse, che auspicava la nascita di un Fondo Europeo di Solidarietà per aiutare i paesi in difficoltà.
Non saranno le banche “sane” (termine questo che Draghi dovrebbe avere il dovere di spiegarci cosa significa) in quanto imprese private dedite al profitto, che porteranno all’uscita di una crisi che esse stesse hanno prodotto. Oggi, dopo che in questi ultimi anni l’esperimento Grecia ha manifestato le conseguenze che tutti sapevano, dopo che Spagna, e Portogallo sono anch’essi passati sotto le forche caudine, in vista di un possibile crollo dell’Italia, si comincia a parlare di soluzioni alternative, di euro a due velocità, della possibilità di tornare alle monete nazionali e di altre soluzioni, più o meno avventurose. Schiacciati da derive nazionaliste che stanno incrinando anche la “cristallina” Olanda oltre ad una Francia che oramai da un pezzo vive questa possibilità; costretti da una Gran Bretagna che ha autorevolmente preso le distanze; spiati dai paesi scandinavi che hanno ben chiare le loro idee in merito a problemi quali l’immigrazione alla quale, di fatto hanno chiuso le porte; osteggiati ovviamente da una Germania che se dovesse perderci sarebbe costretta a vendere le proprie BMW e Mercedes in nord Africa, ebbene solo adesso, soltanto adesso, vicini alla ahimè famosa “canna del gas”, ci si ricorda di persone come Federico Caffè, nelle cui lezioni, “economia”, “equità” e “solidarietà” andavano per mano.