Coincidenze e fatalità: non è tutto “Doria” ciò che luccica

doria estDi Enzo Terzi

Il 26 luglio 1956 affondava al largo delle coste statunitensi l’Andrea Doria, transatlantico italiano. Affondava per quella mai ponderabile serie di coincidenze, errori umani e fatalità che da sempre hanno accompagnato le vicende marinare e che, pur nell’orrido delle tragedie che si sono consumate nei secoli, ne costituiscono il lato più subdolamente affascinante.

Il Doria affonda e deve proprio a questo la sua smisurata gloria. Assetati in Italia così come in Europa tutta, di riscatto e di nuove speranze, il Doria incarnò – non senza merito, era una bellissima nave – tutto lo spirito nazionalista che voleva rapidamente cicatrizzare le ferite profonde del secondo conflitto mondiale e ridare al Paese quel ruolo di eccellenza nell’arte e nell’ingegno che dalla storia gli era stato ripetutamente conferito. Il Doria ne era strumento, anzi, uno dei più importanti, perché la sua mobilità avrebbe permesso di portare questo messaggio vivente intorno al mondo.

Questo in buona sostanza il clima – superata l’incredulità – che accompagnò la disgrazia sul mare visto anche che, per la prima volta, grazie alle acquisite tecniche radio-televisive, l’evento riuscì praticamente a godere della “diretta”, fatto questo che ovviamente ne ingigantì la portata emotiva e costituì terreno fertile a toni che ancora molto risentivano, nell’autocelebrazione e nella mitizzazione dell’orgoglio ferito, della retorica del regime che aveva disastrosamente accompagnato il Paese nel precedente ventennio; sembrava più una cronaca di guerra che non una vicenda civile.

Doria Corr“Un pezzo d’Italia se ne è andato, con la terrificante rapidità delle catastrofi marine e ora giace nella profonda sepoltura dell’oceano. Proprio un pezzo d’Italia migliore, la più seria, geniale, solida, onesta, tenace, operosa, intelligente”. Così scrisse Dino Buzzati sulla prima pagina de “Il Corriere della Sera” del 27 luglio 1956 rendendo chiaro a tutti che, oltre al fatto che sono sempre i migliori quelli che se ne vanno, da quel giorno in poi l’Italia buona e brava avrebbe avuto – come se ne fossero mancati – un nuovo simulacro sul quale scaricare la propria delusione. Passiamo pure sopra sul fatto che la “profonda sepoltura” per essere oceanica era piuttosto misera visto che si trattarono di soli 75 metri, profondità questa che è si è no la metà di quella del lago di Como. Era opportuno sottacerla sia perché i morti che inevitabilmente ci furono esigevano il dovuto rispetto, sia perché, mediaticamente, una tale informazione avrebbe trasformato buona parte del creando mito in barzelletta. Quanto all’Italia citata dal Buzzati, lo stesso dimenticò di aggiungere l’attributo di “fortunata” datosi che, ancora in quel periodo, il lavoro e la tranquillità economica per molti erano un miraggio. Infine, visto che il Doria avrebbe dovuto, tra l’altro, cancellare l’ignominiosa fine del Rex suo magnifico predecessore bombardato dagli inglesi sulle sponde all’epoca jugoslave (1945) bruciando per ben 4 giorni affinché il rogo di tanta gloria rimanesse ad imperitura memoria incancellabile, non si poteva non enfatizzare la tragedia per evitare che il sogno italiano si eclissasse senza gloria. Ma è anche per questo che si fanno nascere i miti di oggi, ahimè molto spesso per cercare di risollevare climi che sono ben lontani dal brillare di luce propria.

Eppure, nonostante questa fine che ha sembianze tali da invocare la presenza del più potente dei malocchi o il senso comico che spesso si nasconde in ogni tragedia, sin dal momento della commessa ai cantieri Ansaldo di Genova, il Doria sapeva di essere destinato a portare un grande e pesante fardello. La retorica nazionale che cercava disperatamente in ogni dove di che attingere per risollevare un Paese ancora a pezzi ne fece un predestinato ai fasti della gloria, tanto che il suo affondamento, peraltro avvenuto in circostanze che a distanza di decenni ancora non sono state del tutto chiarite e che, molto opportunamente, in sede giudiziale si concretizzò in un accordo tra le assicurazioni, è stato, oltre che sinonimo di rassegnazione, anche fonte di moti di stizza, come se lo stesso, con questa ingloriosa fine, avesse disatteso ai compiti che gli erano stati assegnati. In altre parole, avendo tra i suoi illustri predecessori, navi abbattute da immensi iceberg provenienti da oscuri pianeti, navi vittime impotenti della barbarie umana, e navi disperse in triangoli maledetti, avrebbe dovuto inventarsi una coreografia più degna sia degli sforzi che della fiducia che gli era stata accordata.

Doria1La sua costruzione era iniziata in quel 1950, anno in cui ai cantieri navali italiani erano state commissionate ben 1 milione di tonnellate di naviglio per cercare di ricreare quella Marina, essenzialmente mercantile e di trasporto passeggeri che aveva avuto nell’osannato Rex la punta di diamante e di cui alla fine della guerra niente più restava. Il tempo dell’aviazione non era ancora maturo e il trasporto marittimo era una voce di capitale importanza nel rilancio dell’economia. Il Doria sarebbe stato il nuovo fiore all’occhiello. E per un breve tempo lo fu con le sue 102 crociere effettuate all’insegna del lusso e della comodità. Ma queste eccellenze devono la loro esistenza (come spesso accade) a più complesse situazioni, talvolta miserande, che tuttavia, proprio in questi simboli sembrano trovare, lanciandosi in un volo d’ottimismo, una sorta di riscatto, una sorta di repetita del “nemo profeta in vita”.

Il trasporto passeggeri oltre oceano era stato per tutti, fino agli anni ’30, oltre che l’unico mezzo per varcare le acque (il primo volo transatlantico di linea fu un Londra-New York nel 1959), un trasporto di emigranti (scomodo ricordarlo ma c’era toccato pure a noi) in un misura che va al di là di ogni percezione se ne possa oggi avere. Le statistiche storiche ci riportano che nel periodo 1860-1920 dall’Italia partirono (solo) per le Americhe (Argentina, Brasile, Stati Uniti), oltre 15 milioni di persone su una popolazione totale che in quei decenni si aggirava intorno ai 34 milioni. Cifre da capogiro. Nel solo 1913 furono oltre 800mila gli italiani che dal nord e dal sud del paese, partirono per la promessa e l’incognita dell’oltreoceano (oltre a quelli che si recarono in altri paesi d’Europa). E non partirono gratis.

Il prezzo del biglietto all’epoca – ovviamente nella famosa e/o famigerata terza classe – era corrispondente circa ai 600 euro odierni per una traversata le cui condizioni, specie sino ai primi del novecento, riportano le cronache, erano estremamente rischiose per incidenti ed epidemie (l’obbligo del medico a bordo – ad esempio – ci sarà in fatti solo a partire dal novecento con la Legge Italiana sull’Emigrazione). Insomma, – nihil novi sub sole – l’emigrazione degli italiani fu un grande business per le compagnie marittime, per i cantieri navali e per tutto l’indotto. Oltre che per i soliti noti come diremmo oggi nell’apprendere che grandi azionisti di compagnie marittime (Lloyd Sabaudo, ad esempio) furono rampolli di casa Savoia (anche se, precisiamo pure, del ramo d’Aosta). Ebbene, se è vero che l’emigrazione italiana via mare fu in totale dalla metà dell’800 al 1930 di oltre 20 milioni di anime è forse ad altre navi che incessantemente fecero la spola dai porti di Genova e Palermo per l’oltre oceano che andrebbe fatto un monumento.

Doria2Tuttavia, l’abitudine a identificarsi nelle eccellenze e a dimenticare il lavoro silenzioso ma certo più concreto non è appannaggio solo dell’epoca d’oro degli osannati transatlantici ma di ogni settore ed epoca dell’ingegno umano. La nave “Italia”, ad esempio, varata nel 1903, veniva impiegata sulla rotta Palermo – New York; stazzava 4.806 tonnellate, era lunga 122 metri e larga 15. Aveva motori a vapore a tripla espansione ed elica unica. Poteva viaggiare ad una velocità di 14 nodi (oltre 2 settimane spesso di viaggio) e trasportare fino a 1.420 passeggeri, di cui 20 in prima classe e 1400 in terza. E così come l”Italia”, oltre 50 furono i bastimenti che svolgevano questo servizio. 20 passeggeri in prima classe e 1400 in terza! Dobbiamo rimproverare a queste navi di non essere state vittima di qualche tragedia per poterle ricordare?

Ma tanti sono gli esempi delle storture della collettiva memoria: conta più – ad esempio – l’irraggiungibile Ferrari che non quei miracoli che furono la Vespa o la Cinquecento (tali da cambiare la qualità della vita a milioni di cittadini) anche se, recentemente, una rivisitazione in salsa radical chic sta riportando questi veri e profondi simboli della ricostruzione del paese all’attenzione del grande e snob pubblico occidentale e non, seppur trafiggendone, con un costo da bene di lusso, il motivo per cui erano nate ovvero quello di concedere ai più una possibilità. Questo è il destino che dal 1957 si è guadagnata: i miti si pagano, almeno secondo le logiche odierne.

Ma di simboli v’è perenne bisogno. E di esempi pure anche se i due non sempre coincidono. Così il Doria attraverso sì l’ingegno e la tenacia (ecco l’esempio) rappresentò anche una sorta di sguardo aperto ad uno nuovo benessere (ecco l’effimero simbolo), una stella del firmamento che aveva alimentato tanti di quei pericolosi sogni che sono quelli propri di chi sarà destinato alla delusione e all’amarezza per aver cercato la felicità in ciò che non avrebbe potuto avere.

In ogni caso all’epoca non si badava a simili sottigliezze, tanto era il bisogno di credere che tutto sarebbe tornato come e meglio di prima. E la vicenda del Doria fu un duro colpo all’immagine della rinascita italiana. Fortuna volle che la fama l’avesse oramai ammantato di gloria tanto che non fu l’ultima delle meraviglie italiane del mare anche se, con gli anni sessanta ed il diffondersi di più saggi e misurati simboli come la nostra 500, tale epopea iniziò a perdere fascino e divenne piano piano solo una questione di denaro, di possibilità economica. L’epoca del bello stava tramontando lasciando il posto a quella dell’ostentazione che aveva in sé tutti i geni necessari ad introdurci in quel vischioso mondo che ancora oggi ci appartiene, del consumismo.

Con essa e il raggiunto benessere, i 20 e più milioni di emigrati sono scomparsi tra i flutti della storia scomoda e fastidiosa. Insieme ai tanti bastimenti e piroscafi i cui nomi sconosciuti sono stati invece, per tanti, l’ultima risorsa e che sarebbero meritevoli, se non di gloria, almeno di un posticino nella memoria comune: Perseo, Lombardia, Città di Genova, Mendoza, Florida, Bologna, Luisiana, Indiana, Lazio-Palermo, Principe di Udine, Virginia, Regina d’Italia, Duca degli Abruzzi, Re d’Italia, Principessa Jolanda, San Giovanni, Europa, Guglielmo Peirce, Regina Elena, America, Taormina, Re Vittorio, Ancona, Tommaso di Savoia, , Principe Umberto , Duca d’Aosta, Principessa Mafalda, Cavour, Duca di Genova, Dante Alighieri, Garibaldi, Giuseppe Verdi, Colombo, Duilio, Conte Rosso, Conte Verde, Giulio Cesare, Conte Biancamano, Virgilio, Roma, Orazio, Saturnia, Conte Grande, Vulcania, Augustus, Victoria ed altre ancora da tutti dimenticate.

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