L’abitudine ad una certa lettura dei fatti storici limitata agli avvenimenti di grande impatto, ancorché necessaria, spesso ci esclude da una serie anche numerosa di avvenimenti che pur passando spesso sotto silenzio, sono destinati a lasciare tracce ancor più profonde.
E soprattutto i periodi caratterizzati da guerre, dittature ed altri simili dolorosi avvenimenti e periodi, non lasciano trapelare il fatto che gli stessi, con la fluttuante e instabile situazione economica che producono, alimentano invece spesso le condizioni affinché certe imprese, certe grandi imprese, possano trovare il modo di prendere avvio. Sappiamo come ad ogni evento bellico si accompagni sempre un grande sforzo economico che le parti in causa si trovano a sostenere ma, nel contempo, ciò porta anche allo sviluppo di certe attività industriali e manifatturiere legate, quanto meno dalla contingenza, alla produzione di quanto una guerra richiede e che in seguito, spesso ritroviamo convertite ed adattate a produzioni di impiego civile. Il caso italiano è, non meno di altri, parimenti emblematico.
E tra i fatti simbolici, l’uno a distanza di un decennio dall’altro, tre risultano particolarmente emblematici: nel 1917 prende avvio il grande progetto industriale di Marghera, nel 1927 viene inaugurata la direttissima ferroviaria Roma-Napoli e nel 1937 nasce Cinecittà.
Tre avvenimenti, il primo dei quali simboleggia il consolidamento dell’industria italiana, il secondo che interpreta lo sviluppo delle infrastrutture ed il terzo infine, che aprendo alla settima arte, simbolo di intrattenimento e di comunicazione del nuovo secolo, scardina le precedenti relazioni socio-culturali aprendo a più sofisticate forme di informazione o di intrattenimento, segnale questo di una nazione che presume di potersi permettere di investire oltre le necessità dell’economia. Tre passaggi progressivi che si fanno emblema di tre tappe importanti nella crescita di un pese: la gestione delle materie prime e dell’energia, l’organizzazione strutturale interna ed infine la comunicazione istituzionale e culturale su larga scala.
Poco ha a che vedere il contesto politico in sé poiché, com’è ovvio che sia, è scontata la sua partecipazione alle opportunità che gli industriali vengono ad offrire. L’uso che se ne farà in definitiva a quest’ultimi non interessa e molto spesso neanche a chi, grazie a queste opportunità troverà lavoro ed una maggior dignità nella propria vita. Una condizione di questo genere potrebbe anche oggi considerarsi valida – se non fosse che sarebbe necessario addentrarsi in considerazioni di spirito socio-filosofico ma pericolosamente ammiccanti a polemiche senza fine. Esempio su tutti l’industria degli armamenti che anche in Italia è uno dei comparti economici che non solo non conosce turbe di stabilità ma, al contrario, è una di quelle che maggiormente contribuisce alla tenuta del pil con buona pace dei lavoratori addetti e della dirigenza e grande tensione da parte di pacifisti e ideologi di varia natura.
Torniamo al 1917, cento anni sono passati da quando il 2 agosto 1917 la Gazzetta Ufficiale recitava: “Lo Stato concede […] alla Società Anonima […] [si diceva nella convenzione] denominata ‘Porto industriale di Venezia’, la costruzione delle opere del nuovo porto di Venezia, in regione di Marghera” e “cederà alla ‘Società Porto industriale di Venezia’ a semplice rimborso di spesa, le aree comprese nei confini della detta zona, da esso già espropriati per i lavori […], e quelle che si dovranno ulteriormente espropriare per la esecuzione ed a carico delle opere portuali concesse”.
La guerra dunque, in pieno corso, anzi, prossima alla ottobrina disfatta di Caporetto, in certo qual modo servì da incentivo: la disfatta che aveva portato con sé la perdita di innumerevoli centrali elettriche e quindi aveva pesantemente inficiato la capacità italiana di produrre energia, divenne un acceleratore della spinta finanziaria, occasione questa colta al volo da chi deteneva capitali e che in simile frangente, avrebbe sicuramente ottenuto condizioni di tutto vantaggio.
Ma il bacino di Venezia non era certo l’unica enclave industriale della penisola. Già Torino ad esempio sia per il consolidamento della FIAT (nata nel 1898) che per il fiorire di industrie manifatturiere e dolciarie ancora conservava l’eredità di un territorio che era stato centro non solo politico dell’Unità Italiana. Torino non ebbe egual fortuna nel profittare della situazione finanziariamente favorevole: una già consolidata presenza sindacale e, nel 1918, l’epidemia di influenza spagnola, costituiranno impedimento a certa libertà d’azione che invece, sul versante est della penisola notoriamente più assetato di sviluppo ed ancora profondamente radicato nell’economia rurale, accoglierà con spirito più innocentemente colmo di speranza l’avvento di Marghera.
Il polo industriale non nasceva tuttavia da una serie di contingenti e fortunose condizioni. Già dagli inizi del ‘900 quel ruolo commercialmente strategico nel Mediterraneo che Venezia era riuscita a conservare anche se ridotto a pallide vestigia degli splendori della Serenissima oramai decaduta a fine ‘700, unitamente alla spinta impressa alla Banca Commerciale Italiana, contribuirono non solo alla nascita di una industria dell’energia ma, e soprattutto, al fiorire dell’idea che quello sarebbe stato luogo ideale per la lavorazione delle materie prime.
Marghera rappresentò dunque il concreto risultato di una serie di investimenti articolati, che avevano permesso nel corso degli anni precedenti, di creare quelle strutture sia energetiche che finanziarie atte a realizzare tale progetto. E senza dubbio alcuno, ancora una volta, la contingenza della guerra aveva svolto il suo ruolo – ed ancora lo svolgerà pienamente negli anni seguenti – di volano produttivo.
Inoltre, il respiro internazionale che il progetto aveva assunto, per gli investimenti stranieri che vi confluirono e per l’intenzione di diventare polo industriale di riferimento per tutto il bacino adriatico (complice qui l’arretratezza dei paesi confinanti) ma anche per l’oculatezza dei suoi promotori che realizzarono importanti partecipazioni in aziende quali ad esempio la fiorentina Galileo, Marghera riuscì, a pieno titolo, a diventare una delle più grandi opportunità non solo di crescita interna in termini di PIL e di lotta alla povertà orami cronica delle campagne, ma anche di volano per proiettare il paese tra le nazioni moderne. Alle aziende locali si affiancarono dunque i grandi gruppi italiani: dall’Ansaldo alla Terni, dagli Alti forni di Piombino alla Ferriere piemontesi, dalla Tosi di Legnano alla Odero di Sestri Ponente.
Dieci anni dopo, i numeri già presentano una situazione chiara: 55 erano le industrie collocatesi con 4.880 addetti. Dal 1928 inizieranno le sinergie con i grandi gruppi europei tanto che, proprio nel momento della grande crisi iniziata negli Stati Uniti nel fatidico 1929, Marghera appariva invece ormai configurata nelle sue fondamentali caratteristiche di polo elettrometallurgico, chimico, metallurgico, cantieristico, petrolifero, pronta a proporsi come uno dei perni dell’economia autarchica.
La forza lavoro, per la quale c’era sempre una maggior richiesta, non poteva essere raccolta soltanto nel bacino veneto, oltre tutto già in buona parte specializzato e quindi di alto costo, ma venne massicciamente recuperata all’interno di quel mondo rurale che, nonostante l’opera di razionalizzazione operata dal regime in funzione autarchica, versava sempre in condizioni di persistente povertà e pertanto si proponeva come riserva a basso costo, ad alto rendimento fisico e di più facile inquadramento disciplinare essendo del tutto – o quasi – ignara delle dinamiche sindacali. In altre parole, affamata e che non guardava troppo per il sottile in merito alle condizioni di lavoro. Fu tuttavia proprio in relazione al grande progetto autarchico che il governo Mussolini stava attuando, al punto che come raramente capita, non v’era conflitto di interessi tra finanza privata ed obiettivi pubblici, che si verificò, di fatto, soltanto uno spostamento del problema.
Le campagne, duramente provate dagli anni di guerra e dalle precedenti migrazioni, si trovarono spopolate al punto che la produzione di beni di prima necessità come il grano ad esempio, segnarono il passo. A nulla o poco valse il grande progetto di bonifica di interi territori per richiamare forza lavoro che tornasse a dedicarsi all’agricoltura. Le importazioni crebbero in maniera vertiginosa, soprattutto quelle di generi alimentari. Il bilancio dello stato si mostrava ancora una volta squilibrato e la grande spinta in senso industriale veniva ricompensata da una rapida caduta della produttività agricola ben sotto il fabbisogno nazionale. Il malcontento che prima era principalmente caratteristica dei lavoratori della terra, aggredì il comparto industriale e manifatturiero ed iniziarono le grandi lotte operaie.
La svolta autoritaria del 1922 trovò alimento in questa complessa situazione sociale fatta di elementi ideologici ed economici, tutti esasperati dalle conseguenze della guerra che avevano accentuato gli squilibri. Era la fine dell’illusione liberale dei governi d’anteguerra, governi oramai vuotati di ogni prerogativa se non quella di far fronte all’emergenza a suon di decreti legge e di agevolazioni verso la ricchezza privata, che in cambio dell’illusione di una espansione che potesse assorbire forza lavoro e, conseguentemente, rimettere in moto dal basso l’economia, in realtà non aveva prodotto altro che uno spostamento tra le voci deficitarie del bilancio statale.
Fenomeni che in altri paesi si erano prodotti nell’arco di una o più generazioni, in Italia, complice la spinta della guerra, si erano forzatamente prodotti nell’arco di pochi anni. Campagne svuotate, urbanizzazione frettolosa del tutto mancante di infrastrutture e successivo esodo inverso con il ritorno alla campagna per saturazione di un comparto industriale che non aveva i mezzi per poter, oltre tutto, operare una rapida riconversione spostando la produzione dal comparto bellico a quello civile.
In questo grande caos economico e sociale, su tutto si avvertiva la mancanza di una impostazione politica e sociale di lunga scadenza ed in questo clima, la marcia su Roma divenne momento di raccolta di tutti gli scontenti, panacea di tutte le esasperazioni, strada percorsa da fazioni pure ideologicamente distanti, di fronte ad un ceto politico ed intellettuale oramai svuotati di ogni prerogativa e di ogni autorevolezza. In sintesi, sia i grandi gruppi industriali che gli accesi nazionalisti rifiutavano entrambi sia la continuazione di una politica di “salvataggi”, sia la gestione di una inevitabile “crisi” che a detta dell’ormai sparuto gruppo liberale, sarebbe stata tappa necessaria per permettere la grande riconversione del paese.
Marghera e le altre grandi realtà industriali resistettero e crebbero non solo per la politica di agevolazione fiscale che il governo continuava ad elargire ma anche per la deriva autoritaria che aveva in parte almeno, soffocato le opposizioni di qualsiasi genere, superando il dibattito legislativo con l’obbligo ideologico. Non fu in realtà un periodo di lunga sofferenza industriale per i poli industriali come Marghera: alla momentanea riconversione a scopi civili, già dagli inizi degli anni trenta, una riscoperta velleità colonialista aveva prodotto un nuovo impulso a quella attività bellica sulla quale aveva mosso i primi passi e da quel periodo fino al 1942 fu una crescita costante.
Dopo la guerra, con un paese che doveva ricostruirsi dalle fondamenta, spaccato socialmente, finito economicamente e politicamente, preda degli aiuti “alleati” tanto necessari quanto poi pagati a caro prezzo, Marghera ricominciò, stavolta non con la sola preoccupazione di una riconversione della produzione, ma con l’enorme problema della ricostruzione, a seguito dei continui bombardamenti che avevano lasciato grandi cumuli di macerie.
Così recitava un memorandum dell’Associazione Industriali Veneta dell’11 novembre 1945: “… Alla riparazione degli impianti colpiti in terraferma si è alacremente provveduto, superando difficoltà notevoli e talvolta gigantesche, ma addivenendo comunque entro pochi mesi a un riassetto ben più che sommario.
Qualche ritardo si è verificato […]. Hanno influito in tal senso: a) l’impossibilità di sostituire determinati impianti distrutti o recuperarne altri asportati, b) la disorganizzazione quasi completa del sistema stradale, ferroviario e portuale, c) certa irrequietezza delle maestranze, sul piano economico e su quello sociale, d) l’assenza di congrue scorte di materie prime, e) l’insufficienza, assoluta e relativa, delle assegnazioni di combustibile da parte degli Alleati, f) i perdurati intralci alla ripresa degli scambi con l’estero …”.
Marghera dunque, come poche altri insediamenti produttivi, racconta la storia del Paese: osservandone nel tempo i momenti di crescita, di stasi, le conversioni della produzione, il cambio delle politiche aziendali, si percepisce quanto accade in tutto il Paese, ovvero i cambiamenti sociali, politici ed economici attraversati dall’Italia quest’ultimo secolo. Si intravedono tra vecchi e nuovi macchinari gli esodi e controesodi della popolazione, le ribellioni operaie, il mutamento tecnologico, le vittorie del Paese allorquando in più occasioni si è imposta come modello produttivo, le battaglie per l’ambiente, l’importanza che lo stesso ha oggi, rispetto alle priorità di un secolo passato tra l’ansia della ricrescita e il bisogno della speranza, l’angoscia della ricostruzione, la volontà manageriale e la capacità finanziaria. Si intravede anche la capacità manipolatoria dei governi che ora l’hanno spinta fino alle massime vette dell’eccellenza per poi additarla come capro espiatorio, covo venefico di sperperi, inquinamento, disparità sociali e morti per ingordigia.
Marghera è stata il monumento di quella “Morte a Venezia” che Thomas Mann ripropose in romanzo, resuscitata oggi e specchio della nuova realtà industriale del Paese fatto di piccole aziende. Su 780 aziende oggi presenti a Marghera oltre il 90% conta meno di 50 addetti il cui totale supera di poco i 10.000, poco più del doppio di quanti erano nel 1928.
Le grandi aziende sono sparite da Marghera, anzi quasi del tutto dall’Italia, scappate dietro all’investimento finanziario, generando come in una ruota infernale, nuove disoccupazioni, nuove migrazioni, risultato incredibilmente triste di un Paese che quando inventò Marghera, almeno coltivava il sogno e la volontà di non morire di fame.