di Fedra Maria
La fiera di Padova, con annessa la riflessione sulla svendita da parte dell’Italia anche del proprio ormai misero patrimonio automobilistico, mette altro sale sulle ferite che il nostro paese ha ancora ben presenti sul proprio corpo. Ma che nessuno però mostra l’intenzione (istituzionale) di analizzare e scomporre adeguatamente.
Qui il punto non è soltanto quello di essere nazionalisti, o di voler proteggere per un consunto senso di conservazione: quanto quello di progettare in maniera organica strategie e scelte, sia politiche che industriali, così come fanno gli altri players.

Due esempi possono venirci in soccorso in questo senso. Del livello democratico e sociale turco abbiamo scritto a più riprese: la deriva di Erdogan, come è noto, non solo è autoritaria, illiberale e pericolosa per via della sua profondità strategica in salsa neo ottomana, ma è anche in antitesi con tutti i principi occidentali esistenti. Però il governo turco può contare su una classe diplomatica di buonissimo livello, formata da personale qualificato, adeguatamente formato, che sa prendere le decisioni e si prende la responsabilità di prenderle.
L’invasività turca in Libia non deve sorprenderci: oggi l’Italia si trova a chiedere “permesso” ad Ankara in un territorio dove dovrebbe essere soggetto principale.
In secondo luogo vanno citati i Balcani, dove ancora laTurchia sta procedendo ad una lenta ma costante marcia di inserimento. Non c’è solo la Cina sul costone dinanzi alle coste adriatiche con la Via della Seta: quella è la punta dell’iceberg. Erdogan ha sapientemente mosso le sue pedine al fine di avere più di una zampa in quei paesi. L’ultimo investimento è stato fatto in Albania, dove la Turchia costruirà un aeroporto internazionale. Ma i Balcani dovrebbero essere cosa nostra, in senso italico del termine, non l’ennesima enclave da dove rischiamo di essere relegati ad attori non protagonisti. Il perché è presto detto.
L’Italia nei Balcani potrebbe rappresentare un vero pivot alla voce gas, il dossier scottante di cui in troppi si accorgono solo adesso, ma che da ormai un decennio sta direzionando alleanze e relazioni in tutto il mondo. Roma, a differenza di altri, ha il pregio di poter dialogare con tutti paesi balcanici senza alcun tipo di criticità religiosa, sociale, storica o politica. Perché dunque non sfruttare al meglio questa peculiarità per portare a casa un risultato di primo piano?
La risposta, come in un gioco dell’oca, la si ritrova nel manico: ovvero la Farnesina. Cambiano i ministri, ma il gotha della burocrazia, quella che orienta da anni scelte e non scelte, non cambia. Ecco la vera riforma da fare nella politica estera italiana.
Persistere nel voler guardare un mondo in rapidissima evoluzione con le lenti del passato è folle, perché tra l’altro non porta risultati, semmai danni elevati al cubo. La sottovalutazione italiana delle crisi in Libia, in Siria, in Etiopia e anche della scomposizione strategica che proprio nei Balcani si sta verificando, rappresenta un errore blu, di cui pagheremo fio nei prossimi lustri.
Quel dazio però, sarà utile rammentarlo, non sarà figlio della sfortuna, o del solito complotto contro l’Italia, ma chirurgicamente la conseguenza di politiche miopi messe in campo da strutture obsolete.
Per cui oltre al Pnrr, che occorre al paese, sarebbe necessario immaginare una nuova visione per la politica estera italiana, sempre ancorata alla Nato e all’atlantismo, ma capace di interpretare in maniera autorevole la stagione di nuovo multilateralismo in cui ci troviamo. Difficile ma non impossibile scrostare la polvere, per far entrare finalmente aria pulita lì su quel pezzo di Lungotevere.
@PrimadiTuttoIta