Tutti in piedi per Albertazzi: una lezione a chi fa solo polemiche

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di Enzo Terzi

Parlare di un personaggio come Albertazzi, tanto più nell’imminenza della morte – spesso il momento in cui più si parla di ciascuno di noi senza, ahimè, aver diritto di replica – è questione che trascende il mestiere dell’attore, l’estro dell’artista e, quale summa vitae, quella della persona.

E’ stato sufficiente accorgersi com’anche a livello popolare il ricco silenzio di tanti (gli stessi che si erano anche recentemente sperticati in eloqui ed elogi funebri per i personaggi più disparati) che pure ne avevano apprezzato le doti interpretative, conducesse simbolicamente alle infinite questioni ancora aperte della recente storia italiana, fornendoci una nuova manifestazione di quell’ostracismo – spesso promosso da chiacchiere e pregiudizi – che altro non dimostra quanto poco si conceda alle vicende altrui e quanto invece, per contro, si pretenda comprensione per le nostre. In altre parole come sia facile arrogarsi il diritto di essere giudici della storia e con essa dell’uomo solo in virtù di presunzioni politiche che (come tante leggi e leggine italiane che spesso hanno il pessimo vezzo di dichiarasi “retroattive”) non solo debbono valere per il presente, ma senza dubbio per il futuro e, chissà poi perché mai, anche per il passato ed il trapassato. Passato e trapassato di cui in fondo si vuole molto spesso ancora conoscere e soppesare ciò che più ci piace dandone ora il peso di una piuma ora di una barra di piombo.

Non è abitudine e questione solo italiana questa. In molti paesi molta della documentazione relativa a fatti storici importanti, come una guerra civile ad esempio, vengono tenuti dai governi secretati almeno un cinquantennio, proprio per permettere al tempo di ripristinare quel minimo di obiettività che dovrebbe essere propedeutica ad una quanto più possibile corretta interpretazione delle parole e dei fatti.

Scrivo da un paese, la Grecia, dove molto di quanto successo dall’indomani della fine della Seconda Guerra mondiale, ad oggi è tenuto ancora “sotto protezione”. E vi garantisco che una guerra civile quadriennale ed una dittatura settennale – quest’ultima ben recente – sono ben lungi non solo dall’entrare correttamente nella storia, ma anche di essere discusse, salvo qualche piccolo accenno che, tra l’altro, proviene da voci non solo fuori dal coro ma anche fuori dai confini. Perché dunque meravigliarsi? La meraviglia giunge quando non si dibatte di un fatto o di una situazione, quanto di una singola persona che, tra l’altro, così scrivono gli atti dello Stato Italiano, ha pagato il prezzo sociale della scelta a suo tempo effettuata (le vicende e gli atti relativi sono reperibili ovunque) in un periodo in cui, mi permetto ricordare, l’Italia tutta era in guerra e non con il telefonino in mano.

Albertazzi3Così, dopo aver dato all’arte italiana oltre sessant’anni di lustro e di gloria internazionale, ciò che in realtà sembra (a molti, troppi direi) aver contato dell’uomo Albertazzi è la sua scelta giovanile alla quale non è seguita la galileiana abiura che molti pretenderebbero anche oggi, post mortem.

La mia non vuole essere una difesa dell’uomo del quale ho apprezzato a lungo ed in più occasioni l’estro, la bravura, l’istrionismo, la maestrìa. La mia è invece è una riflessione che viene, ad esempio, al seguito dei commenti raccolti dopo il referendum inglese il cui risultato a molti (al solito hanno sempre da dare fiato alla bocca) è parso il frutto di voto lasciato in mano a vecchi e ad ignoranti. Il salto da compiere non è poi tanto lungo. Dovremmo forse convenire che il più grande risultato della democrazia sia quello di aver costituito il principio in base al quale tutto ciò e tutti coloro che non la pensano come noi sono … della peggiore specie (una estensione in senso democratico del “chi non è con me è contro di me”, affermazione questa che non giudicava ma solamente prendeva atto). Beninteso, attribuendo nel contempo la più grande amnistia nei confronti del nostro operato che per quanto esecrabile, infingardo e vigliacco è corredato di una serie di attenuanti tali da renderlo inattaccabile.

Vi sono termini più attinenti a quanto un paese dovrebbe fare a seguito di episodi quali, appunto una guerra civile. Occorre coraggio senza dubbio ma anche autocritica e spirito incline a considerare le azioni in relazioni alle situazioni. Non a caso tante vicende simili a quelle di Albertazzi furono oggetto delle varie amnistie, la prima proprio di Togliatti nel 1946, alla quale seguì l’estensione voluta a Andreotti nel 1948 e via dicendo. La pace sociale era necessaria per uscire anche intellettualmente dalle conseguenze della guerra e certa caccia all’uomo (già abbondantemente esercitata) sorretta da odi accumulati e velleità epurative non dissimili a quelle che si era voluto combattere, non erano certo il miglior espediente da utilizzare. Attrice principale di questo grande sforzo, in ambito europeo, fu proprio la Germania, con un maxi processo del 1963 che si tenne a Francoforte. Processo tutto interno alla nazione questo (accusa tedesca, imputati tedeschi, difesa tedesca) sul quale è stato recentemente anche prodotto un ottimo film “Il labirinto del silenzio”.

Un episodio ai più sconosciuto che invece meriterebbe di essere attentamente valutato. Da parte italiana, per par condicio, mi preme sottolineare la seppur recente trilogia di volumi che il saggista e giornalista Giampaolo Pansa ha dedicato ai ruoli ed alle gesta di quegli anni terribili per tutti. Ed anche in questo caso, le differenti accoglienze ricevute testimoniano come l’argomento sia ben lontano dal poter essere discusso con sentimento finalmente storico e non più emozionale.

Ebbene da questa totale impreparazione che dilaga ancora oggi non è rimasto esente nemmeno Albertazzi che per tanti, per quanto abbia nei decenni offerto le più alte espressioni artistiche, resta e resterà sempre il repubblichino ventenne del ’43. Eppure chi non ha proprio vent’anni dovrebbe ricordare alcune sue interpretazioni come le letture di Dante o ancora l’Edipo re di Sofocle, il Peer Gynt di Ibsen di cui curò una mirabile regia, o ancora – evidentemente i meriti artistici erano fuori da ogni discussione – “Il diavolo con le zinne”, insieme a Franca Rame su testo di Dario Fo, sufficienti a riservargli almeno una menzione oggi, al momento della sua dipartita. No. Al momento giusto l’ira funesta tutt’altro che omerica, si è abbattuta non tanto contro di lui quanto contro coloro che volevano in qualche modo testimoniare alla sua morte (ivi compresi gli onori ufficiali della politica che, tuttavia non erano certo una novità avendo, l’Albertazzi, già ricevuto durante la sua carriera, ampi riconoscimenti), con toni ottusi ed anche incitanti proprio a quella violenza che si imputa alla sua scelta di ventenne in guerra, oltre settanta anni fa.

E mi riferisco a dichiarazioni tipo quella rilasciata ufficialmente dall’Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea. Gli elogi funebri a Giorgio Albertazzi”:Increduli e sgomenti per gli elogi e il cordoglio che si alzano –anche da parte delle più alte cariche dello Stato- in occasione della morte dell’attore Giorgio Albertazzi, vogliamo ricordarne la figura di milite della Tagliamento, di feroce rastrellatore di partigiani e civili, dal Grappa alla Valcamonica. In occasione dell’anniversario delle bombe di Piazza della Loggia ci pare doveroso sottolineare che quella orribile strage è opera dei figli e nipoti di quella splendida figura di italiano, che in questo smemorato paese si tende ad onorare. Che ognuno, per favore, pianga i suoi di morti. Il presidente Angelo Bendotti, la direttrice Elisabetta Ruffini, il Consiglio direttivo dell’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. (sito internet: isrecbg.it/web/?p=6648).

Albertazzi5Se è a entità come questa che dobbiamo lasciare l’onere di scrivere ed interpretare la nostra storia del secondo novecento credo sia meglio continuare a studiarla fino al 1945 come si faceva nei licei ai tempi miei o come, ad esempio, si fa ancora qui in Grecia. Ma la frase più antistorica non è la capziosa menzione del disastro di Piazza della Loggia come se fosse l’unico simbolo degli anni di piombo, quanto quel “ognuno pianga i suoi morti”, testimonianza che ancora, evidentemente, i ricordi, le impressioni ed il vissuto personale la fanno da padrone sulle obiettività storiche che se non altro concedono ai morti pari dignità. Insomma … cose che al massimo dovresti trovare su Facebook.


E tornare a parlare di teatro e delle sue interpretazioni solleva l’anima da questo pantano di odi non sopiti, di incapacità a compiere quella catarsi che è propria di ogni tragedia e di ogni società civile che assorbe trasformando in esperienza quanto è stato del proprio passato.

Uno degli spettacoli che forse più si è potuto plasmare con l’eclettico Albertazzi è stato “Le Memorie di Adriano”, tratto da un testo di Marguerite Yuorcenar. Uno spettacolo che ha riproposto dal 1989 in poi per quasi mille repliche.

Un testo dove la filosofia al potere incarnata dalla figura di Adriano si trasforma in ironia melanconica ed istrionica constatazione di una vita che prima di indulgere nel momento dedicato alla memoria, è stata un turbinare di passione e di astrazioni all’inseguimento dei propri sogni. E la memoria, nel momento in cui sovviene, nel momento adatto ad essere evocata spiega per voce di Adriano come “Le parole ingannano: la parola piacere, infatti, nasconde realtà contraddittorie, implica al tempo stesso i concetti di calore, di dolcezza, d’intimità di corpi, e quelli di violenza, d’agonia, di grida”, sintetizzando come dietro ad ogni azione mossa da passione vi sia un lato oscuro, talvolta imponderabile ed un lato razionale, lineare, atteso, quasi scontato. E Albertazzi ha incarnato nella propria vita, in particolare quella lunga dell’intellettuale e dell’artista, questo dualismo, questo sentimento che fa dell’uomo in ogni attimo della propria vita il protagonista di se stesso. Continua infatti Adriano: “Ero dio, semplicemente, perché ero uomo. […]Credo che mi sarebbe stato possibile sentirmi dio anche nelle prigioni di Domiziano o nelle viscere di una miniera”. Niente avrebbe potuto sottrarmi il ruolo di protagonista della mia vita.

“Trahit sua quemque voluptas” ognuno è attratto da ciò che gli piace; così fa recitare la Yourcenar ad Adriano/Albertazzi, che prosegue: “ciascuno la sua china, ciascuno il suo fine, la sua ambizione se si vuole, il gusto più segreto, l’ideale più aperto. Il mio era racchiuso in questa parola: il bello, di così ardua definizione a onta di tutte le evidenze dei sensi e della vista”.

Sempre se stessi, sempre protagonisti nel bene nel male del proprio obiettivo. E Albertazzi da fine cultore dell’estetismo (era in questo senso un fervido amante di D’Annunzio, ma anche, per quell’amore verso il lato oscuro della passione, dell’Inferno di Dante di cui è celeberrima la sua lettura) senza nulla rinnegare né sulla scena né nella vita di questa sua folle corsa verso l’irrimediabilmente bello ed appagante con tutta la pazzia che porta in sé la passione, anche nell’ultimo istante di vita, ricorda a se stesso come anche la morte vada vissuta parimenti “Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti…..Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti”.

Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti. Così come il protagonista si accomiata dal proprio pubblico così l’uomo saluta la propria vita nel folle quanto sublime tentativo di gestire anche la morte. La propria.

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