di Vittorio Casali De Rosa
Chef Cristiano Venturi nasce a Fano, nelle Marche, studia all’alberghiero di Senigallia e poi al Bristol di Roma combinando pratica e teoria, studiando ed esperimentandosi in cucina nel pomeriggio. Dalla capitale con l’aiuto del direttore dell’istituto, inizia la propria carriera al prestigioso hotel Hermitage di Montecarlo, entra nella Federazione Italiana Cuochi e nella nazionale italiana cuochi. Nel 2001 viene nominato dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ambasciatore della cultura italiana nel mondo. Lavora come chef professionista in circa venticinque paesi per poi approdare nella Francia dell’Est, vicino al Lussemburgo dove lavora oggi ed è presidente della Associazione Professionale Cuochi Italiani Francia (APCI).
Cristiano la sua è una lunga carriera, come è cambiata la cucina italiana in questi anni?

La cucina italiana negli ultimi 25 anni è cambiata molto: siamo partiti da una cucina semplice, quasi da osteria, per andare verso cucine più ricercate, gourmet, la nouvelle cuisine e ora siamo tornati a valorizzare la piccola realtà, il produttore locale, il mulino o il caseificio specifico. Se c’è una cosa che è rimasta costante in questi anni è però lo straordinario interesse del pubblico internazionale verso il nostro patrimonio culinario ed enogastronomico. In tutti gli hotel di lusso, i resort migliori del mondo, si offre sempre la cucina italiana accanto alle altre grandi tradizioni gastronomiche mondiali: giapponese, francese, russa, thailandese.
Perché la nostra cucina è tanto apprezzata?
La nostra cucina, e questo è uno degli aspetti che più amo, è incredibilmente ricca e variegata, la nostra storia nazionale frammentata per tanti secoli ci ha offerto delle tradizioni gastronomiche che cambiano completamente da comune a comune, anche a distanza di pochi chilometri, seguendo gli usi o le fortune del territorio, la disponibilità di un alimento o di un metodo di conservazione. Io sono sempre stato un tradizionalista ed è in questa ricchissima tradizione che vedo tutto il nostro potenziale.
Un potenziale tanto grande che spesso basta anche per far ‘vivere di rendita’ produzioni che nulla hanno di italiano, ma sono quasi dei plagi: mi riferisco ovviamente al fenomeno dell’ Italian sounding, che ad oggi ha un volume di affari di circa 100 miliardi di euro, come combatterlo?
E’ un argomento molto complesso, soprattutto perché parlandone attraverso i media tradizionali è difficile far rendere conto della dimensione del problema ed essere presi sul serio, invece è un tema cruciale poiché non solo viene sfruttato illecitamente il marchio Italia, ma le vere caratteristiche del prodotto vengono mistificate, facendo credere ai consumatori di assaporare il prodotto italiano di alta qualità quando spesso sono solo pessime riproduzioni. Io penso che il metodo diretto più efficace sia combattere il fenomeno nell’immediatezza, spiegando e facendo toccare con mano il prodotto che vendo ai miei clienti e facendo loro capire la differenza fra una burrata di alta qualità ed una imitazione, ad esempio. Il mestiere del ristoratore è rimasto uno dei pochi che permette questo contatto e scambio reciproco, è un aspetto chiave da valorizzare.
Uno dei modi migliori è sicuramente quello di rifornirsi dai produttori migliori: lei come ha superato questo scoglio?
Mi sono sempre affidato a società esperte nell’import-export di prodotti alimentari tipici, che conoscono le regole doganali e sanno quali sono i parametri ed i documenti da avere per non far bloccare il prodotto, magari delle settimane, per controlli. Una volta ero in Siberia e cercai di far arrivare dall’Italia del pesce per un pranzo, la spedizione fu fermata alla dogana per dei controlli veterinari e quando è arrivato era andato a male. Per il cibo la logistica è fondamentale, ci vogliono società specializzate perché è tutto critico, soprattutto standard igienici e catena del freddo.
Le politiche dell’UE degli ultimi anni però non sembrano aiutare la tradizione enogastronomica né spesso i nostri produttori, da ultimo con le proposte per ridurre il contenuto alcolico nei vini o la commercializzazione di farina di insetti come alimento. Cosa ne pensa?
Io rispetto tutti: crudisti, vegani, chi ama e chi crea un prodotto che, passami il termine, è ‘insignificante’, ovvero è una semplice preparazione alimentare ottenuta con una certa quantità di proteine, di carboidrati, di aromi, un ‘vino non vino’ eccetera. Voglio dire, se questi alimenti rispettano dei parametri di salubrità per cui possono essere consumati allora buon per loro e per chi li acquista. Io però prediligo i prodotti tradizionali che hanno un sapore, una storia. Insaccati e prosciutti devono essere usati con moderazione, è vero, e allora quando vogliamo goderne che siano di alta qualità e non di produzione industriale. Discorso analogo per gli alcolici: è innegabile che l’abuso sia molto dannoso per la salute e allora ben venga la moderazione ma con prodotti che siano veramente all’altezza, piuttosto che con succo d’uva con qualche grado alcolico in meno.
Ha delle altre iniziative in preparazione?
Certo, con l’APCI sto cercando di organizzare un gemellaggio per favorire gli scambi fra l’istituto di cucina di Nancy e degli istituti alberghieri in Italia. L’obiettivo è quello di organizzare uno scambio di due settimane di studenti italiani per portarli a studiare in stage qui per approfondire la loro formazione e fare lo stesso con gli studenti francesi in Italia. E’ fondamentale favorire la mobilità internazionale, soprattutto per un settore a vocazione del mercato estero come quello in cui opero, gli allievi chef devono conoscere e capire i clienti stranieri, l’ambiente e la cultura per poi trovare il miglior percorso professionale per loro. Solo così la missione di ambasciatori dell’italianità nel mondo può continuare e rafforzarsi.
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