Di Enzo Terzi
Francesco Ferrara (Palermo, 1810 – Venezia 1900) è stato un economista, politico e accademico italiano. Così recita l’ormai celeberrima Wikipedia che aggiunge come il Ferrara fu anche senatore del Regno e, per un breve periodo, anche Ministro delle Finanze (1867).
La sua attività prese avvio durante il periodo risorgimentale che lo vide attivo nei moti del 1848 in Sicilia e fervido sostenitore dell’indipendenza siciliana dal nuovo Regno d’Italia reputando che dal giogo borbonico l’isola sarebbe passata ad un altro padrone.
Ma a tanta volontà rivoluzionaria ed indipendentista, pur appartenendo alla folta schiera dei delusi del Risorgimento (di recente ci occupammo di Francesco De Sanctis, altro intellettuale profondamente deluso), decise di intraprendere comunque un cammino di lavoro che lo facesse sentire attivo preferendo una solida e spesso difficile opposizione che non un silenzio che avrebbe potuto aver sentore di complicità.
La sua figura, tra le tante che molta risonanza ebbero più all’estero che non in patria (basti a questo proposito vedere proprio su Wikipedia la scarna scheda in lingua italiana e confrontarla con la ben più nutrita scheda in lingua francese ad esempio) è in realtà quella di un personaggio che seppur dedicandosi alla scienza dell’economia, impostò le sue teorie tenendo conto di riflessioni che appartengono più alla filosofia o all’antropologia permettendo alle stesse di non risultare come mere enunciazioni di natura contabile e/o politica ma di penetrare, alla ricerca di ben più profondi principi e radici nello studio della natura umana dai suoi più elementari bisogni individuali per arrivare ad inquadrare, per estensione, le più complesse tematiche degli scenari internazionali.
Da molti è, per semplicità, ricordato come uno dei padri del liberismo contrari, ad esempio a certe intenzioni espresse da Federico Caffè, fervido sostenitore dell’intervento dello Stato visto come elemento regolatore ed assistenziale del comportamento individuale, di cui recentemente ci siamo occupati. Laddove Caffè spesso vedeva un intervento organizzato dello Stato, Ferrara individua in una gestione etica della ricchezza lo strumento per addivenire ad una corretta gestione delle cose economiche di un Paese.
Occorre qui fare in primis una riflessione di carattere storico: siamo alla fine dell’800 e quindi il termine “liberismo” che poi alla fine del ‘900 assumerà significati di ben altro genere, aveva, a quel tempo, un significato ben diverso laddove, in primis, ancora si dovevano fare i conti con la categoria sociale dei ricchi, in gran parte al contempo nobili, che spesso coltivavano la convinzione che il “volere divino” avesse creato una divisione in classi immutabile ed imprescindibile.
Com’è noto, il liberalismo è oggi (e di questo dovremmo ringraziare il grande lavoro di Ferrara e di altri) una dottrina politica dai contenuti molto ampi e dalle molteplici declinazioni (filosofiche, etiche, sociali, politiche, giuridiche, economiche e così via), al punto da rendere impossibile un’adeguata definizione di questo complesso universo. In particolare e per amor di sintesi si può affermare che il pensiero liberale afferma l’esistenza di una interdipendenza stretta tra politica ed economia, al punto di non potersi parlare di libertà politica senza poter disporre anche della libertà economica.
In particolare, per Ferrara, la libertà economica assume il significato di una prerogativa individuale che affonda le sue radici nelle stesse leggi di natura, fino a caratterizzare, oltre a quelle economiche, anche le principali espressioni della vita civile, politica e istituzionale. Alla base di tutto Ferrara pone il concetto della salvaguardia della libertà individuale: “La libertà è il principio, l’armonia non è che un risultato”.
Partendo dunque dalla “libertà dell’agire”, ne emerge per conseguenza che la figura centrale dell’universo economico di un paese è la figura dell’imprenditore. L’imprenditore è colui che realizza ricchezza attraverso i fatti, dove la ricchezza non deriva dal censo, dall’eredità e neppure dal risparmio in quanto tale, ma da atti produttivi compiuti nello spirito d’impresa.
Ferrara individua pure quegli elementi di degenerazione che ad esempio ai giorni nostri possono individuarsi facilmente nelle speculazioni finanziarie, quando cioè viene persa di vista la finalità produttiva e pertanto solo il diritto di proprietà e le diseguaglianze economiche acquistano la loro legittimazione sostanziale (questo in realtà uno dei pochi punti di contatto con Caffè). Egli critica così quei conservatori i quali, confondendo il principio della proprietà con le sue false applicazioni, “non rifuggono a nulla pur di difendere i privilegi, i monopoli, le rapine, le confische, le oppressioni in tutte le loro forme”.
Per reprimere queste degenerazioni, prosegue Ferrara, soltanto la garanzia di una libertà individuale per tutti gli individui, ovvero una parità di occasioni e di opportunità, permetteranno che “nessuna tra le forze umane si adoperi a confiscare alcuna forza di altri esseri umani”, ovvero non vi sia sfruttamento in forza di diseguaglianze economiche frutto di differenze di classe.
Questo suo atteggiamento che conservava dei profondi principi di parità individuale e di eticità lo portarono ad essere sempre isolato specie in quei primi decenni di nuovo governo italiano cui facevano capo oligarchie la cui ricchezza era – come prima ricordavamo – frutto di nobiltà e di “volere divino” e non di un atto produttivo. La “produttività” dunque in tutte le sue espressioni sociali, ovvero individuale, statale e poi internazionale, costituisce l’asse portante di ogni forma di aggregazione.
La complessa riflessione di Ferrara dunque prende le mosse da quel soggetto che oramai ogni politica odierna ha interamente dimenticato quale elemento principalmente attivo e dunque motore di ogni ricchezza che è il cittadino, ovvero, l’individuo. E l’iter anche filosofico che porta Ferrara a considerare l’individuo come elemento centrale e la sua libertà di agire come motore fondamentale per ogni economia oggi può, nella sua elementarietà, apparire anche bizzarro, abituati come siamo oramai a considerare le necessità individuali come antisociali e politicamente ininfluenti.
Ferrara conia l’espressione “economia umana” secondo la quale il processo economico va inteso come quell’atto riferibile all’uomo e al quale questi prende parte volontariamente allo scopo di placare un bisogno.
“L’economia umana è la trasformazione che l’individuo impone alla realtà per trarne un vantaggio; l’azione è la capacità razionale individuale che elabora gli impulsi dei sensi, concepisce il bisogno, comprende cosa potrà placarlo, individua il modo più opportuno per farlo e delibera come attuarlo”.
In altre parole l’individuo avverte dei bisogni personali, come imprenditore produce i mezzi per soddisfarli. Una volta raggiunto questo traguardo i bisogni dell’individuo (essere per definizione che accresce i propri bisogni in virtù della crescita della sua conoscenza) si identificheranno in bisogni più elaborati e più sofisticati e ripartirà dunque un nuovo ciclo produttivo e così via secondo una spirale virtuosa che al crescere della conoscenza ed al mutare dei bisogni, produrrà nuove soluzioni.
Nuove soluzioni implicheranno nuova ricchezza. Tale meccanismo sarà destinato a ripetersi nel tempo per cui sempre nuova ricchezza si produrrà e con essa nuovo benessere. In virtù della libertà concessa all’individuo, tale ricchezza sarà – almeno nelle intenzioni – alla portata di tutti. “E’ inesorabilmente condannata a fallire quella economia politica che spiega con una legge il modo in cui si debbano formare le ricchezze, con un’altra il modo in cui si debbano ripartire, con una terza il modo in cui si debbano consumare”.
L’anello debole di questa progressione virtuosa è l’incapacità dell’individuo di interpretare il proprio bisogno in una forma che Ferrara dà per scontato essere una forma etica e consapevole, guidata da una razionalità che sia metodo di elaborazione della conoscenza. Manca infatti in tutta l’elaborazione di Ferrara la presenza del principale nemico, del “bisogno” più pericoloso, ovvero la sete di potere. Ferrara ne aveva relativamente tenuto conto, sicuro che ripudiando la ricchezza come frutto di una appartenenza di classe, mediando i bisogni umani con la razionalità e prefigurando un individuo principalmente e totalmente dedito alla produzione, potesse riuscire, ottenendo benessere, a rifuggire quelle degenerazioni anti-etiche e amorali che lo avrebbero portato ad anelare il potere ovvero a godere della forza di altri esseri umani senza “travaglio”, dunque senza impegno produttivo.
Ciò nonostante, è fondamentale come una teoria che vedremo come poi si ripercuoterà nelle gestioni sociali complesse (nazionali ed internazionali), di fatto riparta dall’uomo. Più volte ho avuto occasione di portare le mie riflessioni su questo punto, come cioè fosse e sia necessario rivisitare l’uomo ancor prima delle istituzioni sociali che da esso emanano, istituzioni che altro non sono se non il frutto delle sue personali pulsioni. Si fa politica in funzione dei propri interessi spesso privilegiando unicamente chi più incarna i nostri desiderata, si sceglie il lavoro non in funzione della qualità etica dello stesso ma del profitto che può concedere (che si lavori per una azienda che fabbrica armi, oppure pesticidi o ancora uno degli altri mille veleni che conosciamo, molto spesso – ahimé – non fa nessuna differenza: le cose in sé non sono cattive, lo dissero già quando scoprirono la potenza del nucleare, infatti sono poi state prodotte centrali per l’energia … ma anche ordigni); insomma troppo spesso abbiamo imparato la tecnica delle tre scimmie per esercitare e soprattutto per giustificare l’agire personale.
Sappiamo bene che in fondo in fondo, avremo sempre qualcuno sopra di noi sul quale riversare tutte le possibili responsabilità, riuscendo così a vivere scontenti ma con la coscienza liberata di ogni peso. All’azione si preferisce il compromesso calpestando quella “libertà individuale” che oggi, molto più che non ai tempi di Ferrara potrebbe appartenerci, senza per questo scomodare i più o meno presunti “miracoli economici” di altri paesi, primo fra tutti il New Deal statunitense, naufragato poi in quell’”edonismo reaganiano” che aprì la strada, anzi, l’autostrada a quella serie infinita di degenerazioni – così già centocinquanta anni fa le intendeva Ferrara – che hanno completamente svincolato la ricchezza dalla produzione, legandola strettamente ai giochi finanziari (con risultati di cui tutti in qualche sorta stiamo gratuitamente “godendo”).
La teoria economica di Ferrara non si ferma all’individuo per reputandolo il primo fondamentale anello di ogni politica economica ma cerca di individuare anche i rapporti che dovrebbero legare l’individuo, ovvero il cittadino, allo Stato.
Ferrara identifica lo Stato “in una classe di produttori addetti a procurare quella tale utilità che si chiama giustizia, ordine, tutela, in una parola, governo”, producendo quindi “utilità” che verrà misurata e valutata da “colui che la compri e la consumi, la nazione”. Per questa produzione di “utilità” lo Stato chiederà in cambio al cittadino una tassa. Ma ciò, aggiunge Ferrara, sarebbe un cerchio virtuoso nella misura in cui lo Stato con le proprie leggi e servizi rispetti le libertà di tutti. Laddove invece il governo “utilizzi le leggi per favorire artatamente l’interesse di gruppi ristretti confidando nell’illusione finanziaria o nell’ignoranza, l’imposta diventa il capriccio e l’abuso, da un lato; dall’altro è la schiavitù, l’oppressione”.
Facendo un passo ulteriore Ferrara esamina infine i rapporti economici internazionali quale forma di estensione del buon operare dell’individuo e del buon governo. Le forme dei legami sovranazionali possono realizzarsi “con la soppressione della potenza appropriatrice di un popolo, di una razza, di una regione, oppure con pacifiche convenzioni e trattati tra nazioni”. La schiavitù, le emigrazioni, il colonialismo, le fiere, i mezzi di comunicazione, diventano tutti elementi attraverso i quali si possono creare legami sovranazionali. Ognuno di questi rappresenta un possibile modo che l’umanità ha sperimentato per integrarsi. Alcuni sono fondati sulla violenza e hanno arrecato danni economici ben maggiori degli apparenti vantaggi (ovvio che hanno creato anche danni di diversa natura, etica, morale, ma ovviamente Ferrara ne valuta essenzialmente le ricadute in termini economici). Altri, come la migrazione del lavoro o la nascita delle federazioni hanno favorito il progresso e la diffusione delle conoscenze. Una forma di partenariato che si fondi sullo scambio della conoscenza è destinata a progredire; “è infatti la conoscenza che funge da mediazione tra la sfera edonista della vita e la cosciente formulazione delle scelte. Intelligenza e libertà sono i due requisiti indispensabili affinché gli individui e le nazioni possano accedere allo sviluppo”.
Ferrara, che pure influenzò notevolmente le teorie economiche degli inizi del novecento, come ad esempio quelle di colossi quali Keynes e Malthus, resta uno dei pochi che nella storia dell’economia si sia in definitiva avvalso unicamente di elementi afferenti ad intelligenza e libertà individuali per concepire una immagine di ciclico progresso dove alla conoscenza acquisita si alternino nuovi bisogni, quindi nuova produzione, ulteriore nuova conoscenza, ad libitum. Addirittura in questo processo che per taluni aspetti potremmo definire positivista, anche le fasi di crisi ebbero un preciso ruolo da rivestire.
Le crisi – diceva Ferrara – rientrano tra quegli eventi che esaltano la capacità degli uomini di innovare e migliorare la propria convivenza civile. Negare la crisi o mistificarne la reale drammaticità significa non riconoscere una delle molle che conducono al progresso. Il progresso può essere osservato come l’incremento di utilità che l’umanità ottiene perfezionando il lavoro, l’industria, le istituzioni, la legislazione. Il benessere e la felicità di una nazione possono definirsi solo in questi termini, poiché qualsiasi idea di bene e di giusto assoluto è inevitabilmente vaga, indeterminata e sterile. L’idealismo e lo spiritualismo senza questo supporto e questa mediazione che li rende pratici, culminano senza via di scampo nel dispotismo.
E questa è semplicemente storia: ogni forma dispotica fin dalla più lontana antichità è sorta in ambienti dove regnava ristagno di progresso e di conoscenza. E se il progresso è figlio della conoscenza, la conoscenza è frutto di scelta e quindi di individuale assunzione di responsabilità.
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