Bruxelles fa finta di non capire che l’Italia rappresenta un’unicum: siamo ricchi di residenze storiche di immenso valore artistico e culturale (lo sono praticamente tutte le abitazioni situate nei centri storici) che verrebbero devastate per la realizzazione degli interventi da una misura frettolosa e scomposta dettata più dall’isteria che dalla vera salvaguardia del pianeta.
di Vittorio Casali De Rosa
Da Marzo l’esecutivo Meloni I si trova a far fare i conti con la realtà a Commissione e Parlamento Europeo. Le ambizioni green di Bruxelles infatti hanno subito una brusca accelerata negli ultimi mesi alzando l’asticella, in vista della neutralità carbonica per il 2050 del continente, su due temi particolarmente cari agli italiani : gli immobili ed il settore automobilistico.
La proposta di legge approvata dal Parlamento Europeo il 14 Marzo prevede infatti l’obbligo per tutti i nuovi edifici privati di essere a ‘emissioni zero’ dal 2028 mentre per quelli già esistenti, un adeguamento ad almeno categoria D di prestazione energetica entro il 2033 (praticamente domani), pena l’inalienabilità dell’immobile.
Potrebbe sembrare un’ottima notizia se non fosse che per il patrimonio immobiliare italiano e per le tasche dei cittadini rasenterebbe la catastrofe. Ance stima infatti che circa il 40% (pari a 9 milioni) degli immobili attualmente costruiti sul territorio nazionale siano al di sotto della soglia fissata dall’istituzione europea, mentre per la Germania, ad esempio, solo il 5%. Considerando l’efficienza dell’utilizzo delle risorse della recente esperienza del bonus 110, per cui per interventi che hanno riguardato il 3.1% degli immobili sono stati spesi più di 71 miliardi, ai prezzi correnti la stessa associazione di costruttori stima provocatoriamente che la spesa supererebbe i 1500 miliardi a carico soprattutto dei cittadini, visto che il 71% degli italiani è proprietario della casa in cui vive.
Questo ben inteso a costi di manodopera e materie prime costanti, assunzione difficile in un contest di vera e propria ‘corsa alla ristrutturazione’ che il provvedimento scatenerebbe.

C’è poi da chiedersi dell’opportunità di tale misura in un paese ricco come il nostro di residenze storiche di immenso valore artistico e culturale (lo sono praticamente tutte le abitazioni situate nei centri storici) che verrebbero devastate per la realizzazione degli interventi da una misura frettolosa e scomposta dettata più dall’isteria che dalla vera salvaguardia del pianeta.
Le iniziative di adeguamento energetico, se veramente economicamente vantaggiose per I cittadini in un contesto di valorizzazione dell’energia, devono partire dalla libera iniziativa così da potersi adeguare al contesto in cui sono operate e dove, fra l’altro, spesso ci si potrebbe rendere conto di quali sono le vere urgenze del nostro territorio.
Una proposta per la vera sostenibilità ecologica e sociale delle abitazioni dovrebbe riguardare non solo la classe energetica (che poi spesso si riduce alla dispersione di calore attraverso i muri dell’edificio) ma anche protezione dal rischio sismico ed idrogeologico, così come il corretto uso delle risorse idriche e pluviali, la cui scarsità sta mettendo a dura prova i nostri agricoltori. Senza contare che ogni valutazione della efficienza energetica è priva di qualunque senso se non prende in considerazione la reale impronta carbonica dell’abitazione a cui la si vuole applicare.
In altre parole, ha senso ridurre la dispersione termica (tramite un mantello esteriore, ad esempio) di una casa sul golfo di Napoli allo stesso modo con cui la si riduce in una palazzina di Stoccolma ?
I consumi specifici sono gli stessi ? Se vogliamo veramente raggiungere l’obiettivo della neutralità carbonica entro il 2050 non abbiamo bisogno di soluzioni standard ma di soluzioni realistiche ed adatte ai paesi e alle regioni che compongono la Unione. Ed è verso queste soluzioni che dobbiamo rivolgere nostro sforzo industriale per evitare di disperdere le energie che, come abbiamo visto recentemente col bonus 110 sono finite e non illimitate.
Il secondo tema che sta tenendo impegnato il governo è quello del cosiddetto stop ai motori a combustione interna a diesel e benzina entro il 2035.
La commissione ha infatti recentemente rivisto al rialzo il precedente target per la riduzione di emissioni dal settore dei trasporti imponendo entro il 2035 lo stop alla vendita di automobili non a emissioni zero. Questo rappresenterebbe la fine per i motori diesel e benzina e le tecnologie ad essi connessi, visto che come è noto alla base di esse vi è la combustione e quindi l’emissione di anidride carbonica.
A poco è servito il monito del direttore generale della associazione europea di costruttori di automobili (ACEA) sulla possibilità concreta di perdere circa 500.000 posti di lavoro direttamente ed indirettamente connessi al settore a causa della corsa contro il tempo che costringerebbe tutte le aziende a rivedere completamente i piani di investimento e di ricerca e sviluppo verso soluzioni solo elettriche.
L’approccio dirigistico e centralizzato che ha assunto la Unione rispetto al tema della decarbonizzazione della mobilità distorce lo sviluppo di un mix equilibrato di soluzioni che sta nascendo nel settore (veicoli elettrici, ibridi, a benzina e diesel, a gas, a idrogeno) e che già sta garantendo una progressiva riduzione delle emissioni (-23% dal 2016), senza concentrarsi su un approccio concreto al problema.
Il tema della generazione di energia elettrica, della distribuzione e del contesto rimane sempre centrale e non solo per le emissioni di anidride carbonica ma anche per la fattibilità degli interventi. Il parco macchine italiano è composto da circa 40 milioni di veicoli e in un’ipotesi 100% elettrico, si dovrebbe prevedere almeno un punto di alimentazione ogni due auto o in un parcheggio pubblico o in uno privato. Considerando che ad oggi i parcheggi privati degli italiani sono circa 400.000 (dati facilmente verificabili in rete), avremmo bisogno di installare circa 19.7 milioni di punti di ricarica (le famose ‘colonnine’) e questo nell’ipotesi che i tempi di carica si abbrevino notevolmente, altrimenti ne andrebbero installate molte di più.
La postura assunta dalle istituzioni europee non può favorire esplicitamente una tecnologia a discapito delle altre, ma deve essere neutrale e guardare all’obiettivo finale, ovvero quello di un ciclo del trasporto carbonicamente neutro.
In questa direzione si collocano le iniziative di Germania ed Italia sia sul piano istituzionale che su quello industriale. È di pochi giorni fa infatti il lancio sul mercato di un nuovo biodiesel (HVO) da parte di Eni prodotto interamente a partire da oli di risulta e da coltivazioni non in competizione con l’industria alimentare, che non infuisce quindi sul bilancio globale delle emissioni di CO2.
Ma non solo i biodiesel, anche i cosiddetti ’Efuel’ prodotti attraverso una reazione opposta a quella di combustione (partendo da acqua e anidride carbonica si riottiene il combustibile) permetterebbero di garantire la neutralità complessiva del processo senza escludere i motori a combustione.
Uno dei rischi maggiori della direttiva è infatti che i costi di questa accelerazione vengano poi pagati dai consumatori finali e quindi dalle famiglie sulle quali inevitabilmente i produttori automobilistici dovrebbero scaricare almeno parte delle spese per il rinnovo completo dei propri processi produttivi. Inutile dire che a questo proposito qualunque valutazione, anche quelle abbozzate dalla commissione, in termini di costi benefici non possano essere affidabili vista l’immaturità della tecnologia, le troppe variabili in gioco nella supply chain di produzione delle automobili e l’inomogeneità economica del territorio della Unione.
L’aiuto vero che deve venire dalle istituzioni verso il comparto industriale è quello di favorire lo sviluppo di un mix equilibrato per la mobilità, che garantisca sostenibilità, resilienza, sicurezza e affidabilità di fronte alle variazioni del mercato e della catena di approvvigionamento.
Che sia prevalente o no, infatti, la mobilità elettrica richiederà di portare almeno in parte sul vecchio continente la produzione di componentistica elettronica come batterie e microchip i materiali alla base dei quali sono ancora largamente importati dalla Cina mentre sul vecchio continente sono scarse se non del tutto assenti iniziative per una attività estrattiva rinnovata e sostenibile per supportare l’immenso sforzo che attende nei prossimi anni il settore industriale.