Dove andrà (a sbattere) la Turchia del sultano Erdogan?

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Di Enzo Terzi

E’ di pochi giorni fa l’ultimo scambio di messaggi con un’amica (della quale evito di divulgare i dati per ovvi motivi), fervente attivista dell’opposizione turca, residente a Izmir, la quale, nel contesto di uno scambio di idee circa i presunti nuovi contatti tra Turchia e Comunità Europea, molto seccamente ha ribadito che, “… come turca, non ha nessuna intenzione né aspirazione, ad entrare a far parte della Comunità Europea. I motivi, inutile che li spieghi, non li capireste ….”. L’amica in questione è stata un’attenta corrispondente in quel maggio-giugno 2013 quando scoppiarono le proteste a Gezi Park e tutto gli può essere imputato, persino di non aver ricette giuste da proporre, ma, certamente non posso discuterne l’aspirazione ad una democratizzazione del paese compatibile, questo è altrettanto certo, con l’essere musulmana (e non già islamista) cosa che a suo parere e non solo, non è di per sé ostacolo in alcun modo.

La Turchia era tornata in cima alla vetta degli interessi dei media e quindi, per la legge del filo teleguidato, dei nostri, proprio in quel maggio 2013, dopo che, se vogliamo escludere l’attentato al papa operato dall’eclettico Ali Agca (1981) ed alcune sporadiche incursioni nelle vicende della resistenza curda del PKK con il famigerato Ocalan (catturato in Kenia nel 1999 dopo esserci piombato in casa grazie ad interventi italiani dell’area governativa, linea questa poi rinnegata dall’allora primo ministro D’Alema che lo fece spedire in Kenia anziché concedergli il richiesto asilo politico) era – così pareva – scivolata in un silenzioso oblio che altro non voleva significare, in definitiva, che non stava nuocendo sconsideratamente agli interessi occidentali e pertanto … “facesse pure quello che meglio reputava opportuno”. Restavano quindi soltanto i romanzi del rampante Orhan Pamuk, ai più sconosciuto fino alla vincita del nobel (2006) per la letteratura (ed invece decisamente da frequentarsi nella lettura) e le vicende più o meno accademiche, senza fine, circa verità storiche ancora ben lontane dalla loro individuazione collegiale.
Le vicende di Gezi Park furono comunque una buona occasione per approfondire la natura di questo paese del quale, ancora oggi, se ne parla molto spesso senza sapere cosa si dice. O, perlomeno, tentando di attribuire giustificazioni da europei occidentali ad azioni che niente hanno a che vedere con i nostri possibili, democratici e talvolta oramai ripetitivi ragionamenti.
La Turchia, nella sua configurazione geografica attuale, è quanto rimane dell’Impero Ottomano, quello che a metà del ‘600 confinava a nord con l’Austria, ad ovest con il Marocco, a sud con l’Etiopia e ad Est con l’Iran. Le guerre balcaniche e la prima guerra mondiale gli furono fatali ed a seguito di essi si prefigurò quella consistenza geografica che è quasi quella odierna a parte piccoli ritocchi successivi alle guerre con la Grecia (1922), alla seconda guerra mondiale e all’occupazione di parte di Cipro nel 1974, fatti questi sui quali sorvoliamo onde evitare di gettare le basi per un intervento enciclopedico.
La fine della prima guerra mondiale, portò con sé colui che ancora oggi da molti nel paese è addirittura venerato: Mustafà Kemal, detto Ataturk (padre dei Turchi) che, una volta ottenuta la brillante vittoria ai Dardanelli contro l’esercito dell’Anzac, prese in mano lo sfacelo lasciato dal sultanato (e dalla guerra che aveva lasciato un paese in enormi difficoltà economiche e sociali) e costruì le basi di una nazione che – almeno fino alla seconda guerra mondiale – riuscì a compiere passi da gigante in tutti i campi, da quello dell’economia a quello dell’istruzione (dove brillò la parità di diritti tra uomini e donne), da quello politico anche internazionale a quello culturale dove, essenzialmente, si consolidò il concetto di un paese laico e non più soggetto all’influenza religiosa che aveva invece pesantemente influito fino ad allora sulle sorti del paese e delle persone.

Il motto di Mustafà Kemal era: “pace a casa e pace all’estero”, curiosamente poi ripreso in tempi recentissimi da Davutoğlu quando era Ministro degli Esteri che mise a fondamento della sua azione diplomatica il principio di “zero problemi con i vicini” (cercava dunque di rassicurarci mentre Erdogan procedeva nella sua islamizzazione?). Tra il padre fondatore, Mustafa Kemal e l’attuale presidente Tayyp Erdoğan vi è un filo conduttore che troppo spesso ci sfugge: la Turchia ha avuto ed ha tuttora necessità di figure molto forti al potere. Se si osserva infatti il periodo di interregno tra il padre-padrone di oggi e l’eroe fondatore, ovvero i quasi sessanta anni che li separano, il paese ha vissuto tre colpi di stato militari ed una vita politica costellata da una trentina di governi che hanno cercato in qualche modo di portare una stabilità, mai riuscendovi, ad eccezione degli anni ’80 che risentono positivamente dell’operato di Turgut Özal, il liberalizzatore dell’economia ed unico personaggio ancora oggi da molti amato, oltre al venerato Mustafa Kemal per il quale si può parlare a pieno titolo di culto della persona. Non vi è paese europeo che viva od abbia vissuto analoghe manifestazioni di venerazione per uno dei suoi capi di stato e questo, oltre a comprendere come la storia della moderna Turchia sia una storia non solo di poteri forti ma anche di persone forti ci lascia intravedere molto circa il carattere di questo popolo.

Oggi il paese è come se fosse diviso in due ed almeno culturalmente in buona parte lo è: da un lato la costa occidentale, quella che guarda il mare Egeo, un territorio che si approfonda nell’interno per circa un centinaio di km e poco più. E’ l’oriente occidentalizzato che più ha risentito delle influenze straniere, tedesche e francesi prima di tutto. E’ il territorio di Istanbul, ormai diventato un mostro di oltre 25 milioni di abitanti, è la terra di Izmir, l’antica Smirne, centri questi ricchi di università, di dibattito, di cultura, di incrocio di culture, più propensi ad indirizzarsi verso un’era di moderazione e di democrazia (non si può certo parlare oggi della Turchia come di un paese democratico nel senso europeo del termine e questo mi pare indiscutibile). Accanto a questa fascia culturalmente più aperta e ricettiva e non “più occidentalizzata” come falsamente si pensa con alterigia, come se tutti dovessero per forza scimmiottarci, si affianca il resto del paese, sconfinato, costellato da centri quali Ankara, la capitale, Adana, Bursa, Kaiseri (divenuta il fiore all’occhiello della triste Anatolia per le sue industrie e la ricchezza delle sue infrastrutture. Città di Abdullah Gül, Presidente della nazione prima di Erdogan, nota questa non casuale), terra di conservatorismo, di responsabilità molto spesso lasciate nelle mani degli imam del villaggio che fanno e sono di fatto braccio operativo dello stato. E fuori di queste città una campagna degna di essere in molti casi paragonata al più depresso dei sud italiani. Una terra aspra, difficile, in fase di spopolamento, abitata, nella parte a sud-est da quella minoranza curda che è rimasta (anche se resta difficile parlare di minoranza per una popolazione che rasenta circa i 20 milioni), dopo armeni e greci, l’ultima mosca da togliere dalla minestra ed i sistemi oggi di fatto utilizzati, hanno somiglianze storiche inquietanti. Ma se Istanbul e Izmir possono considerarsi i territori della rivoluzione culturale (senza per questo, ripeto, intaccare minimamente il credo musulmano a testimonianza che lo stesso può tranquillamente convivere con regole più aperte), il resto del paese è ancora figlio delle scuole coraniche, delle usanze del califfato, e di una povertà specie nelle province lontane che, unita all’ignoranza, è facile preda, appunto, di poteri e di uomini forti.

E lì si sono comprati e si comprano milioni di voti per pochi secchi di carbone per l’inverno, lì si reclutano a centinaia le nuove leve per le forze di Polizia, lì si scelgono i privilegiati che andranno (e vanno) a riempire gli orrendi grattacieli che a Istanbul crescono come funghi, rintuzzando così le velleità di una borghesia colta che si era formata nel corso del novecento, sempre più circondata da queste masse prevalentemente ex-contadine che, in cambio dell’alloggio, hanno venduto corpo ed anima al loro benefattore. Si assiste così all’esodo di centinaia di migliaia di persone che si recano nella odierna Bisanzio così come se si recassero a Sodoma e Gomorra, ben istruiti dall’imam del villaggio sulle cose di cui diffidare per mantenere puro ed inalterato lo spirito dell’islam e, spesso, ben addestrati a diventare le spie di quartiere (come, d’altronde, non essere riconoscenti a chi ci ha offerto una opportunità per lasciare una vita spesso fatta di stenti nello sperduto altopiano anatolico?). E questo processo di islamizzazione che Erdogan ha portato avanti sin dal 2001 con una meticolosità ed una pazienza tutta orientale in molti l’hanno negato fino a pochi mesi fa illudendosi di vedere nello spopolamento delle zone più desolate una opportunità data al popolo di migliorare il proprio livello di vita.

Illusi dal rinnovato dialogo con la minoranza curda (ai quali si dà oggi la possibilità di essere eletti in Parlamento ma che si può bombardare subito fuori dei confini nazionali). Illusi dalla fiorente economia di certe cittadine dell’interno (Kaiseri prima fra tutte) come se fosse un nuovo new-deal che poi, si è ampiamente dimostrato, erano e sono legate a doppio filo con i quadri dell’AKP (il partito di Erdogan).
Ricordo come a fine 2013, durante una riunione al Parlamento turco, il leader dell’opposizione, proprio in riferimento allo scandalo che stava montando sugli interessi personali perseguiti dalla dirigenza dell’AKP e sulla famiglia stessa dell’allora premier, in piena assemblea se ne sortì – ahimè infelicemente per noi – domandando ad Erdogan e compagni: “… e che siete diventati i nuovi Berlusconi?…”.

Illusi dal fatto che le sommosse di Gezi fossero bravate giovanili e non un malessere ben più diffuso proseguito poi tra bombaroli e omicidi fino alle recenti vicende sia dell’attentato costato cento morti ad Ankara (10 ottobre 2015), sia dell’uccisione dell’avvocato curdo per i diritti umani Tahir Elci il 28 novembre ultimo scorso.
Ecco perché la Turchia non è ancora pronta ad una esistenza nella democrazia. Ecco perché ancora la Turchia non può fare a meno di uomini forti. Un paese dove le cose non si discutono ma si risolvono per le spicce cercando poi una giustificazione da dare in pasto a chi la chiede. E’ per la drammatica situazione culturale della propria popolazione che l’uomo forte, il simbolo, l’esempio, diventa eroe e nemico indispensabile. Nessuno potrà mai arrivare al livello di venerazione cui è arrivato Mustafa Kemal e lo stesso Erdogan, che evidentemente vuole proporsi come alter ego islamico al predecessore laico, con la costruzione di quella ridicola reggia ad Ankara nella quale ama presentarsi agli inviati stranieri, contornato da quei burattini che tanto assomigliano ai pupi delle storie siciliane, vorrebbe riuscirci ma, disgrazia ha voluto che non sia riuscito a mettere in tempo tutti i giornalisti in galera e qualcosa è trapelato circa interessi che certo ne offuscano fin troppo la figura.

Ed a niente è servito oscurare a più riprese twitter ed in parte facebook, convocando nel frattempo i propri elettori e promettendo loro, molto più biblicamente che non secondo i dettami coranici, che i “figli sarebbero stati riportati sulla retta via, perché erano figli della Turchia, figli del popolo turco”. Questo in Turchia è possibile perché chi detiene il potere, può sercitarlo senza mezze misure e l’opposizione sa di rischiare tutto il peggio possibile, dall’essere malmenati, cacciati in galera o uccisi, senza che nessuno possa concretamente farci qualcosa.
Ma in Turchia sanno anche che non potrebbero permettersi una democrazia come quella dei paesi europei, non è nel loro dna e tutto finirebbe in una orgia sanguinolenta. E’ un popolo duro, che tuttavia all’autorità risponde con l’obbedienza, foss’anche a malincuore, ma con l’obbedienza. Un popolo di soldati (leggi anche: carne da cannone) che come tali sono stati allevati e governati fino ad oggi (la storia stessa insegna come anche ai tempi dell’Impero Ottomano, come racconta Evliya Çelebi, scrittore e viaggiatore turco del 1600, nei suoi volumi di viaggio all’interno dell’impero, tra l’altro appassionanti, come i grandi artigiani e maestri d’arte di Costantinopoli, fossero greci, ebrei, armeni, slavi, italiani).

Da questa sorta di discendenza guerresca si è via via allontanata quella fascia costiera del paese che sta mettendo a repentaglio con il proprio atteggiamento disposto al dialogo ed al confronto questo meccanismo che, da secoli e secoli, ha sempre funzionato. Ma il mantenimento nell’ignoranza di una buona fetta della popolazione gioca il suo bel ruolo nella gestione del potere, tanto che, come spesso succede, si assiste ad incredibili esternazioni da parte della dirigenza sia civile che religiosa, talmente grossolane da far ridere il mondo intero (una delle ultime che indicava i turchi quali scopritori delle Americhe grazie a farneticazioni circa le rovine di una moschea a Cuba è solo l’ultima di una lunga serie, senza parlare dei diktat dei vari imam di provincia circa la gestione dei rapporti familiari o più in generale sessuali, per non parlare poi della messa in discussione da parte di un imam di provincia, delle leggi galileiane in quanto, pare che non ci sia capito nulla perché è il sole che gira intorno a noi).Tuttavia chi le pronuncia ha un suo seguito che anzi, si infiamma al pensiero che il popolo turco possa giocare o aver giocato un ruolo di preminenza nella storia del mondo, sia perché non si hanno strumenti né culturali né critici per poter mettere in dubbio le affermazioni stesse, sia perché le stesse non si discutono in quanto vengono dagli unici riferimenti che si hanno, sia perché il popolo turco ha bisogno di sentirsi parte di qualcosa di grande. Affermazioni che certo non si sentono pronunciare nelle Università né di Istanbul né di Izmir (ma nemmeno nei caffè) anche se, di recente, corbellerie simili sono uscite dalle finestre dell’Università di Ankara, segno evidente che si cerca pervicacemente di gestire la storia (e anche la vita sociale e privata) a proprio uso e consumo pur supportandola con bestialità accademiche che niente hanno a che vedere con alcuna filosofia, sia essa islamica od altro, nonostante come tale la si voglia spesso spacciare.

Le stesse bestialità in alcuni casi, che stanno tenendo in piedi gli irrisolti appuntamenti con i passati genocidi perpetrati in nome della integrità del popolo turco ma che non possono ancora essere discussi perché discutere quegli episodi sarebbe discutere tutto l’apparato di forte nazionalismo sul quale il paese sta continuando a reggere la propria identità. Una identità che ovviamente non può dare spazio, ad esempio, alle rivendicazioni di una ventina di milioni di curdi che, in molti casi, chiedono oggi non tanto il riconoscimento della Nazione Curda, quanto un quieto e paritetico vivere in una società nella quale sono spesso profondamente integrati.

Amici imprenditori da Izmir, in vero simpatizzanti della partito repubblicano popolare (CHP) sono anni che mi denunciano come le loro imprese via via vengono disertate dai clienti islamisti dell’AKP, altri ancora ed uno in particolare, esponente della minoranza religiosa degli Aleviti, oltre a confidarmi il disinteresse suo e della sua confessione nei confronti di una entrata in Europa, mi conferma come sia stato necessario in questi anni di ascesa di Erdogan, negoziare e mediare un terreno di convivenza. Ebbene sì, non dimentichiamoci che anche qui la differenza tra sunniti e sciiti ha la sua bella importanza e gli Aleviti che sono una “minoranza” da oltre 10 milioni di persone, sciita, hanno il loro bel da fare per convivere con una maggioranza che in Turchia è sunnita. E su questa incompatibilità tra sunniti e sciiti si sono giocate sullo scacchiere internazionale, molte delle alleanze degli ultimi decenni. Ad esempio la mancanza di un accordo con l’Iran, totalmente sciita, ne è la testimonianza più evidente, mentre tutta la complessa vicenda siriana ed in particolare il complesso rapporto con il califfato dell’ISIS è da vedersi fondamentalmente in funzione anti curda. Per non parlare poi dell’immenso giacimento di gas esistente in quel braccio di mare tra Qatar ed Iran (ricchezza, quella del gas, che certo ha giocato un ruolo nel disgelo dei rapporti tra questo paese e gli Stati Uniti) a cui la Turchia cerca di accedere, viste anche le complicazioni con i gasdotti provenienti dalla Russia e che l’hanno portata a stringere seri accordi commerciali proprio con quel Qatar che sappiamo essere sostenitore dello Stato Islamico (accordi con l’Iran sciita sono impensabili). L’obiettivo turco nella questione siriana è riuscire il più possibile ad indebolire la presenza curda ed ogni occasione in questo senso è ampiamente sfruttata. Il resto si vedrà con il tempo. Si prendono armi da tedeschi e americani, si acquista petrolio dall’ISIS, si inaspriscono i rapporti con la Russia abbattendo con modi anche grossolani un aereo sul confine, tutto per aumentare una tensione che non può che sfociare in una più robusta presenza militare nella zona da parte anche della Nato e più si bombarderà, più curdi si elimineranno. Il resto, anche la presenza di Assad, sarà e potrà essere oggetto di discussione.

In buona sostanza, tutte le testimonianze raccolte da intellettuali ed imprenditori turchi nel corso di questi anni dopo i fatti di Gezi Park hanno due aspetti fondamentalmente comuni che ci dovrebbero far riflettere: smettiamo di pensare che ci sia una maggioranza turca che agogna di entrare nell’Europa. Si guardano bene dal volerlo anche se, per alcuni, il miraggio della libertà e della aperta democrazia è una grande tentazione. Ma sanno che rinuncerebbero all’identità nazionale ed alla sovranità dello Stato così come è toccato a tutti noi (vedo con grande sforzo uno Stato turco che delega la propria indipendenza monetaria ad una Bce …). E non so in fondo, almeno per questo, dar loro torto. Troveranno altre strade, più confacenti alla loro storia. Nel contempo smettiamo di confidare nella presenza turca quale presunta barriera davanti ad un medio-oriente islamico ed ostile, viste le oramai conclamate responsabilità occidentali in quella zona anche solo ripartendo dalla prima guerra nel golfo, se non addirittura davanti ad una cortina di ferro che in qualche modo si sta tentando maldestramente di far resuscitare datosi che la Russia, con il suo stile di sempre, prima fa e poi lascia dichiarazioni.
La Turchia vuole un ruolo di preminenza in quell’area, ma lo vuole alle sue condizioni. E chiunque serva a questo scopo è il benvenuto. E se ridicolamente oggi si abbozzano tentativi di rimettere sul tavolo delle trattative per una (ancora?) possibile adesione turca alla Comunità europea evidentemente si palesa solo la propria debolezza. Se il suo ruolo nella Nato è stato reso possibile e fino ad oggi accettabile è perché in quel consesso chi fa le regole sono gli Stati Uniti, ma ciò non vale per l’ingresso nella Comunità europea. Forse prima dei fatti di Gezi Park, attribuendo ad essi il merito di aver mostrato al mondo le difficoltà interne a quel paese, si poteva, seppur superficialmente, essere indirizzati ad un accoglimento della Turchia confidando in quello che apparentemente poteva sembrare un cammino verso una modernizzazione in senso democratico. A ciò contribuiva inoltre anche la crescita economica che l’accompagnava, ma le recenti posizioni prese dalla sua dirigenza credo che rendano ardua la comprensione.

Vuoi per simpatie in campo internazionale con chiari atteggiamenti nei confronti delle cosiddette “primavere” nord-africane ed in particolare dei Fratelli Musulmani, vuoi al proprio interno con la bufala dell’apertura di un dialogo con l’etnia curda tanto che si è concesso di entrare in Parlamento solo per smembrare la seppur inefficiente opposizione, vuoi per gli interessi che sembravano convergere in merito al transito del gas, vuoi per l’atteggiamento nei confronti della questione siriana e la gestione, tutt’altro che cristallina (si parla e si documenta di detenzione e di rimpatri obbligati) dei profughi che intendono raggiungere le coste greche (a Izmir è fiorentissimo il mercato dei gommoni e dei salvagente), credo che l’unica ragione di un ingresso turco nella Comunità sia da limitarsi alla necessità di credere che possa farci da cane da guardia così come, a suo tempo, fu autorizzata la nascita dello Stato di Israele nel ’48 (anche se lì v’erano anche da riconoscere enormi questioni morali e da ripagare i grandi finanziamenti dei ricchi ebrei d’oltreoceano).

Ma la Turchia non è uno stato che deve crescere, la Turchia ha un suo programma ben preciso che persegue con determinazione ed anche con ferocia e, se accetterà di continuare a fare da cane da guardia (ammesso che possa essere ancora possibile), lo farà alle proprie condizioni e continuando a giocare su più tavoli. Ed a nulla mi pare valgano interessi né economici né geopolitici visto che, con o senza il placet anche della Nato, la Turchia sceglie di volta in volta l’obiettivo dei propri interventi solo in funzione di potenziare la propria identità che va di pari passo con la smania di essere protagonista, come la storia gli ha insegnato ad essere. Nazionalisti erano e sono i seguaci di Mustafa Kemal, nazionalisti sono altrettanto i nuovi islamisti. D’altronde essere stati per secoli il più grande impero del bacino mediterraneo ha ben lasciato qualche abitudine e qualche nostalgia. Erdogan avrebbe dovuto, secondo gli immancabili ottimisti europei, incarnare colui che avrebbe potuto fare da traghettatore verso una Turchia aperta e democratica. Ma non erano queste le sue intenzioni se non nei sogni di qualche analista europeo che doveva sostenere certe lobby finanziarie.
Tutto ciò non sia di freno al prosieguo dei contatti; è giusto che continuino a proliferare, ma se ne cambino, per favore, le basi e gli obiettivi. Si comprenda come, oggi, la Turchia non rinuncerebbe mai né alla necessità di essere a tutti i costi protagonista della sua zona geografica né, tantomeno, alla propria assoluta sovranità. I problemi della Turchia – tutti gli interlocutori ascoltati hanno sottolineato – sono problemi che solo la Turchia può e deve risolvere. Non c’è comunità al mondo che possa dettare regole su come e cosa fare.

La Comunità è ampiamente avvertita con le sue ridicole percentuali. “Omuz omuza (tutti insieme) era diventato il ritornello dei “çapulcu” (buoni a niente o vandali a seconda delle interpretazioni) così come vennero etichettati da Erdogan i dissidenti di Gezi Park, ma l’esortazione non ha funzionato per quanto in tutte le più grandi città fossero esplose le manifestazioni; evidentemente ancora i tempi non sono maturi. Oggi Erdogan, con le ultime elezioni, ha consolidato la propria presenza grazie ad un 49% di voti a favore, ancora una volta deludendo tutti i media occidentali e le dirigenze europee che ben altro ci volevano far credere. Che ci sia arrivato con mezzi discutibili, con l’inganno, o quant’altro di deprecabile, il 49% è sempre una percentuale che i nostri leader europei (specie i nostrani che per non correre rischi, evitano del tutto di mandarci alle urne), ben si sognano in simili frangenti. Una percentuale che anche se non gli permetterà in autonomia di poter cambiare la costituzione come intende fare (ed anche in quella occasione, se mai gli riuscirà, si potrà apprezzare la svolta decisamente islamista impressa), ma che certo gli permette di avere sotto di sé un governo solido e tutto a favore.

Nel mezzo a tutto questo le opposizioni, per lo più silenziose (in Turchia si rischia grosso ad essere contrari), che guardano all’Europa sempre più scetticamente nonostante il richiamo sempre suadente della libertà di parola e di costume che appare comunque, vista la debolezza ormai conclamata della Comunità, meno appetibile di prima perché il binomio libertà/autorevolezza sembra a rischio di dimostrazione.
E stante le cose e la velocità con cui oramai ci si muove in Europa è forse il caso di dire: inshallah.

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